• Castagni, cavalli e regine inquiete

 

 

 

 

 

 

 

Sarà banale iniziare una storia con il classico "era una notte buia e tempestosa", ma la notte da cui prende le mosse il nostro racconto era proprio una notte di tregenda, una di quelle in cui è consigliabile rimanersene a casa togliendosi dalla testa l’idea malsana di intraprendere viaggi lunghi e dall’esito incerto. Ma come si fa a far cambiare idea ad una regina? Giovanna d’Aragona - secondo alcuni si trattava però di Giovanna d’Angiò -, infatti, non si lasciò persuadere a non andare incontro alla bufera e, con il suo seguito di cento cavalieri ed altrettanti cavalli, iniziò l’ascesa verso la sommità del grande vulcano per saziare il suo irrefrenabile desiderio di goderne la meravigliosa irrequietezza pirotecnica.Non passò molto tempo da quando la lunga rampicata sulle pendici dell’Etna era iniziata, che gli elementi si scatenarono sulla carovana regale costringendola ad una sosta obbligata. Ospitare la regina con un tal seguito in un sol luogo non era certo cosa semplice, ma la natura dell’Etna, talvolta crudele nelle sue manifestazioni fiammeggianti, sa anche essere generosa come pochi. Ed ecco che le fronde di un albero così grande da contenere tutto quel gran corteo, si manifestarono nella notte, offrendosi come sicuro riparo dalle intemperie. A questo punto si potrebbe supporre che l’attesa di migliori condizioni atmosferiche abbia invitato il gruppo a trascorrere una notte serena. Ed invece, forse frustrata dall’aver dovuto rinnunciare ai suoi propositi turistici, la regina approfittò della compagnia, come narra la leggenda, per attendere il mattino in un’orgia amorosa ampiamente partecipata, in cui soddisfò tutti i suoi cento cavalieri e, insaziabile viziosa, abusando persino di un cavallo. E’ certo che non vi furono testimoni oculari in grado di confermare il racconto che la tradizione popolare ha voluto far giungere di quella notte sino a noi. L’unico che potrebbe aver visto, quel gigantesco albero di castagno che secondo la leggenda avrebbe ospitato l’allegra comitiva, ad oggi, non ha mai svelato lo scandaloso segreto. Tuttavia, di quella notte di gloria della gaudente regina qualcosa è rimasto nel nome che comunemente viene dato a quel fenomenale campione vegetale, ribattezzato "Castagno dei Cento Cavalli". "(...) Mi dissero che Giovanna d’Aragona andando dalla Spagna a Napoli, si fermò in Sicilia e venne a visitare l’Etna, accompagnata da tutta la nobiltà di Catania; ma mentre lei e il suo seguito erano a cavallo furono sorpresi da un temporale; lei fu messa al riparo sotto questo albero, il cui ampio fogliame fu sufficiente anche per riparare dalla pioggia tutti i cavalieri della Regina. Poi mi dissero che fu per questa memorabile avventura che l’albero prese il nome di "Castagno dei Cento Cavalli (...). Essendo la cavità dell’albero davvero immensa, gli abitanti del paese hanno costruito una casa dove si conservano le castagne, le nocciole, le mandorle e altri frutti per farli seccare: è un’usanza normale in Sicilia. Mentre disegnavo questo albero e ne scrivevo le dimensioni, gli abitanti accorrevano e contemplavano questo spettacolo nuovo per loro e si domandavano a cosa servisse il mio lavoro - l’opera originale è custodita presso il museo dell’Hermitage in San Pietroburgo, n.d.r. -" (Jean Houel, Voyage de la Sicilie, de Malta et de Lipari, 1784). A ben guardare quell’albero, ci si rende conto di come esso sia potuto entrare nella leggenda e di come, nelle costumanze delle genti della zona, una tale espressione di mitico strapotere estetico-dimensionale, non poteva che nutrire racconti che ne abbinassero il nome a qualcosa di suadente ed altrettanto regale come una bellissima regina dagli ardori amorosi insaziabili. L’albero, omertoso sulla verità, non ha però alcun pudore nel mostrarsi grandioso, zitto forse perché teme che il racconto di quella notte possa far passare in secondo piano - evenienza che non ci sentiamo di condividere - la sua maestosa imponenza. Sorge nei pressi del paesino di S. Alfio, ad una quota di circa 700 metri s.l.m., e mostra di sè soltanto tre grossi rami, che le moderne tecniche di studio botanico hanno potuto individuare come figli di un’unica ceppaia, il più grande tronco del mondo, seppellito dai detriti trascinati sin lì da un antico torrente ormai asciutto. Questa particolare condizione ha fatto si che a lungo in molti dubitassero che si trattasse veramente di un solo albero, tanto più che di chiome così imponenti non se ne erano viste mai. "Confesso che non sono affatto colpito dal suo aspetto, perché non sembra un albero solo ma una macchia di cinque grandi alberi - altri due rami sono andati perduti in altrettanti incidenti, n.d.r. - cresciuti insieme. Protestammo con le guide che si trattava di un’impostura ma ci assicurarono a una voce che per universale tradizione e per testimonianze unanime della gente del luogo, tutti questi alberi erano una volta uniti in un sol tronco; ben se lo ricordavano i loro nonni, quando era considerato la gloria della foresta e da ogni dove giungeva gente per vederlo. (...). Cominciammo ad esaminare l’albero con maggiore attenzione, e constatammo, infatti, che i cinque alberi avrebbero potuto un tempo aver formato un solo tronco. L’apertura centrale è ora prodigiosamente grande, e ci vuole davvero molta fede per credere che tutto quello spazio fosse un tempo riempito da legno massiccio. (...). Mr. Glover ed io abbiamo misurato la circonferenza ognuno per conto nostro, ricavando esattamente identiche dimensioni, vale a dire duecentoquaranta piedi. Se questo era una volta un unico tronco, è giusto che lo abbiano considerato come un fenomeno straordinario del mondo vegetale, e il suo titolo di gloria della foresta gli va a pennello" (Patrick Brydon, 24 maggio 1770 - Tratto da: A tour through Sicily and Malta. Pubblicato a Londra nel 1773). Le dimensioni di un albero possono lasciare esterrefatti, anche in questi luoghi di Sicilia dove vi sono degli alberi che ne raggiungono davvero di considerevoli, come nel caso di un altro castagno, lì, nei pressi del "Cento Cavalli", enorme anch’esso, detto "La Nave, non perché sia come un nave, ma perché, essendo piegato, la disposizione dei suoi rami che si sollevano gli danno una forma un po’ somigliante allo scafo di un battello; ha un diametro di più di 25 piedi che fa supporre una circonfernza di almeno 75 piedi" (Jean Houel, op. cit.). Il castagno, pur longevo - e si calcola che quello dei Cento Cavalli abbia circa 3.000 anni - e in virtù di questo potendo raggiungere una mole ragguardevole, è anche albero capace di articolare e contorcere il suo tronco in un modo tale da dare l’impressione che sia stato intagliato abilmente da uno scultore ispirato. "Bisogna aggiungere che la natura del castagno è tale che, se anche il cuore si indurisce, si ossifica e muore, l’alburno e la corteccia sopravvivono, vegetano anzi, con una tale ricchezza che possono generare e sostenere dei grossi rami, senza il soccorso del tronco" (Dominique Vivant-Denon, Voyage en Sicilie, 1778). Al cospetto di questo gigante della montagna, quindi, si possono trascorrere ore ad individuare nei suoi rami e negli anfratti più contorti figure fantastiche, evocative di miti e leggende che superano per età la capacità della memoria storica dell’uomo e lasciano supporre che ben altre storie che non quella di una regina di facili costumi quel pacifico gigante sarebbe in grado di raccontarci. Storie di genti che frequentavano questi siti ben prima che la lingua scritta potesse tramandarne le sensazioni e le esperienze, e storie di spaventose eruzioni che hanno vomitato dalle viscere della terra lave infuocate che, una volta raffreddatesi, hanno reso fertile questo luogo incantato e misterioso, fonte inesauribile di ispirazione poetica.

Dal tronco, enorme torre millenaria,

i verdi rami in folli ondeggiamenti,

sotto l’amplesso querulo dei venti,

svettano ne l’ampiezza alta de l’aria.

Urge la linfa, ne la statuaria

perplessità de le radici ergenti,

sotto i lacoontei contorcimenti,

dal suolo che s’intesse d’orticaria.

E l’albero - Briareo lignificato -

ne lo spasimo atroce che lo stringe

con catene invisibili alla terra,

tende le braccia multiple di sfinge

scagliando contro il cielo e contro il fato

una muta minaccia ebbra di guerra.

Giuseppe Villaroel Catania, 1889-1965)

Inutile aggiungere che il viaggiatore che si trova al cospetto di quest’albero prima o poi verrà catturato anche dal fascino del vulcano più alto d’Europa e dalle sue mille attrattive, ma non ci si può sottrarre - d’altro canto lo si vede lì, a due passi - dal visitare il paesino di Sant’Alfio. Nel suo cuore la chiesa Madre, con la sua facciata incompleta che lascia scoperte alla vista le nere pietre basaltiche, non sembra edificata dall’uomo, ma con la gigantesca quinta scenografica dell’Etna, sembra partorita dalla terra, proprio come la più ardita delle colate laviche, a cui aderisce con discrezione la sua natura cromatica. Disperdersi alle sue spalle nel dedalo di stradine che seguono sinuose l’ascesa verso l’alto del profilo della montagna, è un’esperienza indimenticabile, tra scorci verso l’alto che mostrano il rigoglioso distendersi di boschi di castagni e noccioli e le cime innevate dell’Etna, o che si aprono platealmente verso il mare, consentendo di abbracciare con lo sguardo un panorama stupendo in cui sono incastonate perle di assoluta bellezza, come Giarre e Riposto, Taormina e Castelmola, sino alla costa calabrese, a nord, ed a Catania, a sud. Perché mai fermarsi poi a sublimare lo sguardo ed il cuore quando, nella piazza centrale, proprio dinnanzi la chiesa Madre, il cavalier Papotto vi può far provare il gusto unico delle paste di nocciola, di noci, di mandorla e pistacchio e i dolci alla ricotta? Perdetevi anche nelle campagne del luogo alla ricerca del vino rosso dell’Etna, miracolo di perizia enologica, simbiosi perfetta tra esperienza degli uomini e generosità della terra del vulcano.E non è necessario lanciare monete in una fonte per convincervi a ritornare.