Un miraggio dietro l' angolo di Salvatore Angelo Tra storie e antropologia di Nuccio Gambera Monumenti arte e religione di Claudio Parisi Un "immersionme" in scordia di Ntonio La Furno Un allievo di Raffaello nella chiesa di San Rocco di Claudio Parisi Dalla disgregazione sociale e culturale allo sviluppo : Che fare? Un miraggio dietro l' angolo Scordia come numerose altre piccole e medie realtà meridionali, nel corso dell'ultimo decennio è stata protagonista di una rapida crescita economica, che insieme ad una ricchezza e un benessere diffusi, ha prodotto profonde trasformazioni nella cultura e nei comportamenti quotidiani dei suoi attori. Allo sviluppo disordinato e spesso gonfiato" delle attività economiche trainate dalla favorevole congiuntura del mercato degli agrumi, anello portante della sua economia, ha comisposto la diffusione di modelli di consumo, di stili di vita, di canoni estetici, di forme di relazione sociale assai povere di retroterra nel tradizionale tessuto culturale delle comunità. Più delle naturali differenze e tensioni tra una generazione e l'altra, ha prevalso il carattere accelerato dei mutamenti nella struttura socio-economica che ha piegato la cultura dei tradizionali istituti (famiglia, scuola, chiesa e organismi politici) alle nuove regole dei consumo di massa. La quantità e qualità dei beni acquistati ha rappresentato infatti il misuratore, il più attendibile empiricamente, della progressione del processo di emancipazione dalla miseria e dagli stenti, che hanno segnato secoli della storia di questa comunità contadina, alla agognata sufficienza, celebrata con successo in una esplosione di consumi senza precedenti. Che un tale passaggio non sia stato indolore a denunciarlo è la cronaca che in più occasioni ha dovuto registrare fatti criminali di rilevante dimensione, e la diffusione di forme estreme e dolorose di disagio sciale, insieme ad assai meno marginali espressioni di comportamenti giovanili micro-devianti in parte riconducibili allo stereotipo psico sociologico dei protagonisti del celebre cult-movie Gioventù bruciata. La constatazione di una così contraddittoria realtà seppur acquisita dal senso comune come un fatto trasparente, non penetra oltre la superficie la coscienza collettiva, nè suscita più seri interrogativi circa il carattere radicale dei mutamenti che hanno investito la società. Nella piccola cittadina dopo che nella grande metropoli industriale c'è poca differenza, nella nuova società, spogliata di ogni ornamento umanitario, 'Io stare insieme sembra non avere altra ragione d'essere che il produrre e il consumare ( ... ) e tutto ciò che resta fuori da questa visuale non sembra avere alcuna visibilità generale". (P. Barcellona). Liberati i rapporti tra gli individui da ogni vincolo di solidarietà di natura storica o culturale, in gabbiate anche l'affettività dentro lo stesso ordine di ragioni, non resta che un ultimo legame, lo scambio di cose e di apparenze, l'esigenza delle quali ha cessato ogni dipendenza dal bisogno per rispondere quasi esclusivamente ad un'istanza di tipo estetico. L'estrema facilità con cui è stata scissa e negata qualsiasi relazione di continuità, sono stati cancellati nell'indifferenza, nell'arco di pochi anni, capitoli essenziali della storia passata, come mai esistiti, opere d'arte, tecniche e mestieri, tradizioni e personaggi, architetture e documenti, è uno degli aspetti non secondari che dà forma anch'esso a quel nuovo modello umano che pare incarnarsi nell'atto stesso della dimenticanza. Massa di parvenus arroganti, si è preteso che i simboli di plastica e cartapesta della nuova ricchezza si sostituissero stabilmente ai contenuti sostanziali della ricchezza di ogni comunità storica: alla laboriosità, all'intelligenza, all'intraprendenza, allo spirito di sacrificio, alla cultura, alla civiltà sedimentata nelle opere le più minute, testimonianza di queste qualità. L'attuale crisi smaschera la debolezza strutturale di una società e della sua economia che non possono più riparare dietro l'attesa di altre congiunture favorevoli, senza il recupero nella prassi e nei valori morali di quei presupposti culturali la dignità dei quali non è venuta meno neanche di fronte all'ingiustizia che ha dominato per secoli i rapporti sociali. L'assenza di qualsiasi forma di programmazione socio economica, il carattere clientelare e distorto di tanta spesa pubblica, la dipendenza vitale di numerose attività produttive da finanziamenti di natura assistenziale, la mancanza di un ceto di imprenditori cosciente della propria funzione sociale, il ridimensionamento del ruolo conflittuale del sindacato soppiantato dalla costante pratica contrattuale, per quanto sembrino questioni che attengono all'organizzazione economica di una moderna società, nella particolarità della dimensione locale si intrecciano alla trasformazione di un'identità collettiva che ha smarrito ogni codice di Riferimeto oltre all'anarchico sovrapporsi degli interessi individuali. Dovremmo rassegnarci all'omologazione culturale, così come la marcia trionfante della società impone? Dare per scontato lo smarrimento nostro nei gorghi della modernità? Ma quando uno solo dei suoi meccanismi si inceppa come adesso, non c'è appello al progresso, capace di offrire risposte alle domande che inevitabilmente nascono dal vuoto di futuro che si prospetta innanzi. Quanti hanno avuto la lucidità di pensare che la magnifica festa dell'ultimo decennio sarebbe prima o poi finita, non sappiamo. Di certo senza una assunzione di responsabilità decisa e coraggiosa da parte dei nuovi gruppi dirigenti nessun automatismo potrà salvare dalla decadenza le economie e l'identità storico-culturale di società come quelle meridionali, la cui recente prosperità si è sorretta su gambe di cartone. Alla politica, che dovrà scacciare dal suo orizzonte l'ombra del potere partitico e malavitoso sulla cosa pubblica, e alla cultura cui tocca trovare le ragioni e gli interlocutori per un ritorno ad una progettualità sociale, credo spetti di tracciare con fantasia e spirito d'avventura percorsi assai diversi dal passato. E' doveroso per tutti, prima che sia troppo tardi, cominciare a riflettere sulla praticabilità di un modello di sviluppo che abbia nelle risorse naturali, storiche, intellettuali e umane del territorio il suo vero serbatoio di potenzialità e di ricchezza, ponendo al centro di un rinnovato sforzo di elaborazione collettiva la memoria di luoghi, di sapori, di manualità, di produzioni, di tecniche, cancellate dalla realtà troppo in fretta, inseguendo il falso miraggio di un industrialismo che, fragile e privo di una coerente cultura, ha comportato costi altissimi per l'integrità di un ambiente provato negli ultimi anni da una barbarica devastazione. Una controrivoluzione culturale può opporsi per questa via alla crisi attuale e trasformarsi in un grande progetto democratico insieme politico ed economico, solo che ci si assuma la responsabilità e il rischio dell'impresa. Tra storie e antropologia Scordìa sorge sul costone di una valle naturale simile alle tante altre che nella zona degli Iblei sono state incise nella roccia calcarea dalla corrente impetuosa dei corsi d'acqua a regime torrentizio. Anche a Scordia tale valle viene denominata Cava, e lo stesso nome designava il torrente che un tempo la solcava, da Urgu tintu (località a nordovest, dove sorgeva) scorrendo verso sud-est, in direzione del Biviere, nell'estremo limito meridionale della Piana di Catania, nei campi leontini, ídentificati con i campi le strigonil della mitologia. Come il vicino Colle di S. Basilio, che però appartiene al territorio di Lentini, già in età preistorica e protostorica anche il territorio sul quale si è sviluppato il paese di Scordia ospitava insediamenti umani, come è attestato dalle grotte artificiali ancora visibili nella Cava propriamente detta, a est del centro abitato, e nel tratto in cui la valle assume il nome di Grotta del Drago, a nord-ovest, in prossimità di Urgu tintu. Fonti letterarie e archeologiche, poi, documentano la presenza, nello stesso territorio, di popolazionì sìcule, greche, romane, bìzantine, arabe e normanne. E al periodo normanno risalgono i primi documenti scritti finora conosciuti ai quali ricorre il toponimo Scordia. Si tratta di due diplomi (uno del 1131 e l'altro del 1151) in cui viene sancita la donazione di alcuni possedimenti, peraltro ancora non esattamente localizzabili con criteri scientifici, ai Cavalieri del Tempio. Un altro documento dell' età medievale ci informa che nel 1255 il Casale di Scordia Suttana viene donato dal Papa Alessandro IV ad un tale Nicolò di Sandùcia, nobile guelfo di Lentini. Apprendiamo così che in quella data il territorio dell'odierna Scordia era un feudo con un piccolo nucleo urbano localizzabile, appunto, sul costone occidentale della Cava, attorno a quella che oggi viene indicata come Casa Cancellieri, dai più identificata come l'antica casa baronale. Fu Antonio Branciforte che, dopo avere "nobilitato" il feudo portatogli in dote dalla moglie Giuseppina Canipulo, nel 1628 ottenne da Filippo IV di Spagna la licentia populandi cioè il diritto, dietro il pagamento di 400 once, di rifondare il paese e di divenirne il primo Principe. A lui si deve l'avvio di uno sviluppo urbanistico che, orientandosi lungo le direttrici est-ovest e nord-sud, ha assunto il caratteristico impianto a scacchiera che mantiene ancora oggi. Anche se non vi si notano la cura e l'attenzione che meriterebbero i monumenti più rappresentativi del centro storico, cioè il Palazzo Branciforte (1628), la Chiesa Madre di San Rocco (1628), l'ex convento dei Frati Riformati di San Francesco con l'annessa chiesa di Sant'Antonio (1644), la chiesa del Purgatorio (164 8 circa), nonché le caratteristiche case contadine. Queste ultime sono un chiaro esempio di sapiente organizzazione dello spazio in una società povera fondata sulla cerealicoltura quale era quella scordiense di non molti decenni fa. In netto contrasto con i poco armoniosi palazzi, solitamente abusivi, derivanti dal successo economico legato allo sviluppo dell'agrumicoltura, le case contadine ancora esistenti sorgono piccole e basse a piano terra, e, nei loro colori semplici ed elementari, presentano un prospetto segnato da una porta e da una finestra laterale (che in qualche caso può anche mancare); mentre l'interno è costituito da un relativamente ampio soggiorno con in fondo due aperture che immettono rispettivamente nell'alcova e nella stalle, spesso comunicanti tra loro; sfruttando la pendenza del tetto (costituito da travi e da canne su cui poggiano coppi d'argilla), solitamente sopra l'alcova e la stalla, è ricavato un altro ambiente, destinato a dormitorio e/o a ripostiglio di paglia e strumenti vari, attraverso un ammezzato di assi connesse tra loro raggiungibile con una scala a pioli. Frequenti sono, poi, le nicchie scavate nello spessore dei muri in sostituzione di armadi e credenze. A questi vuoti, un tempo, d'estate, in posizione dominante in qualche parte della casa, si contrapponeva il cannizzu, il grande recipiente cilindrico di canne intrecciate che conteneva il frumento raccolto. Poche di queste case sono ancora integre e resistono al degrado ed alla speculazione, grazie anche al fatto che sono abitate da persone anziane non perfettamente integrate nella nuova società nata dalla coltivazione intensiva degli agrumi. Alla fine del XVIII sec. risale l'introduzione nel territorio di Scordia dell'agrumicoltura, divenuta gradualmente il settore trainante dell'economia del paese, con conseguente arretramento della produzione cerealicola, fino ad alcuni decenni fa prevalente e tale da determinare usi e costumi al giorno d'oggi non più riscontrabili. Ne rimane qualche sopravvivenza nel cerimoniale delle feste popolari più sentite, come il Natale, il Carnevale e la Pasqua; ma pochi sono orinai coloro che riescono a cogliervi i legami con i riti di eliminazione e di propiziazione precristiani che accompagnavano o precedevano le varie stagioni dell'anno in una società contadina basata essenzialmente sulla produzione del grano. Pochi sono coloro che riescono a leggere il valore rituale della identificazione del grano con Dio nell'indovinello che segue, diffùso tra gli anziani di Scordia: Amienzu di linzola e-ccùtri cc'è ntrusciati lu Ddivinu Patri. Tanti pila ccí A nta l'utru tanti cci-nn'è nto'sticchiu i tamatri. (U siminatu) Valore propiziatorio che è accentuato dalla risata oscena che questo particolare genere poetico popolare, al quale originariamente era riconosciuta una destinazione esclusivamente carnevalesca, suscita per favorire l'abbondanza delle messi per simpatia nell'appellarsi esplicitamente alla fertilità del sesso femminile, mentre anche a quello maschile si allude nella complessa metafora iniziale. E i principi della magia simpatica vengono applicati alla identificazione di Cristo con "il dio della vegetazione che muore e rinasce" (il grano) nella processione del Giovedì Santo, quando i confrati di Maria SS. Immacolata accendono il pagghiaru che deve ridare vigore (per simpatia, appunto) a Cristo, Luce che si spegne nella Passione. Perché possa risuscitare. E gli esempi potrebbero continuare. Monumenti arte e religione Nel 1626 Antonio Branciforte fu nominato da Filippo IV re di Spagna, primo principe di Scordia. A questa data e a questo evento si fa solitamente risalire la fondazione del paese. In realtà le radici storiche di Scordia risalgono a tempi ben più lontani, anche se nessuno si è ancora occupato attentamente di questo importante aspetto. Qualche studioso di storia locale ha infatti solamente accennato nei propri lavori alle tracce di insediamento di civiltà, rinvenute anche in tempi non troppo lontani, nei nostri luoghi, risalenti in qualche caso al periodo precristiano. (Cfr. A Vecchio, "Scordia tra storia e leggenda" Catania 1975 e V. Salvo Basso, "Reliquiae seu de iis quae superunt", Scordia 1924). Da fonti accreditate apprendiamo, poi, che nel territorio di Scordia, alla venuta del principe, erano già presenti degli edifici religiosi, almeno tre chiese ed un convento di frati e, supponiamo noi, anche abitazioni civili, case contadine che, soppure non attestano inconfutabilmente che la convivenza degli abitanti delle terre di Scordia fosse già disciplinata secondo precisi codici, sottintende però come almeno alcune fondamentali funzioni della vita sociale e di culto fossero già garantite. Il principe volle però riorganizzare il suo feudo ridisegnandone l'assetto urbano e creando i servizi necessari al vivere civile, in considerazione anche del rapido aumento della popolazione che si registrò nel giro di pochi decenni, grazie alla concessione nel 1628 da parte del re al Branciforte della "licentia populandi", il permesso di poter popolare il proprio feudo richiamando dalle zone circonvicine persone che avessero in animo di coltivare e far produrre le terre che venivano assegnate loro. Le prime opere architettoniche subito innalzate furono il palazzo principesco, la chiesa di San Rocco e la chiesa di Sant'Antonio da Padova con l'annesso convento dei frati riformati. Questi edifici furono dislocati sul territorio secondo uno schema triangolare avente due ampie piazze tra la chiesa di San Rocco ed il palazzo e tra questo e la chiesa di Sant'Antonio e, ancora, una strada costeggiante un declivio calcareo (la Cava) congiungendo le due chiese. A nord-ovest del palazzo fu costruita (o, forse solamente restaurata; non si hanno notizie precise al riguardo) la chiesa dedicata a San Gregorio Magno. In questo periodo furono anche istituite, per ognuna delle chiese su menzionate, delle confraternite o compagnie che si occupavano dell'organizzazione delle funzioni religiose in particolari periodi dell'anno (Cfr. M. De Mauro, "Notizie storiche sopra Scordia inferiore" Catania 1868). I lavori di costruzione della chiesa di Sant'Antonio e del convento furono iniziati nel 1644 e già nel 1649 erano ultimati per metà. Sul prospetto della chiesa furono collocati la statua del vescovo Ottavio Branciforte (che insieme al fratello, il principe Antonio e la di lui moglie Giuseppa Campulo, ne volle l'edificazione) e più in alto lo stemma della famiglia. Nella chiesa di San Rocco le prime persone cominciarono ad essere seppellite nel 1629; tre anni dopo si ha notizia del primo matrimonio celebrato in essa. La chiesa probabilmente fu rasa al suolo dal terremoto del 1693 che investì la Sicilia sud-orientale. Seri danni subirono anche le altre chiese del paese e, sulla parete di levante, il palazzo del principe. La nuova chiesa di San Rocco, l'attuale, fu edificata nei primi anni del 700 su progetto di frate Michele da Ferla (un architetto che ritroviamo nello stesso periodo operante pure per le chiese di Buccheri); nel contempo funzionò da matrice la chiesa di San Gregorio Magno. Si ha notizia del primo matrimonio celebrato nella nuova chiesa da Don Lucio Cittadino nel 1712. Nella seconda metà del 700 furono iniziati i lavori di ampliamento della piccola chiesa di Santa Maria Maggiore. La chiesa, voluta da Don Matteo Imperia, un'oscura figura che ricoprì, fra l'altro la carica di presidente del Tribunale della Santa Inquisizione, fu inaugurata nel 1680 dal cardinale Antonio Colonna Branciforte. E' questo, inoltre, il periodo nel quale le famiglie che hanno acquisito patente di nobiltà innalzano maestosi edifici alcuni dei quali tutt'oggi è possibile osservare in paese; il palazzo Modica di piazza Umberto 1, e sull'attuale via Vittorio Emanuele, i palazzi De Cristofaro e Vecchio. Nel 1825 si iniziò la costruzione della chiesa di San Giuseppe, che pur funzionante già qualche decennio dopo, ebbe però il definitivo, attuale aspetto solamente nei primi anni di questo secolo. Nel 1903 fu completata la chiesa di Santa Liberata. Fra le opere di valore custodite nelle chiese del paese, segnaliamo, a San Rocco le tele ad olio della Vergine del Rosario, molto rovinata, riecheggiante la pittura del Caravaggio, e quella della Vergine coi Bambino, Sant'Anna e San Giovannino di notevole qualità, di scuola raffaelliana, e poi la statua di San Rocco posta all'interno di una nicchia del transetto costruito alla metà dell'800 sotto il parrocato di Mario De Cristofaro. Nella chiesa di Sant'Antonio ricordiamo lo splendido crocifisso attribuito dal Maganuco a fra' Umile da Petralia e le tele di Sant'Anna e dell'Assunta, quest'ultima assegnata a Pietro Paolo Vasta, nonché la statua dell'Ecce Homo e quella di Sant'Anna eseguita alla fine del 700 da Gaetano Franzese. Il chiostro del convento annesso alla chiesa, vero e proprio gioiello di architettura, presenta sulle pareti delle pitture risalenti alla metà del 700, eseguite con una certa approssimazione ma dall'innegabile fascino, narranti episodi della vita di martiri dell'Ordine Francescano. La chiesa di San Gregorio Magno si segnala oltre che per le statue del Cristo alla bara e dei tre santi, per la preziosa incisione a bulino, probabile fine 600, raffigurante il cammino della cristianità, elaborata su un disegno di Cristiano. Nella chiesa di Santa Maria Maggiore, è esposta, sopra l'altare maggiore una pittura su tavola raffigurante la Vergine tra i Santi datata 1589. Due tele, Sacro Cuore di Gesù e di Maria, e Sant'Agata, San Michele Arcangelo e Sant'Apollonia, rispettivamente del 1782 e del 1789, sono firmate da un pittore originario di Siena, Marcello Vieri, autore anche di un'altra opera del 1791, conservata a San Rocco, la Vergine del Rosario e San Simone Stock. Si conservano inoltre in sacrestia, tre bozzetti su tela di notevole valore documentario riproducenti gli affreschi sulla volta della chiesa; quello centrale è perduto, e un altro versa in precario stato di conservazione. Nella chiesa di San Giuseppe, osserviamo sul secondo altare a destra la tela ad olio della Madonna Degli Ammalati, del 1902, del pittore originario di Scordia, Giuseppe Bacchitta, artista di notevole abilità che verso il 1912 emigrò in Sud America. Nella chiesa di Santa Liberata merita particolare attenzione la statua della Santa; pare che in origine questa rappresentasse Santa Cecilia e che poi in seguito, fine 800, sia stata adattata per raffigurare Santa Liberata; e la caratteristica grotta in pietra lavica inaugurata nel 1914. Infine vanno ricordate la statua di San Rocco eseguita in pietra calcarea nel 1813 da N, Bagnasco, il monumento ai caduti (193 2) di Salvatore Pappalardo, nella villa comunale, e soprattutto la colonna con sopra la statua della Vergine col Bambino che più volte caduta per eventi naturali é sempre stata ricostruita; quella attuale è del 1911 e può essere considerata il vero simbolo di Scordia. Un "immersione" a Scordia Entrando in metafora mi vedo nel mio rapporto con Scordia alla stregua di un nuotatore. Per dar vita al coordinamento razionale dei suoi gesti egli deve necessariamente non farsi completamente ricoprire dalle acque, di tanto in tanto volgere in alto il volto per riempire d'aria i polmoni e proseguire. Per dar vita a questo mio scritto entro invece in uno scafandro da palombaro e scendendo giù, abbandono rassicurante galleggiamento natatorio. Sembra esser tutt'uno con le più antiche pietre di Scordia impastato e fuso con esse, il detto "Scordia scordati la via". Quasi che per prima, nelle fondamenta d'essa, che agli inizi era poco più che un borgo, c'abbiano scaraventata dentro una imperitura volontà collettiva di oblianza di chi quel borgo già abitava e di chi ci avrebbe abitato. Ho tra le mani un testo risalente al 1716. Trattasi di un registro stampato a Palermo, nei bei caratteri marcati dell'epoca, e pressochè intatto. E' una specie di censimento, a fini esattoriali suppongo, compiuto negli anni 1714 e 1715, del Regno di Sicilia. Gli estensori: i "deputati" deI regno, tra cui figura nel frontespizio il "nostro" Don Giuseppe Branciforte, Principe di Scordia. Ma che cosina piccola era questa Scordia pur avendo tanto di principe sui frontespizi delle regali stampe! A pag. 17 della parte relativa alla "Descrizione generale" risulta, alla voce "somma delle anime" essere composta di n. 1.932 delle suddette. Vizzini ne contava 9.129; Militello 6.416; Lentini 4.509. A far compagnia ai nostri antenati v'erano allora anche 80 cavalli, 59 giumente, 86 bovi e 106 vacche da aratro. Altri tempi, altre storie. Voglio però appuntare l'attenzione sulla terminologia usata dall'estensore settecentesco. Usa "anime" per indicare il nostro moderno - ma quanto più freddo e incolore - persone, e "fuochi" per famiglie, nuclei familiari. Si noti: fuochi e anime, come a dire che allora si poteva, anche stilando un ragìonieristicocensimento, sognare di un borgo abitato da anime, spiriti benigni, spirituali fuochi, per non dire dei rimandi filosofici sottesi all'uso di certi vocaboli. Scomparsi quei nostri avi di tre secoli addietro; scomparsi bovi, cavalli, giumente; scomparso anche il mondo contadino da millenni uguale a se stesso. Scordia possiede del suo passato pallide tracce, tutte meticolosamente occultate, quando non cancellate. Si respira una tensione convulsa e irrefrenabile all'oblio, all'annullamento della propria e altrui, quindi comune, memoria storica. Un ricordo: c'era una volta un abbeveratoio in uno degli ingressi del paese. Ero bambino e rivedo nei fotogrammi strappati alla mia memoria gli ultimi muli, asini, cavalli al tramonto, dipinti da una luce serotina. Era un omaggio al viandante; un ristoro meritato al lavoratore stanco che poteva così dignitosamente ricompors1 prìma di rincasare; un prezioso rinfresco per l'animale. Un omaggio gentile, e civile, di antica civiltà. Vedrete, nei comuni vicìni, conservare, nonostante la valanga cementizia, questo vessillo urbano. A Scordia no, è sparito. Ritrovo, questa corsa al seppellimento del proprio passato, nel cappio d'asfalto che soffoca la fontana della "Cava" monumento alle ninfe' millenarie cacciate da uno dei più bei luoghi di Scordia. La ritrovo nella trivialità architettonica dello stile delle nuove abitazioni (qualcuno, mi pare Zevi, lo ha definito " stile geometra", e non me ne vogliano gli interessati) spuntate come funghi in tutto il territorio urbano e non. Guardandole, queste monumentali case, si avverte una fireddezza glaciale: impersonali e sìlenti. Che senso avrebbe adesso vedere appesi in quelle balconate immense - simili a corone di vile metallo su ancor meno nobili teste "raste" di basilico e corone di peperoncini rossi e bucce d'arancia ad essiccare al sole? Tutte "cose" che avevano un senso quando all'interno si contavano i "fuochi" e a parlarsi erano le "anime". Scordia obliosa del passato, ma moderna. Mi trastullo coi termini per dire cosa? Che ciò che c'è di buono, in questo paese non va cercato nell'orgoglio della propria identità, del proprio passato, della memoria storica. Nessuno piange per un arco di pietra tagliato per ricavarne un "funzionale" garage. Nata per dimenticare e dimenticarsi, questa comunità trova in ciò la sua principale virtù, in questa sorta d'anarchia che dìventa inevitabilmente tolleranza, la coscienza che può esserci posto per tutti. Non ti sì chiede delle tue radici, del tuo passato; ti si offre una carta bianca su cui poter scrivere. La naturale gentilezza della gente è ciò che colpisce il viandante frettoloso o il visitatore più o meno convinto. Certi mali non sono endemici, piuttosto frutto delle contingenze storiche. La mafia, ad esempio, non si sapeva che fosse. C'erano malavitosi, questo si, ma tutto sommato di rubagalline si è trattato, sino a che... sino a che sono arrivati gli "anni 80", e con essi il grande traffico di droga, l'arricchimetno facile e improvviso, il pizzo in grande scala, e anche il bossettino locale, oggi pentito. Ma vennero anche i morti ammazzati. Cosa inaudita fino alla fine degli anni 70 in questo paese. E la gente, questa gente laboriosa, silenziosa, "anarchica", ha fatto finta di piegarsi, di tacere omertosamente. In realtà alla violenza organizzata ha concesso il minimo indispensabile. Aspettava che lo Stato si svegliasse dal lungo sonno. E quando è stata chiamata a manifestare collettivamente lo ha fatto. Folte e compatte le manifestazioni di piazza contro gli analfabeti armati dì mitra. E accanto alla folla, anonima e materna (perchè portatrice delle ragioni della vita e della sua prosecuzione) alcuni, organizzati in associazioni o partiti, che hanno saputo dire una coraggiosa parola in più. E c'è chi con la vita ha pagato la sua dignità di uomo: il dottor Nicola D'Antrassi, unico illuminato esponente di una classe imprenditoriale locale, i commercianti di agrumi, che non ha mai, nemmeno lontanamente, capito quale funzione sociale, civile e culturale potrebbe avere. La campagna grassa e ammantata dei sempre verdi di agrumeti e la solarità dei luoghi la ritrovi tutta nel largo sorriso dei bambini di Scordia. A loro tutto viene perdonato. E fra parentesi, sono loro a Scordia i veri dominatori della strada. A due marmocchi che giocano, incuranti del traffico, quasi a sfidarlo, nessuno fa premure e si aspetta con pazienza che tirino il calcio risolutore al pallone, o l'ultimo divincolarsi dalla ressa. L'automobilista cittadino che per caso o necessità capiti da queste parti si metterà le mani ai capelli con velocità urbane, con o senza traffico, che raramente superano i venti all'ora. E i giovani, i coccolati, sbandierati, enfatizzati, giovani? In massima parte concentrati presso il "grande occhio", la Villa comunale, piccolo recinto verde nato nei primi decenni del secolo presente, dove si radunano per "vedere" e farsi vedere, e nient'altro. Al punto che il forestiero rimane smarrito dinanzi a tanta confusione, soprattutto serale. Non trovando spiegazione alcuna a tanto assembrarsi, alla fine avrà la sensazione di avere assistito 'ad una superba, perchè spontanea, rappresentazione teatrale fondata sul perfetto bluff che il teatro incarna nel suo magico gioco di finzione. Fingono questi giovani una vita che non c'è, un ruolo che non hanno. Ma, si badi, che non sognano nemmeno d'avere. Un lamento monodico querulo, questo è il loro essere giovani. Voglia di fare: nessuna, in realtà. Le associazioni, i singoli, che hanno prodotto, negli ultimi dieci, quindici anni, una mole, imponente per Scordia, di iniziative (concerti, mostre, cineforum, conferenze, teatro, libri addirittura) per il giovane del "grande occhio" non sono mai esistite, non esistono. E mai esisteranno. Si vuol vivere così a Scordia, in pace con se stessi e col mondo, immemori di tutto, protesi soltanto a godersi il sole e un'eterna primavera. Scordia così magnificamente anarchica e tollerante, pacifica e sorniona, e tragicamente smemorata. Forse per questo così assolutamente e irrimediabilmente siciliana. Un allievo di Raffaello nella chiesa Nella parte sinistra del transetto della chiesa di S. Rocco a Scordia, posta in alto sulla parete di fronte la porta che immette in sacrestia, si conserva all'interno di una semplice cornice a stucco, una tela ad olio che raffigura, a destra, la Vergine con sulle ginocchia il Bambino che benedice S. Giovannino posto più in basso a sinistra, al centro S. Elisabetta e, 'Infine, sullo sfondo, in alto a sinistra, S. Giuseppe. La tela è di qualità indubbia, e ha più volte destato l'interesse e l'ammirazione di molti osservatori, alcuni dei quali esperti dei settore. L'impostazione e lo stile riccheggiano inconfutabilmente i canoni della pittura raffaelliana. Si veda ad esempio la posizione rialzata del ginocchio destro della Vergine su cui si appoggia il Bambino, come ad una spalliera, che richiama l'opera di Raffaello la " Madonna della seggiola". Le prime notizie sull'opera risalgono a circa il 1943, quando molto impolverata e priva di adeguato supporto era collocata, insieme ad un'altro dipinto, su una parete della chiesa, al buio, vicino alla porticina che dà accesso alla scala per il campanile. A quel tempo la tela interessò alcuni militari inglesi ed americani presenti nel paese, che sì offrirono, pure, di acquistarla. Il parroco dei periodo, S. Failla, deducendo da tale richiesta l'importanza e il valore dell'opera, pensò, invece, di farla opportunamente pulíre dalla polvere e, forse, dopo averla fatta sottoporre ad un intervento di restauro, di darle una sede più idonea facendola sottoporre ad un intervento di restauro, di darle una sede più idonea facendola collocare su una parete della cappella del Sacramento, dalla quale, neì primi anni SO, fu spostata nel luogo ove si trova oggi, all'interno di una cornice a stucco fatta eseguire per la circostanza. Di recente, abbiamo avuto modo dì osservare un dipinto che ricalca in modo identico (se si esclude per alcune lievissime differenze di posizione delle figure) il soggetto raffigurato sulla tela di S. Rocco, esposto nella grande cattedrale di S. Giovanni, sopra un'arcata della cappella di Francia, alla Valletta a Malta. Nell'archivio del museo di S. Giovanni, annesso alla cattedrale, che il personale ci ha gentilmente messo a disposizione, abbiamo potuto appurare che il dipinto, secondo quanto trascritto sui registri, è attribuito a Giovan Francesco Penni detto il Fattore (Firenze 1488 c.a. Napoli 1528) allievo di Raffaello. Dal confronto delle due opere si osserva, però, che quella di Scordia è leggermente meno larga (ha dimensioni rettangolari e non quadrate come il dipinto di Valletta), ma sappiamo anche che questa, dopo essere stata prelevata dalla sede originaria, nel 1943, fu tagliata ai bordi ,laterali completamente marci (di più a destra) dove, in ogni caso, non vi era rappresentato nulla di importante (delle zone al buio del caseggiato in cui si svolge la scena). Pertanto le due tele, in origine, dovevano essere identiche non solo per il soggetto raffiggurato, ma, probabilmente, anche perle dimensioni, Oltre a ciò, notiamo che l'opera di Valletta, sicuramente restaurata, evidenzia dei colori più accesi e una maggiore accentuazione dei contrasti chiaroscurali rispetto a quella di Scordia che, peraltro, versa in precario stato di conservazione. A prescindere da queste considerazioni si può, comunque, a mio avviso, affermare che la fattura della nostra opera è per nulla inferiore a quella di Valletta, anzi, per certi versi, nel dipinto della chiesa di S. Rocco, dalle tonalità più imbrunite, si realizza molto meglio la lezione di Raffaello nel delicato sfumato con cui è trattata la figura del S. Giovannino. Il Penni oltre ad essere fedele allievo di Raffaello ne fu, anche, prezioso collabratore, intervenendo, tra l'altro, nella esecuzione dell'ultima grande paia dell'urbinate; la "Trasfigurazione". li fattore seguì presto Raffaello a Roma, e alla morte del Maestro (1520), divenuto coerede dei suoi beni, insieme a Giulio Romano, si trasferì a Mantova e, poi, dopo un breve ritorno a Roma, a Napoli dove morì nel 1528. Da ciò che ci risulta nella vita di questo artista non vi è traccia di una sua permanenza a Malta odi commissìoní ricevute da quel luogo, nè, a dire il vero, di contatti con la Sicilia. Ma se il dipinto di Valietta è stato eseguito dal Penni, e nonostante quanto prima affermato non vi è nessuna ragione per non crederlo, data la magnificenza con la quale i Gran Maestri dell'Ordine dei Cavalieri di Malta amavano arricchire il patrimonio d'arte dell'isola con opere di valore provenienti in spe modo dalle botteghe italiane (oltre, naturalmente, invitando gli artisti ad operare direttamente nell' isola), si devo pur considerare che quella di S. Rocco per la fattura tecnica e le qualità espressive potrebbe essere, a mio avviso, opera di un artista motto vicino al Penni, con il quale aveva soggetti in comune da dipingere, e quindi alla scuola di Raffaello. Tale ignoto artista potrebbe essere uno fra i tantissimi pittori che si ispirano all'arte dell'urbinate, o, magari, un allìevo dello stesso Penni; evito di fare nomi poichè siamo pur sempre nel campo delle pure ipotesi. Non è, poi completamente da escludere una ulteriore possibilità, cioè che il dipinto di Malta e quello di S. Rocco siano entrambi opere dei Penni; quest'ultimo, magari, eseguito a Napoli e poi in Sicilia, possibìlmente per merito dei principi Branciforte. Credo comunque, al di là di queste mio riflessioni fondate in massima parte su delle intuizioni che necessitano, ovviamente, di essere sostenute e comprovate da ulteriori analisi e verifiche, che fosse il caso di dare giusto risalto ad una fra le opere di pittura più importanti appartenenti al nostro patrimonio artistiCO. Dalla disgregazione sociale e culturale allo sviluppo : Che fare? La crisi economica l'avverti subito appena arrivi in paese. L'avverti ancora di più appena scambi due parole con le nuove leve politiche locali, le quali, come in un consulto medico, la radiografano in tutti i suoi risvolti sociali e culturali. Con l'aggravante di non avere strumenti per curare il loro malato. Perchè lo Stato nonostante i conclamati programmi di intervento a favore dello sviluppo socio-economico, riduce le disponibilità operative degli Enti Locali? Anni di identificazione tra amministrazione della cosa pubblica e potere sono difficili da smaltire, il loro retaggio è ancora pesantemente presente nella realtà locale. Ciò nonostante le nuove leve politiche non demordono più di tanto. Con forza chiedono allo Stato una maggiore consapevolezza della crisi economica in atto, programmando e realizzando interventi non più episodici ma sostanziali, in primo luogo incentivando l'industria di trasformazione, commercializzazione e conserviera e intervenendo per rilanciare l'agricoltura. Con forza cercano di affrontare il vero dramma della cittadina, la disgregazione sociale e culturale. E a tal fine sono orientati tutti i loro sforzi. Con sorprendente sintonia tutte puntano alla realizzazione di centri di aggregazione dove i giovani possano riscoprire il gusto della buona musica, del teatro, dell'arte, le proprie radici; iniziando a lavorare con le scuole, dalle materne alle superiori, fiancheggiando le problematiche giovanili in tutte le loro evoluzioni, riavviando le attività produttive dall'edilizia, all'agricoltura, all'artigianato. Il tutto al fine di elaborare una piattaforma unitaria da proporre al ministro per l'agricoltura ; promuovendo strutture consortili, creando i presupposti per una loro sempre più spinta aggregazione; rafforzando le strutture di servizio per un ruolo di rilancio dell'agricoltura. Stato e Regione permettendo. |