• Tappeti Turchi

 

 

 

 

 

 

 

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Siamo andati nella Cappadocia, in Turchia, tra i "Camini di fata" e le guglie di tufo scavate da villaggi interi, dove la fantasia della vita, un tempo, tentava l’avventura; e pure dentro i labirintici cunicoli delle città sotterranee di Kaymakli e Derinkuju e tra i caravanserragli ariosi di nomadi e viaggi.

Avanos alla fine di ogni visita ci accoglieva, al vespro, col gorgoglio lento del fiume Halys e col richiamo lungo e modulato del Muezzin, appeso al minareto. Qui, quando la sera turca pungente ci avvolgeva, visitavamo nel suo negozio Alì Fuat Illeez che, libero dal clamore del turismo, ci accarezzava i suoi tappeti e ci immergeva nella magia di musiche suasive.

Poi sulla scia di aromatici the ci narrava la vita dei tappeti, del sudore che è legato ad ogni nodo, ma anche delle speculazioni e delle frodi che sorreggono il mercato. E visitammo pure Ibraim Tomak, l’anima stessa di Avanos e del sentire turco, e il suo albergo e le sue cantine, e a lui chiedemmo ancora di quest’arte antica del tappeto e del fascino che avvince l’occidente. I folti baffi non celano il sorriso levantino che disarma, ma poi attorno al tavolo di una piccante cena turca, ci introduce ai misteri dei colori e dei disegni, delle dimensioni e delle differenze, della provenienza e dell’età. Ci parla subito d’un suo acquisto: un campo fiorito di cento colori, attorniato da simboli geometrici. Dice che è un tappeto Pergama, fatto cioè a Pergamo, perché i segni geometrici laterali sono un segno distintivo della città famosa per la sua carta "pergamena". Annodato da una fanciulla per sua dote, rimase conservato per la figlia che poi lo vendette senza averlo mai usato. Il tempo gli ha dato valore, ma noi lo compriamo sull’onda della suggestione della storia. Prosegue Ibraim con un tappeto Antalia e con altri della Cappadocia e altri ancora che raccontano origini tribali e familiari, perché spesso i motivi, la tecnica di esecuzione, la scelta dei colori, i simboli diffusi servono a contrassegnare un gruppo di persone e nelle fantasiose creazioni una intera comunità si riconosce. Capita così che una precisa simbologia o un disegno siano tramandati da madre in figlia, come un patrimonio esclusivo, cosicché in esso tutta la schiatta si ritrova, tutto un villaggio si identifica, tutta una regione vi appartiene. Nei caravanserragli, dove le carovane dei mercanti, prima delle macchine, si rifocillavano, i tappeti parlavano per loro, durante la preghiera o durante i pasti, o nelle notti di veglia o di riposo. Perché il tappeto è il luogo sacro, il cerchio magico dentro cui l’Islam dà il senso all’esistenza, dove tutto compie e dove la sua vita consuma. Una moschea non è tale se non è ricoperta di tappeti e in entrambi il "Mirab" è sempre segnalato. Esso è un recinto nel recinto del tappeto e che viene diretto verso la Mecca per pregare, dove è custodita la "Pietra Nera".

E se i disegni e i colori narrano l’appartenenza, mentre la scelta del materiale ha talvolta rilevanza sociale. Esso è per lo più di lana di pecora, rare volte di capra o cammello, che poi viene colorata con sostanze naturali. Migliore è la qualità della lana, più fitti e numerosi saranno i nodi e quindi più bassa la rasatura: ecco perché il manufatto di seta è più sottile, perché ha molti più nodi per la sottigliezza stessa della seta che, richiedendo più lavoro, fa acquistare al tappeto più valore.

Nel Kilim invece non ci sono nodi, è una semplice tessitura che talvolta ha valore anche simbolico. Le ragazze da marito spesso lo espongono alla finestra per segnalare il loro stato: con le frange annodate sono già impegnate (è inutile perdere tempo), con le frange libere sono disponibili. Ibraim prosegue poi tentando di farci capire la differenza fra il tappeto turco e quello persiano. Più che nei colori e nei disegni, ci dice, la differenza sta nella realizzazione del nodo, nella tecnica cioè di annodare la lana o la seta sulla trama e l’ordito. Come accorgersene? Difficile all’occhio poco non sapiente del viaggiatore che deve fidarsi a questo punto della onestà del venditore. Ibraim sorride ancora e ci parla di accordi che vengono stipulati fra agenzie di viaggio e commercianti. Loro la chiamano "commissione", ma in effetti è una tangente-percentuale che il negoziante paga a chi gli porta gruppi di turisti. Capita così che un tappeto venga pagato un buon 50% in più del suo reale valore e spacciato per ciò che in effetti non è, pur essendo munito di una "garanzia" che non si rifiuta a nessuno. Fra l’altro il tappeto, insiste Ibram, si "legge" soprattutto dal "rovescio". Lì compaiono i nodi, lì la "densità" della tessitura si evidenzia, lì si vedono le effettive sbavatura di lavorazione. E prima di congedarci da questo straordinario affabulatore di preziosità orientali, ci viene sussurrato di approfittare del basso costo della manodopera turca, perché un tappeto dura anche qualche mese di fatica giornaliera che un giorno qualcuno certamente cercherà di regolamentare in termini di diritti sindacali, come in Europa; e allora i prezzi saliranno e il tappeto tornerà ad essere esclusività di pochi fortunati.