Le sorelle povere di Taormina         

Il fascino discreto di Forza d'Agrò

Alla ricerca del gonfalone perduto

Come il maniero divenne cimitero

Il Passato rivive grazie alla Mimosa

Savoca/ Sambuco oppure Savoca/Pentefur

La chiesa fortezza dei SS. Pietro e Paolo d'Agrò

Sciascia, attendono ancora la manna dei turisti

Il restauro di don Procopio

Seta di Savoca

 

 

La valle d'Agrò è una conca attraversata da una fiumara e chiusa dalle estremità dei Peloritani ionici le cui protuberanze si affacciano sul mare. All'interno, arroccati, distesi sulla costa ricchi di storia e di tradizioni ben quindici comuni, che, se escludiamo quelli della fascia costiera, sono alla ricerca di un modus vivendi con il moderno la cui parola d'ordine è "sviluppo turistico". Cinque sulla destra dell'Agrò (Roccafiorita, Limina, Scifi, Forza D'Agrò, S. Alessio Siculo) e dieci sulla sinistra (Antillo, Motta, Rafali, Fadarechi, Casalvecchio Siculo, Savoca, Rina, Contura, S. Francesco di Paola, S. Teresa di Riva). La popolazione della valle "Agrillina" è intorno ai 17.000 abitanti.

Così scrive Giuseppe Cavarra nella introduzione al volume "Argennuin, cultura della Valle d'Agrò", Akron Furci Siculo 1991: "Alla compattezza morfologica e alla chiarezza dei contorni in passato non hanno fatto riscontro strutture socio-culturali unitarie. Nel tempo le singole comunità si sono comportate come piccoli mondi isolati, senza notevoli rapporti tra loro: microcosmi che,, articolandosi in un tessuto frammentato di iniziative, hanno vissuto in un clima di autarchia economica e culturale, senza ipotizzare nemmeno un confronto di risultati ai fini di una integrazione in grado di far progredire la conoscenza e la comprensione della realtà.

Le cause di certi ritardi che affliggono ancora le popolazioni agri I line vanno cercate anzitutto nella mancanza di una pianificazione che, in passato, suggerisse strategie capaci di integrare i dati risultanti dai singoli approcci. Fino alla seconda guerra mondiale ogni paese della Valle d'Agrò costituiva un'entità con un patrimonio culturale i cui modelli costituivano i modi di esistere e gli schemi di azione da cui l'uomo ricavava gli strumenti necessari per adattarsi all'ambiente e ricavarne i mezzi di sussistenza."

Di questi paesi abbiamo scelto Forza d'Agrò e Savoca, che pur godendo di una condizione paesaggistica e monumentale che non ha nulla da invidiare a quella di Taormina e pur essendo a pochissima distanza dalla costa, non sono riusciti ad inserirsi in quel processo di sviluppo turistico che ha fatto di Taormina uno dei poli internazionali.

Le ragioni possono essere moltissime, soprattutto soggettive: le amministrazioni locali non hanno mai di fatto saputo privilegiare, al di là delle solite petizioni generiche, il momento della programmazione integrata attraverso un'analisi delle risorse, in particolare dei beni culturali e ambientali da salvaguardare, da cui partire per puntare ad un'offerta specifica e differenziata. in realtà tutto si è sempre arenato sulla spartizione delle risorse pubbliche per costruire infrastrutture spesso inutili e al di fuori di ogni progetto organico di sviluppo a lungo termine.

Se pensiamo alla bellezza dell'entroterra naturale di questo territorio,ci rendiamo conto di come ad una agricoltura sempre più penalizzata e di sopravvivenza, che ha determinato lo spopolamento delle campagne dell'entroterra, non è stata sostituita nessuna forma di programmazione di attività produttive compatibili ad esempio con l'agriturismo e H turismo rurale. La nascente domanda in questo settore, incentivata dalla vicinanza dell'ormai saturo ma sempre attrattivo polo turistico del taorminese, avrebbe consentito un diversificato modello di sviluppo turistico.

Sono solo esempi, forse anche facili a dirsi, che dimostrano come le logiche dei piccoli comprensori da sole non sono in grado di coprire le opportunità di un mercato turistico in continua evoluzione e trasformazione. Si giustifica così il titolo di un articolo dei 1962 di Leonardo Sciascia sul quotidiano "il Giorno" dedicato a Savoca "Attendono nel deserto la manna dei turisti". Savoca e Forza d'Agrò a partire dagli anni '70 non sono più "paesi che muoiono" ma "sopravvivono" grazie anche all'interesse di una giovane classe di amministratori che appare più attenta a non smarrire i legami con la storia, l'ambiente e le tradizioni e che comincia a leggere lo sviluppo come un processo che non può fare a meno di queste realtà.

Lo stesso Sciascia (che scriveva nel '62 quando non s'era ancora verificato quel processo di irrazionale cementificazio ne dei paesi costieri S. Alessio e S. Teresa di Riva per rispondere ad una domanda di seconde case che ha "sviluppato" solo la ricchezza di pochi ed improvvisati imprenditori legati ai gruppi di potere locali), individuava così la causa principale che determinava l'abbandono e la decadenza di questi centri. "Le cause di una tale decadenza sono in parte spiegabili dentro il più vasto fenomeno, relativo a quasi tutto il litorale della penisola italiana e delle isole, verificatosi dalla fine del secolo XVIII, quando la paura delle incursioni piratesche cominciò ad attenuai-si e le popolazioni, che si erano arroccate sui monti sovrastanti le coste, si spostarono verso il mare. Poi lungo il litorale si aprirono le vere e proprie strade di comunicazione. E poi la ferrovia.

I paesi annidati sulle alture presso il mare o, nei fondovalle, da queste alture nascosti, riparati, schermati, cominciarono a morire; specialmente là dove le istituzioni religiose, vescovadi, seminari, particolari prelature, seguivano il naturale spostamento delle popolazioni verso il litorale o altrettanto naturalmente scomparivano". La più diretta causa è da ricercare nella concessione dell'autonomia ai paesi sorti, lungo la strada carrozzabile Messina-Catania; e precisamente a Santa Teresa Riva, nel 1853, e Sant'Alessio, prima frazione di Forza d'Agrò, che ottenne l'autonomia nel 1948. "A partire dal secondo dopoguerra, l'equilibrio su cui si era fondata per tanto tempo la fusione dei membri all'interno del gruppo si spezza per una serie di motivi a tutti ben noti: in primo luogo l'emigrazione, la disgregazione del vecchio tipo di società, lo sviluppo tecnologico, la massificazione culturale, la riduzione delle relazioni primarie.

Anche nella Valle d'Agrò si verificano i terremoti sociali o si avvia un processo di omologazione culturale che oggi è un fatto pressoché compiuto dove tanta storia e culturali stanno sperperando, tante risorse ambientali e umane si stanno dissipando. Il processo di erosione che sta sempre più traumaticamente operando nel contesto delle culture tradizionali sembra inarrestabile. Non calcolare i costi umani che le popolazioni stanno pagando, rifiutarsi di leggere le conseguenze dolorose di certi mutamenti in una vita che non sempre sta mutando in meglio significa bloccare il processo di identificazione che stiamo faticosamente avviando, ora che certi moduli imposti dalla cultura del profitto cominciano ad entrare in crisi"(Cavarra, cit.).

La conformazione topografica dell'antico abitato rannicchiato intorno alla cintura austera del castello come a cercare protezione tra scoscesi profondi burroni tra la marina e il monte a mò di gemma...

Così verso la fine degli anni venti Stefano Bottari descrive Forza d'Agrò: "Si attraversano le viuzze tiepide ed assolate, e la grazia molle degli archi, le timide strutture architravate, le composizioni barocche e settecentesche, contenute sempre in linee sobrie ed eleganti, le caratteristiche porte delle antiche botteghe, sembrano ridestare, in quel silenzio così colorito, i palpiti e le vibrazioni assopiti della antica anima forzese. Niente con maggiore autorità di questi cimeli, così imperiosamente eloquenti, può rievocare la vita dell'antica cittadina: chiusa in se stessa, nel suo svolgersi e nel suo evolversi, vita che ha quasi un senso di intimità, tanto ci sembra febbrile ed omogenea, sollecitata soltanto da un benefico fervore religioso: l'unico che in quei tempi poteva lusingare l'orgoglio civico, tormentarne le coscienze, ansiose di pace e di prosperità.

E questo senso è espresso ancora dalla conforma azione topografica del l'antico abitato, rannicchiato intorno alla cintura austera e romita del castello, come a cercar protezione, tra scoscesi profondi burroni, tra la marina e il monte, a mò di gemma. [ ... ] A questo carattere di intimità, che isola l'architettura forzese financo da quella dei paesi più vicini, come ad esempio quella di Savoca - magnifica anch'essa di ricordi improntati ad una grandiosità che ha riscontro nei più perfetti modelli isolani, - è associato un senso di rinunzia ad ogni pretesa che ha qualche cosa di ineffabilmente attraente.

Tutto è spontaneo in questa terra come le corolle vivaci dei mille fiori, che illeggiadriscono i prati solatii nelle olezzanti giornate primaverili! E non spontaneo semplicemente: anche sentito. La semplicità dimessa che è nelle espressioni artistiche emana in fondo dal carattere della popolazione forzese". Questa intimità, indubbiamente un po' violata dal disordine urbanistico del "nuovo", si riesce ancora a percepire (soprattutto dopo aver attraversato il litorale da Naxos a S. Teresa di Riva, brulicante formicaio di aride costruzioni per vacanzierì estivi senza alcuna simmetria) quando ci si inerpica per i tornanti che da Capo S.

Alessio in pochi Km conducono ai 400 metri del centro del paese. Forza D'Agrò per il paesaggio, i monumenti e le opere d'arte è stata giustamente inclusa dagli studiosi fra "le gemme minori di Sicilia". Nell'anno Il 16 quando era chiamata "Vico Agrilla" fu donata dal Re Normanno Ruggero Il al Monastero Basiliano dei SS. Pietro e Paolo D'Agrò come si evince dal diploma di dotazione ri lasciato in "Scala S. Alessio" nello stesso anno al monaco Gerasimo. fra i privilegi contenuti nel diploma si contemplava l'obbligo per gli abitanti di "Vico Agrilla" di portare due galline al Monastero nelle ricorrenze di Natale e Pasqua nonché la "decima" sui porci.

Oggi Forza D'Agrò si presenta, urbanisticamente contraddittoria: nel centro storico è ben conservato il tessuto urbano medievale con caratteristiche casette con volte e balconi in pietra locale ma a margine del paese ha già fatto capolino la speculazione edilizia con ovvie conseguenze di ordine ambientale. Sin dagli anni '60 Forza D'Agrò vive nell'attesa di un boom turistico che stenta a venire nonostante nel frattempo siano sorti ristoranti e qualche albergo; la causa dei mancato decollo turistico va ricercata nel l'incapacità politica e imprenditoriale di creare una mentalità e un polo comprensoriale alternativo o complementare a quello di Taormina Giardini Naxos.

La mancata crescita economica della cittadina è avvertibile nel decremento demografico (971 abitanti nel 1988); quasi metà della popolazione risiede nella decentrata frazione di Scifi raggiungibile seguendo la direttrice Forza-S. Alessio Siculo-Limina. La campagna di Forza D'Agrò, una volta famosa per la qualità del grano, si presenta desolata e quasi spoglia di vegetazione con qualche eccezione per gli appezzamenti di terreno situati ai margini delle mulattiere e della strada, in terra battuta, che degrada con molti giri viziosi verso la frazione Scifi. Oltrepassata Forza e scendendo verso la Fiumara D'Agrò la campagna cambia aspetto: s'incontrano case coloniche, uliveti coltivati, compaiono vasche d'acqua e agrumeti lussureggianti ai qual l'uomo dedica la grande cura che un tempo era generalizzata all' insieme del territorio.

 

Quando Stefano Bottari dedicò un volume ai monumenti di Forza d'Agrò era il 1928 oggi lo stato di conservazione è nettamente peggiorato e molte delle opere descritte non esistono più. Queste pagine possono aiutarci a costruire un museo anche della memoria.

Lo storico dell'arte Stefano Bottari dedicò i suoi primi studi ai beni artistici e monumentali della valle dell'Agrò, in particolare pubblicò all'eta di 22 anni un volume (edito a Messina nel 1928) su Forza d'Agrò, tutt'ora insuperato per la ricchezza dei riferimenti e l'analisi storico-artistica. Da questo volume abbiamo tolto i brani più significativi per illustrare i principali monumenti. Da quella data ad oggi certamente lo stato di conservazione è nettamente peggiorato e molte delle opere d'ai-te descritte non esistono più, vittime di sistematiche e definitive spoliazioni, così le pagine dei Bottari possono aiutarci a costruire anche un "museo della memoria".

La cattedrale. "Sul principio dei settecento venne eseguito l'attuale prospetto della Cattedrale: composizione mirabile per la pacata e armonica sobrietà delle sue linee architettura li e dei suoi elementi decorativi. All'eleganza compositiva fa riscontro efficace la squisitezza con cui sono eseguiti tutti i particolari e massimamente il portale: delicato lavoro tramato con una fantasia vivida e calcolatrice e con una sensibilità non comune.

Tutti i più leggeri effetti chiaroscurali sono sfruttati con abilità e distribuiti con perfetto intuito architettonico. Anche all'interno la Chiesa si presenta ben proporzionata nella snella serie degli archi e delle colonne che la dividono in tre navate". (Bottari). Prese il posto della quattrocentesca primitiva chiesa dell'Annunziata, distrutta dal sisma al principio dell'anno 1649 .

La chiesa venne interamente ricostruita cambiandone però l'orientazione, che risulta essere trasversale alla primitiva. La nuova chiesa, non ancora completata, fu danneggiata dal terrei-noto del 1693 che sconvolse tutta la Sicilia, per cui fu necessario rifare il tetto e la facciata così come oggi la vediamo. L'opera, con l'elemosine dei fedeli, fu completata nel 1707 dai Maestri M. Antonino e S. Villarà come testimoniato dalle scritte della terza trave del tetto e sulla finestra centrale della navata laterale.

L'esterno della chiesa presenta una larga facciata con smembrature di massi calcarei marmo si scolpiti, coronata da pernacchi e volute e aperta da tre portali eleganti di origini anteriori, mentre l'interno, a base abbaziale del periodo tardo-rinascimentale, è sul consueto schema a tre navate su colonne e pilastri. Il tetto è acapriate in legno. L'abside centrale, corredata da un coro in noce, dei secolo XVII, intagliato e diviso in ventiquattro stalli recanti in altrettanti riquadri scene inerenti alla vita della Vergine e dei suo Divino Figliuolo.

L'altare maggiore, rialzato rispetto alla nave, è fiancheggiato da due absidiole a dieci cappelle collocate nelle rispettive navate laterali con altrettanti altari intarsiati in marmo policromo e stucchi di delicata fattura. Tra le cappelle della chiesa madre meritano essere ricordate quella dell'Intellisano e quella del Santissimo Rosario bisognevoli e meritevoli di essere restaurati prima che il tempo ne cancelli le ultime tracce.

Vi si trovano pure: una pala d'altare raffigurante l'Annunciazione eseguita nel 1565, in fede ad un manoscritto posseduto dal Dott. Puzzulo Sigillo, attribuita, dal critico d'arte Brunelli a Stefano Giordano, pittore messinese; "Madonna del Rosario tra i Santi Domenica e Caterina" di Giovanni Simone Comandè (sec.XVII) ; "Sacra Farniglia" di Paolo Filocamo (1740); e San Gaetano e la Vergine" di Placido Celi (sec. XVII). Della fine del XVII secolo è un reliquario in filigrana e uno splendido piviale, mentre del 1500 è una fiaschetta in zinco sbalzato. Proveniente dalla distrutta chiesa di S. Francesco, troviamo ancora nella detta chiesa madre, la statua di S. Caterina l'Alessandrina, eseguita da Martini Moritaini nel 1559 in marmo bianco di Carrara, con relativo piedistallo ottagonale, di questi, tre lati sono scolpiti in bassorilievo raffigurante il martirio della santa.

"La figura giovanile della Vergine, che è poi quella di una vestale romana in tutta la classica magnificenza delle sue vesti, si erge, con una insolita gagliardia - quasi a rappresentare il trionfo della fede sulla materia - sul corpo mutilato del tiranno, che ha voluto il suo martirio. La gamba destra si piega al ginocchio, portandosi in avanti, un po' per ragioni di equilibrio, un pò per dare risalto alle forme muliebri". (Bottari) Fra i cimeli artistici più significativi quello però che merita maggior attenzione è una croce dipinta su tavola, di scuola Bizantina, proveniente dalla distrutta chiesa del Santissimo Crocifisso, che per i lavori di restauro dei tempio, è momentaneamente ospitata presso la chiesa della Santissima Trinità.

La Storia che si racconta in paese, vuole che questa croce, dopo il crollo della chiesa fu trovata come per miracolo sulla torre campanaria rimasta miracolosamente in piedi, quindi trasferita nella chiesa madre e qui dai fedeli venerata. "L'artista, conforme ad una interpretazione della vita che boccheggia da noi fin dal primo rinascimento, ha fuso, in questa croce, l'umano e il divino: l'umano in quella forte rimarcazione delle viscere come contratte dallo spasimo d'un dolore inespresso; il divino nella calma serena e mirifica che piove da quegli sguardi reclinati - che di una natura superiore partecipano anche la vergine ed il Precursore, - in quelle braccia immobili dei Cristo distese sudi una lista di nero che li risalta - che sembrano sciogliersi dal martirio per riunire in un solo dolorante abbraccio la folla degli adoranti.

Integra questo senso profondo e mistico di pietas la scena solitaria e simbolica del pellicano, che pasce con il sangue zampillante dal petto, squarciato dal suo stesso becco, i piccoli nati. Il Brunelli crede che questa croce sia uno dei monumenti più pregevoli della pittura siciliana del trecento. Ma di croci simili, che, se studiate convenientemente, lumeggerebbero non poco la pittura nostra delle origini, a prescindere da quelle conservate nel museo messinese, ne esistono diverse nei paesi della provincia di Messina". (Bottari)

Chiesa di S. Agostino alias SS. Trinità. Degli ultimi del '400, secondo Stefano Bottari, è la chiesa di S. Agostino alias SS. Trinità, come pure l'arco Durazzesco inquadrato da forti membrature che lo fronteggia e che segna l'accesso al sagrato al termine di una breve scalinata. L'attuale prospetto, rifatto sopra l'originaria quattrocentesca ossatura, è del 1576. Opere pittoriche più o meno pregevoli addobbano e abbelliscono la chiesa:

Tela di Madonna coi Bambino, di autore ignoto del secolo XVI-XVI 1 in una meravigliosa cornice dorata in legno finemente scolpita a tutto rilievo. Tela raffigurante Madonna del Rosario fra Santa Caterina e San Domenico, di autore ignoto, bisognevole di restauro, eseguita intorno al secolo XVI. Tela di Madonna con Bambino fra i Santi Pietro e Paolo di autore ignoto riconducibile al secolo XVI, in pessime condizioni.Tela raffigurante San Tommaso da Villanova, Arcivescovo di Valencia, soccorritore di afflitti e bisognosi.

All'altare maggiore vi era una tavola in faggio della misura di metri 1.55 di larghezza e di metri 1.90 di altezza, riferibile alla fine del secolo XVI, raffigurante tre Angeli seduti ad una rnensa ed Abramo genuflesso con le mani congiunte, di autore ignoto ma operante nell'orbite di Antonello da Messina tranquillamente trafugata nel marzo 197 1. Oggi al suo posto, vi si trova una copia di epoca recente.

Vi era pure un Gonfalone in legno intagliato che i confrati solevano portare nelle processioni, da un lato vi era dipinta la visita dei tre Angeli ad Abramo e dall'altro la Vergine col Bambino attribuito a Pietro De Saliba. li Gonfalone è stato trafugato nel giugno 1976 e non è stato più ritrovato come fortunosamente era successone] 1951 quando tre furfanti della vicina Lamina, entrati nottetempo in chiesa lo rubarono e nascosto in una stalla, nelle campagne del loro paese, in attesa forse di un acquirente.

Di questo perduto capolavoro ci resta la descrizione del Bottari:"I gonfaloni, com'è risaputo, erano le insegne - sostituite più tardi, per l'influenza spagnola, degli stendardi che ancor oggi, il più delle volte privi di significazione, si vedono - che le confraternite solevano portare nelle processioni per contraddistinguersi. Formavano nell'insieme una caratteristica macchinetta che s'innestava a un piede per potersi agevolmente trasportare, tutta adorna d'intagli e dorature praticati sul legno e svolgentisi, a mo' di doviziosa cornice, intorno a una tavola mediana.

Su questa, dall'un lato e dall'altro, il pittore a ciò chiamato vi dipingeva il Patrono della confraternita, od una scena della sua vita, e poi, di solito, la figura della Vergine col Bambino. Così, in questo di Forza, vediamo dipinte: da un lato la visita dei tre Angeli ed Abramo e dall'altro la Vergine coi Bambino. Dai documenti notarili venuti alla luce, principalmente per opera del Di Marzo e dei La Corte Cailler, veniamo a sapere, che molte richieste per gonfaloni, financo dalla Calabria, erano rivolte ad un cognato del grande Antonello, Giovanni De Saliba - che raggiunse nel l'arte del l' intaglio un'altezza veramente notevole - ed al figlio di costui, Antonello, pittore corretto e ricercato anche se stereotipato nei modelli.

Il Brunelli, un po' per questo e un po' per le somiglianze che la Vergine del gonfalone forzese presenta con quella della collezione Davis, ha pensato di attribuire, appunto, ai due artisti l'opera. Veramente di ciò non siamo pienamente convinti, concordiamo però con l'illustre critico, nel l'attribuzione a Giovanni ed Antonello De Saliba, di un altro gonfalone, conservato a Gallo doro, paesetto situato a poca distanza dal nostro. Non sfugge di fatti a niuno la vicinanza che gl'intagli di quest'ultimo gonfalone -non parliamo dei pannelli dipinti, che recano da un lato il consueto tipo di Madonna desalibiana e dall'altro una imitazione della celebre Crocifissione antonelliana di Anversa - presentano con quelli consueti di Giovanni De Saliba; ad esempio, con gl'intagli che ornano i vari pannelli del polittico conservato nel piccolo museo taorminese.

Ma la robustezza degli intagli del nostro gonfalone contrasta con la fragilità di quelli degli esempi citati: ciò perché debbono riportarsi alla seconda metà del secolo XVI e non al secolo XV, come ha scritto anche il Cutrera, che si è occupato dei gonfaloni. L'ignoto artista invero, per certi particolari, pur allontanandosi dalla tecnica desabiliana, si mostra in ritardo e segue schemi propri del Quattrocento; in non pochi punti però riaffiorano chiari elementi per una esatta assegnazione cronologica.

Bisogna per questo tenere presente che nell'arte del legno, e nelle così dette arti minori in genere, la evoluzione stilistica avviene più a rilento che non nelle altre e non bisogna, nello stesso tempo, trascurare il loro carattere spiccatamente conservatoristico. Così, nel caso in esame, l'artista si i-nostra, per quel che riguarda le alzate laterali della parte superiore, ancora ligio a vecchi modelli nel modo di concepire, di eseguire e di stilizzare certi elementi; non mancano però, come dicevo, parti di più largo respiro, specialmente nella tecnica con cui è eseguito l'ornato e nella fiorita ornamentazione della base tipicamente cinquecentesca, che si svolge cosi a formare una mensola di sostegno a tutta la deliziosa costruzione. Il Cutrera, non sapendo conciliare tutto questo, finì per concludere che la parte superiore venne eseguita in un primo tempo ed in un secondo, in seguito ad un'ipotetica rottura, la parte inferiore.

Anche per quel che riguarda le pitture dei due pannelli vediamo ancora un artista arcaicizzante nel modo di concepire la struttura compositiva. Così la scena della Triade, che nella tavola antonellíana ha già trovato la sua possente soluzione geometrica qui è ancora condotta su di un frigido schema bizantino, mentre nella Vergine col Bambino del l'altro pannello, lontana peraltro dall'afflato mistico che pervade i modelli arcaici, notiamo un preziosismo figurativo che distrae la già turbata intimità dei sentimento.

La Fortezza. Il Monte Calvario, costituito da una tenace colonna di calcare duro, identificato con "Fortilitium", ha sempre costituito una vera e impressionante fortezza naturale. li luogo chiamato la "Forza" nelle più vecchie carte geografiche, divenne fortezza sotto i Normanni, i quali lo fortificarono con tre cinte murarie con funzione di sbarramento e di difesa della valle di "Agrilla". Nel terzo e ultimo terrazzamento poggiavano gli alloggiamenti, la cappella e, tra le fabbriche, una torre quadrata a tre livelli, mentre altre due si immaginano su due livelli. Della cappella a base rettangolare, si distingue ancora: l'altare, una nicchia, tracce di cornicione ed il poi-tale laterale.

Nel 1446 il Re Alfonso concesse il 'Fortilicium de Agro" al primo abate commendatario frate Simone De Blundo, ordinario predicatore. Nel 1595, ad opera dei giurati e deputati del paese, fu riedificato e dal 1876 sino al 1989 è stato impropriamente utilizzato a cimitero. La fortezza non è mai stata residenza di abati baroni, ai quali era stato concesso il 'Fortiliciurn de Agro", anche perché l'abbazia dei Santi Pietro e Paolo di Agrò, essendo stata strutturata come fortezza, offriva loro una maggiore sicurezza contro le scorrerie piratesche nemiche, che spesso si arrestavano di fronte ad un luogo sacro o in presenza di religiosi.

Convento dei Frati di S. Agostino. Attaccato alla chiesa della Santissima Trinità si trova l'antico convento dei Frati di S. Agostino, costruito intorno al 1591 annodi fondazione della Confraternita. Nel corso Quaresimale dell'anno 1608, mentre era in città Frate Andrea di Francavilla Maestro dell'Ordine coll' impegno di predicare al popolo il Vangelo, i Frati vi stabilirono la loro dimora così come appare dal pubblico istrumento di fondazione conservato nel l'archivio del convento; benché i registri generali dell'Ordine lo riportassero Fanno 1631 come scrive il P.M. Lubin: trentaquattresimo Convento in Sicilia.

CONVENTUS FORTILIENSIS LA FORZA OPPIDUM NULLIUS DIOCESIS VALLIS DEMONA SUPER COLLEM SITA CONVENTUS SUB TIT SS. TRINITATIS EXTABAT ANNO 1631. Dopo l'unità d'Italia, per effetto delle leggi del 1866 e 67 per la soppressione dell'asse ecclesiastico, il convento perenne allo Stato il quale incamerato ]'immobile, soppresse le corporazioni religiose, costrinse i Frati Agostiniani a lasciare quelle mura fra le quali per ben due secoli e mezzo avevano fatto risentire la medievale idea della fratellanza universale.

Approfittò il Comune che, a norma dell'articolo 20 della legge e del l'articolo 30 del regolamento, chiese l'affidamento dell'ex convento da destinare ad opere di pubblica utilità e beneficenza. L'istanza venne accolta e il convento venne provvisariamente affidato al comune, il quale lo destinò a sede dell'Amministrazione municipale oltre che ad ambulatorio medico e scuola elementare. Il salone sotto il quale si trovano ancora le tombe dei nomaci Agostiniani veniva comunemente adibito ai ricevimenti matrimoniali e nelle serate carnacialesche a sala da ballo, mentre una parte del piano superiore fu, per pochi anni, utilizzata a caserma dei carabinieri.

Il Comune costruito il nuovo Palazzo Municipale, vi si trasferì nel 1982 lasciando lo stabile al convento nel più completo abbandono. Oggi il convento, soggetto all'inesorabile opera distruttrice del tempo, sembra invocare aiuto agli Enti preposti alla tutela del patrimonio artistico e culturale. I lavori di ripristino e restauro, sono già in corso anche se, come nella maggior parte delle opere pubbliche in Sicilia, i tempi si dilatano al di là di ogni possibile program m azione. Restaurata invece la cinquecentesca Chiesa di San Francesco dov'era posta in origine la statua di S. Caterina d'Alessandria dei fiorentino Martino Montaini.

 

Il 1804 fu l'anno dell'editto di Saint-Cloud, con il quale si stabilì che i cimiteri fossero ubicati al di fuori dei centri urbani, come luoghi di sepoltura per le classi povere, mentre per quelle agiate fu ancora permessa la sepoltura all'interno delle chiese. L'editto però non venne recepito dai giurati e deputali di Forza D Agrò, così come non venne recepita dal Decurionato l'ordinanza, emanata nei primi mesi del 1830 dal Real Governo del Regno delle Due Sicilie, sotto la reggenza del Re Ferdinando l relativa alla costruzione degli stessi.

Il sindaco di Forza D'Agrò, Antonio Paguni, conscio che la cassa comunale non riusciva a coprire nemmeno le spese necessarie della comune gestione civica, e non potendo spera e che in alcuna tassazione a carico dei cittadini che versavano allora in pessime condizioni economiche, comunicò all'Intendente che la spesa relativa alla costruzione di un cimitero era insostenibile.

Con le motivazioni sopra addotte, i cittadini benestanti di Forza D'Agrò, e quelli che potevano pagare la retta alla confraternita alla quale appartenevano, continuarono ad essere tumulati in appositi loculi nei cunicoli sotterranei delle rispettive chiese, mentre i poveri continuarono ad essere seppelliti in fosse comuni. Questo stato di cose durò fino al 31 dicembre 1870, data in cui il consiglio comunale, presieduto dallo stesso sindaco Antonio Paguni avvertitane la necessità, deliberò la progettazione per la costruzione del cimitero.

Nella fase di progettazione furono tenuti in considerazione alcuni fondamentali fattori, quali la distanza dal centro abitalo che non doveva essere inferiore ai 200 metri, l'esposizione ai venti che non dovevano portare in paese il fetore della decomposizione dei cadaveri, la posizione più elevata rispetto al centro urbano e della natura del terreno. Vagliate le predette condizioni, la scelta cadde sul 'forte calvario " di proprietà del Demanio, per cui il consiglio comunale, riunitosi il 26 settembre 1874, ne deliberò l'acquisto.

Il decreto ministeriale con il quale ne venne autorizzato l'acquisto pervenne, al comune, datato Roma addi 3 dicembre 1876 e firmato da Vittorio Emanuele II Re d'Italia. [lavori ebbero inizio immediato. L'opera di costruzione non gravò molto sulla cassa comunale anche perché non fu necessario costruire una cinta muraria, essendo stata utilizzata quella già esistente della fortezza, né la cappella cimiteriale, che si ricavò dall'interno dell'antica chiesa del SS. Crocifisso riutilizzando, per il rifatto soffitto, 14 mensole finemente intarsiate con motivi decorativi uguali per coppia. La scelta però non fu tra le più felici, per il notevole impiego di pietrame, che avrebbe invece potuto costituire, oggi, una testimonianza dell'antica fortezza.

 

Il Club culturale ricreativo "LA MIMOSA " di Forza D'Agrò , si prefigge lo scopo di riprendere tutte le tradizioni antiche popolari del comune di Forza D'agrò, ormai cadute nel dimenticatoio. Di recente costituzione, il Club si è subito prodigato per portare avanti e far conoscere il passato storico e le tradizioni antiche popolari alfine di incrementare anche il turismo.

Oltre ad un centro storico quasi intatto dove si possono ammirare le antiche costruzioni arrocate ai piedi del castello normanno del 1100 (particolare emergente è quello che tutte le abitazioni posseggono almeno una finestra con vista sul mare), il paese è ricco di tradizioni e feste a carattere religioso-folkloristìco, come si evince dalla festa dell'alloro che si svolge ogni anno il lunedì di Pasqua, con gli stendardi fatti con foglie di alloro. Il Club in questa occasione ha già ripreso la tradizione della coltura pasquale (cuddura) fatta di uova e farina offerte dalla gente del paese ed addobbata di nastrini colorati.

La "cuddura " viene poi mangiata assieme a tutti i paesani in c. da Maglia, il pomeriggio del lunedì di Pasqua. La festa della SS. Trinità dove si incontrano le due antiche confraternite di Forza d'Agrò e Gallodoro ed altre ancora. Il Club la sera del 29. 06 1994, giorno dei SS. Pietro e Paolo ha organizzato una manifestazione per riprendere una antica tradizione che è quella di recitare delle canzoni premonitrici, sia d'amore che di sdegno ai giovani del luogo.

Ecco alcune "canzuni " tradizionali riportate alla memoria attraverso l'attento lavoro dell'ass. "La Mimosa Peli di surba peti di surbara/ghiantata ntà lu menzu di la via/la surba quannu è gerba è quannu è amara/iavi lu zariali comu a tia/tò matri chi ti fici è nà mavara/e chiù mavara cu parra cu tia. Nà picciuttedda di la conca d'oro/fa perdiri la testa a ccù a talia/la visti assìra ammenzu allì sò soru/cù l'occhi a pampinedda e mi ridia/oh Diu si pussidissi un gran tisoro/lu sangu di lì vini spargiria/diciticci a stà bedda cà ni moru/paci non avi chiù l'animuzza mia. Figghiuzza cù sta facci geniali/mi pari nanciuleddu di li celi/su di pietra brillanti li tò scali/e tu sifatta di zuccuru e meli/iò ti auguru un ancilu cù l'ali/mi sì ripara sutta li tò veli.

 

"Sauca, spaventu mi ti vardu! li robbí vili sciuppanu di 'ncoddu". La definizione dei savocesi come ladri deriva dalla leggenda popolare che vuole il paese fondato da cinque ladri fuggiti dalle carceri di Taormina

Sull'etimologia dei termine Savoca sono state fatte dagli storici varie ipotesi. La tesi più probabile è quella che vuole far risalire il noi-ne dei paese dalla pianta di Sambuco (in dialetto "Savucu") che proliferava abbondante in questa zona ed il cui ramoscello è effigiato sulle architravi dei vecchi monumenti, quasi a suffragare l'ipotesi che, nel l'antichità esso costituisse anche lo stemma della città.

Si crede che nel sito ove ora sorge il castello "Pentefur" esistesse, nei tempi remoti, un quartiere discretamente popolato dal nome omonimo il cui nucleo era costituito dai rifugiati della distrutta città fenicia di Phoinix che, forse, era ubicata nella località oggi denominata Bolina-Catalmo. Intorno al l'anno 1130 il re normanno Ruggero Il accozzò fra loro numerosi casali e masserie ponendoli sotto la giurisdizione della Baronia di Savoca che concesse, insieme al titolo di Barone della città, all'Archimandrita del SS. Salvatore di Messina.

Fino al 1600, infatti, l' Archimandrita tenne in Savoca, oltre che gli uffici amministrativi anche una propria residenza estiva. Fu creata nel 1468 anche una diocesi Archimandritale con capoluogo Savoca che comprendeva i seguenti territori: Casalvecchio, Pagliara, Locadi, Antillo, Misserio, Forza d'Agro, Mandanici, Ali, Itala, San Gregorio, Sant"Angiolo.

Come si evince da questi surriferiti dati il territorio amministrativo e religioso della città di Savoca spaziava per buona parte della riviera ionica dei Messinese con vastissima penetrazione verso l'interno prevalentemente disabitato. Il paese conobbe fino al 1750 momenti di splendore ben esemplificati dai principali monumenti dall'attività edilizia (1156 case nel 1652) dai fermenti economici (allevamento del baco da seta, vigneti).

Forte fu però, per la vicinanza del centro amministrativo, l'aggiogamento baronale delle plebi che vivevano in condizione di estrema miseria Nei primi anni del diciannovesimo secolo il paese perse gran parte delle sue prerogative a causa dell'abolizione della feudalità declinando poi, vistosamente, dal punto di vista demografico in seguito al sorgere dei grossi centri costieri. Nel 1853 la pretura del mandamento fu spostata a S. Teresa di Riva. Nel 1960, Savoca che dal 1928 al 1946 fu conglobata nel comune di S. Teresa di Riva, entrò in uno stato di grave decadenza per la mancanza di quasi voglia attività economica che comportò un'ondata migratoria senza ritorno.

Dal 1930 al 1965 nel paese non si costruì neanche una casa e anche le residenze nobiliari, lasciate in abbandono, cominciarono a sgretolarsi insieme con le chiese e gli altri monumenti. Ma il 1970  può essere considerato l'anno in cui ha inizio la rinascita di Savoca. Con l'avvento, infatti, del l'amministrazione presieduta dal prof. Giovanni Trimarchi, con programmata cadenza, è cominciato un certo decollo di questa antica terra.

Sono stati instaurati i servizi essenziali, è stato salvaguardato l'esistente impedendo che la deturpazione edilizia aggredisse il centro storico e la sua circovallazione illuminata da lampioni in ferro battuto, sono stati incoraggiati i fermenti culturali giovanili tendenti a rinverdire le tradizioni popolari e la storia dei paese. Quando alcune strutture di grande respiro culturale e turistico (museo dei mondo contadino, palazzetto dello sport, campo di tiro al piattello, gestione fruizione sociale della pineta), saranno completate, Savoca potrà, a  uno diritto, sperare in un avvenire migliore. Già ora il sogno di molti è possedere un'antica casa di Savoca, paese ove ogni pietra "racconta" tante e diverse storie in un continuum di forte spessore politico e culturale.

La chiesa (e l'ex convento) una volta facente parte del territorio di Forza d'Agrò e oggi di quello di Casalvecchio Siculo è "uno dei monumenti più significativi della nostra arte medievale ". Anche se di non facile accesso, la visita fornisce un'idea perfetta dell'architettura siculo-normanna.

La chiesa dei SS. Pietro e Paolo è a valle di Casalvecchio, sulla riva sinistra della fiumara d'Agrò. Era annessa ad un cenobio basiliano fondato attorno al I 117. Nello stesso tempo fu probabilmente edificata la chiesa; essa fu rinnovata nel 1172 dal capomastro Gherardo il Franco, come afferma un'iscrizione sull'architrave della porta principale.

Presenta all'esterno masse geometricamente definite. Il suo aspetto chiuso ed il coronamento di merli accusano chiaramente la funzione di fortezza cui fu chiamata la chiesa essendo isolata nella campagna. Singolare è l'accesa veste del parametro murario policromo, festoso apparato decorativo vibrante nel motivo dinamico degli archi intrecciati. Lo compongono i materiali più diversi: tufo arenario e lavico, pomice, calcare, lava e cotto. Notevole l'asti-atto gioco di questi materiali nelle ghiere degli archi dei portali.

Stilisticamente la chiesa è una pittoresca sintesi di motivi disparati attinti dalle varie culture architettoniche allora presenti nel l'isola per tradizione o per recente i importazione. Arabo è il senso bloccato delle masse stereometricamente definite, l'arco acuto, la soluzione costruttiva delle cupolette su archetti sovrapposti, la sagoma dei merli; bizantino l'uso dell'arco intrecciato sulla stesura esterna dei muri, la tessitura del parametro murario a mattoni variamente composti, l'uso di pulvini su capitelli, ecc.

Nel suo aspetto planimetrico la chiesa accusa il compromesso tra la pianta basilicale latina e quella a simmetria verticale bizantino, distinguendo due corpi centralizzanti ciascuno cori propria cupola: quello della navata e quello del Santuario. La fronte del l'edificio compone in unico massiccio corpo le due torri scalari e ora semidistrutte, che portavano al cammino di ronda, con l'esiguo nartece ad unico arco. Il portale principale e quello del lato destro appartengono al rifacimento del 1172.

All'interno la tripartizione della navata è ottenuta da archi acuti su colonne con capitelli grossolanamente definiti e pulvini. Al centro della navata principale è la cupola maggiore ad ombrello su alto tamburo poggiante su archi sovrapposti; sul presbiterio è la cupola minore su di un tamburo ottagonale poggiante su archi sfalsatamente sovrapposti sfuggenti e chiaroscurali. Le navate laterali sono coperte da crociere (da G. Bellafiore La civiltà artistica della Sicilia, Firenze, 1963).

La chiesa, con l'annesso convento, sono da inserire in quel processo che i Normanni, dopo la conquista dell'isola, avviarono per ridar vita ad usi e costumi religiosi cristiani dopo due secoli di dominazione araba. Quest'opera si tradusse nel ripristino dei monasteri basiliani, edificazione di Abbazie oltre che di castelli fortificati. Nell'anno 1086 il conte Ruggero iniziò l'opera di Ricostruzione del Monastero dei SS. Pietro e Paolo di Agrò, che fu completata dal figlio Ruggero II.

Interessanti notizie dei Monastero e della chiesa possiamo trarre dagli scritti di Giampiero di S. Teresa, in parte pubblicati in una graziosa edizione in pochi esemplari realizzata dal Comune di Savoca: " Eppure di quel Santo monastero, oggi, non restano che alquanti ruderi solitari, abbandonati, forse apprezzati come monumenti d'arte e d'isteria, e nulla più. La bellissima chiesa che fortunatamente ancora esiste all'impiedi, dopo la soppressione contro gli ordini monastici, nel 1866, divenne proprietà privata e vi fu tempo quando venne adibita a flenile, a stalla per chiudersi gli animali e amagazzino per in cassarsi i limoni. Ahi! Quelle macerie, al viandante che passa per quelle contrade, parlano un linguaggio veramente troppo misterioso, troppo incomprensibile al profano che nulla sa delle loro grandezze nel passato.

Per colui, invece, che sente le nobili origini di quel mistico ritiro, ogni zolla di terreno, ogni sasso, ogni rudere che qui si trova è un libro aperto in cui si leggono le grandi opere di Dio apro dei nostri lontani antenati e di noi che ne raccogliamo tutta l'eredità spirituale. Vogliamo, dunque, far voti che in quella chiesa dove un giorno echeggiavano le voci degli angeli con quegli degli uomini a Dio religiosi di S. Basilio cantando le lodi al signore sia ripristinato il culto a ciò che ancora, dopo 836 anni (noi p. Giampietro daS. Teresa scriviamo nel 1936).

( ... )Non possiamo lasciare sotto silenzio quanto avvenuto verso il 1794, regnando Ferdinando IV sembra che i monaci che vi abitavano stavano a disagio a causa dell'aria insalubre e a causa del terreno che minacciava continuamente frane e scoscendimenti. li torrente Agrò vicino allargava il suo dominio minaccioso e lambiva continuamente la sponda. Fu per questa ragione che i detti monaci hanno dovuto fare istanza alla S. Sede, all'Archimandrita e al Re di essere altrove trasferita tutta al giurisdizione di esso monastero coi titoli, preminenze ecc., mentre quel luogo nel torrente Agrò nonostante la sua illustre storia, la sua vetusta e monumentale vita sarebbe rimasto come semplice ospizio.

Il Re e tutte le autorità stabilirono la nuova sede del Monastero Agrillino in Messina. La legge di soppressione lo coinvolse nel ciclone settario, il terremoto dei 28 dicembre 1908, meno crudele, lo lasciò intatto; il piano regolatore della Commissione edilizia lo trasformò e di esso non rimase altro che la semplice lapide che prima era murata al l'esterno. Ci hanno tramandato gli antichi che in questo Monastero nella chiesa di S. Pietro e Paolo d'Agrò esistevano opere artistiche, pitture e quadri di impareggiabile valore; vi era i biblioteca immensa di manoscritti greci e latini che formava immenso patrimonio scientifico e letterario.

Con la soppressione monastica del 1866 tutto andò dilapidato, tutto andò soggetto ad un commercio infame de antiquari e per giunta stranieri; inglesi, francesi e tedeschi Sappiamo che la commissione di antichità e belle arti attende alla conservazione di quello che è rimasto, ma mi sembra verificarsi la storiella di colui che dopo aver venduto i cavalli in cerca delle cavezze ( ... ). Immediatamente dopo soppressione degli ordini religiosi, nel 1866, il monastero proprietà passarono al demanio e poscia a persone priva Questi furono: Luciano Crisafulli fu Elia, Maddalena Crisafulli fu Elia, seppelliti nella chiesa dello stesso Monastero".

A giudizio del Bottari la chiesa dei SS. Pietro e Paolo d'Agrò è "uno dei monumenti più significativi della nostra a medievale" (cfr. Nota sul Tempio Normanno dei SS. Pietro Paolo d'Agrò, in "Archivio Storico Messinese", XXV XVII (1925-26), Messina, 1927). Il monumento, riscattato sin dal 1909 al patrimonio artisti nazionale manca ancora di una strada carrozzabile che colleghi alla Strada Provinciale e alla Strada Statale 114 da cui dista poco più di sei chilometri.

Presentiamo una silloge di un lungo articolo che Leonardo Sciascia nel 1962 pubblicò sul quotidiano milanese "Il Giorno". In margine possiamo notare alcuni dati che ci stupiscono un po'; in particolare quelli riguardanti Forza d'Agrò che viene assimilata a Taormina per importanza turistica -e ricettività alberghiera. Forse Sciascia, allora ne intravedeva le potenzialità. Oggi il paese, da noi visitato, è invece più simile a Savoca, non essendo affatto diventato un polo di attrazione turistica. E poi, a Forza d'Agrò, non c'è mai stato un "dittico antonelliano" ma solo attribuito alla scuola antonelliana (Antonello De Saliha?). Da tempo trafugato, ormai non sono più possibili studi per una più attenta attribuzione.

"Padre Anselmo ha sete di turisti: danesi, svedesi e tedeschi sono la manna che implora nel deserto di Savoca; il ricordo di una comitiva di ben trentaquattro danesi accende di felicità i suoi occhi illanguiditi da una laboriosa digestione. Le vuole celle del convento sono pronte a ricevere i turisti: su ogni porta, lungo il corridoio, si leggono i versi come questi: "la vita fugge e si dilegua, oi lasso! - Dalla culla alla tomba, è un breve passo ", "Solitudine cara! Or qui voglio - vincer l'inferno, il mondo e il senso rio ", che certo darebbero decadentistici brividi alle nordiche comitive. E intanto "il senso rio ", sotto forma dei problemi del refettorio e dell'impianto di un bagno e di una doccia, ha avuto da padre Anselmo qualche piccola concessione.

Ma i turisti non arrivano. 0, se arrivano, sono quelli che a Savoca fanno soltanto una puntata preferendo al convento dei Cappuccini gli alberghi di Taormina e di Forza d'Agrò: paese, quest'ultimo, che in linea d'aria sembra disftare da Savoca un tiro di schioppo; un tempo soggetto a Savoca e oggi, grazie anche ad un film di astrale cretinería che vi è stato girato, freneticamente invaso dai turisti. Del film girato a Forza d'Agrò parla anche padre Anselmo, che forse in vita sua non ha mai visto un film: e ritiene che ben altra suggestione avrebbe un film girato a Savoca. "Del resto, c'è il convento: potrebbe ospitare tutta la gente che venisse per fare il film ". Quello girato a Forza d'Agrò era interpretato da Angie Dickinson detta, se non ricordiamo male, "Ve gambe ". "Or qui voglio vincer l'inferno, il mondo e il senso rio ".

Oltre al velo tessuto dai bachi, la chiesa del convento ha quadri notevoli e una cripta in cui i morti stanno, in piedi nelle nicchie, a far macabro carnevale: allineati nell'allucinante policromia dei loro vestiti di gala, il taffetà viola, l'amoerro paonazzo, la nera vìgogna, i dorati rabeschi; al di la della pietà, al di là dell'orrore. I notabili di Savoca: essiccati, tarlati, grottescamente sospesi. "C'è un quadro di Antonello ", dice padre Anselmo. "Antonello de Saliba ", precisa l'amico che ci accompagna...

Da trent'anni a Savoca non si costruisce una casa. E di opere pubbliche, in questi anni in cui di opere pubbliche in Sicilia se ne sono fatte tante, e non sempre utilmente, forse non c'è stata che la riparazione della strada che da Santa Teresa sale al paese. I candidati al Parlamento e all'Assemblea Regionale vengono su a raccogliere un mezzo migliaio dì voli: e poi si scordano di questo paese che pure non è facile dimenticare. Democristiani e liberali: a Savoca non ci sono altri partiti. L'amministrazione è democristiana, l'opposizione liberale. Un paese che raggiunse, nel secolo del suo maggior splendore, i 5.145 abitanti è ora ridotto, con tutte le sue frazioni, a circa un migliaio...

Savoca era sede di archimandrita, cui appartenevano ventiquattro dei quarantotto feudi che formavano il territorio del comune: ma già alla fine del Seicento l'archimandrita ne coglieva le rendite senza risiedervi, nonostante le proteste dei cittadini e del clero; protesta che trovò formale accoglimento nel duca di Vivonne, però senza conseguente effetto. E la situazione si sarà protratta fino, alla soppressione della sede, non sappiamo esattamente in quale anno ma probabilmente quando di tutti i beni altro non era rimasto che il palazzo: oggi desolato e vuoto, è il caso di dire come un teschio...

Ma intorno, quale splendido paesaggio! Il verde degli alberi, dell'erba, che da ogni parte si arrampica a soffocare il paese, a mimetizzarlo, ad assorbirlo: quasi che la natura, pazientemente, tenacemente, avesse assediato i bastioni, le case e le chiese di Savoca: subdolamente infiltrandosi nelle crepe, silenziosamente esplodendo di radici, distami, di filamenti; fino a che, vittoriosa, all'uomo non consentì altra vita che quella dell'albero, del filo d'erba; o la fuga. E più che il paese, la sua rovina nella bellezza di cui è circondato, è l'uomo che ci vive dentro a impressionarci: la sua assorta immobilità, il suo silenzio. Gettando un'occhiata nelle case, lo scoprirle abitate è una sorpresa: la gente vi si muove come in un mondo al di là della parola, in una superstite e ormai atrofica umanità. Persino i bambini.

E le nostre voci, mentre andiamo su e giù per le strade del paese e ci fermiamo ad ammirare portali, rosoni, bifore - e il paesaggio ad ogni svolta diverso, per cui si dice che Savoca ha sette facce - suonano sperse, irreali. La vita del paese, la vita tenace ed incongrua che ancora racchiude, è legala all'agricoltura. Il livello è uguale per tutti: non manca il necessario, non si cerca il superfluo. Tre maestri elementari, un paio di impiegati, i carabinieri. Non c'è un professionista. Un solo prete, con tante chiese che ci sono. E i tre padri Cappuccini (ma, chi sa perchè, padre Anselmo dice che sono due: il terzo, padre Basilio, studioso della storia di Savoca, forse perchè immerso nelle sue vecchie carte, estraneo e lontano, è considerato da padre Anselmo assente). E dopo tutto, padre Anselmo è l'uomo più vivo che ci sia a Savoca; il solo a credere nella ripresa del paese, a battersi per riportarlo alla vita.

A una vita turistica: come nel secolo scorso a Taormina, che certo oggi si troverebbe nelle stesse condizioni di Savoca se il nome della città non avesse colpito la fantasia del barone Ottone Geleng al punto di fargli giurare che, tornando in Italia, sarebbe andato alla ricerca di Taormina; o come oggi, grazie a un dittico di Antonello da Messina, al film di Negulesco e alla sua incantevole posizione, Forza d'Agrò. E, in quanto a posizione, Savoca non ha niente da invidiare nemmeno a Taormina. Senza dire che, a forza di scavare, potrebbe venir fuori, come un po' dovunque in Sicilia, il tempio greco o il petrolio. Ma meraviglia, anzi, che archeologi e "prospettori " non abbiamo ancora toccato questo territorio ".

Il Convento dei Frati Minori Cappuccini di Savoca, risalente al XVII secolo, custodisce all'interno della Cripta sottostante l'annessa Chiesa i corpi mummificati di alti prelati e notabili dell'antica Savoca e dei suoi casali. Dei trentasette resti mortali complessivamente conservati nella Cripta, diciassette corpi sono esposti alla vista entro nicchie ricavate lungo una parete del sotterraneo, mentre i rimanenti cadaveri rimangono allocati entro urne e bare presenti nello stesso ambiente, ovvero ivi inumati.

La Cripta qui sommariamente descritta che contiene peraltro un altare probabilmente utilizzato nel passato per la celebrazione di messe in suffragio, costituisce a nostro parere, nella sua complessiva e attuale configurazione, un'eccezionale testimonianza e un documento insostituibile in ordine alla comprensione storica e antropologica di arcaiche, ed ormai dismesse, modalità di fruizíone degli "spazi funebri " nonché di una determinata tecnica di trattamento dei cadaveri, la mummificazione per essiccazione naturale, di rilevante interesse antropologico-culturale.

Gli "attardamenti" che è dato registrare in ordine alla configurazione spazíale (apud Ecclesiam) e ad una modalità di trattamento dei cadaveri non più in auge già nella metà del secolo scorso, devono probabilmente essere ricondottí a particolari privilegi dì cui continuarono a godere i Frati Minori Cappuccini e qualche altro ordine religioso anche in periodo post-unitario. E' infatti di notevole interesse il dato, facilmente riscontrabile, che pressoché tutte le "mummie "presenti in Sicilia e nel più vasto Mezzogiorno d'Italia siano custodite presso sedi francescane e domenicane.

Nella nostra isola sono famose le mummie conservate nelle cosiddette "catacombe " dei Cappuccini di Palermo, ma si possono qui parimenti rammentare nella provincia di Messina, a titolo esemplificativo e non esaustivo, i centri di Santa Lucia del Mela, Fiume dinisi, Galati Mamertino, Militello Rosmarino, Novara di Sicilia, Piraino in cui esistono chiese o conventi depositari di corpi mummificati. La tecnica di trattamento mummificatorio per essiccazione naturale non è conosciuta nei particolari, ma può essere sommariamente ricostruita da documenti d'archivio e dalle testimonianze architettoniche ancora esistenti.

Nella stessa Savoca, ad esempio, in una cripta sottostante la Chiesa Madre, si trova una vera e propria "camera di mummificazione un' ambiente circolare molto ventilato a causa delle numerose feritoie esistenti nelle pareti, presenta dei loculi provvisti di sedili sui quali venivano sistemati i cadaveri. Attraverso dei fori presenti nei sedili di pietra e di un sistema circolare di scolo, si provvedeva a convogliare gli umori e i liquami in una grande fossa di raccolta adiacente. I cadaveri venivano progressivamente trattati con unguenti ed essenze, affinché i tessuti non perdessero elasticità. Un'ulteriore fase del procedimento doveva consistere nel riempimento della cavità toracica, privala degli organi interni, con paglia o altre fibre vegetali, allo scopo di conferire alla mummia lo spessore naturale.

Secondo padre Basilio Gugliotta, cappuccino presso il Convento negli anni Cinquanta e autore di uno studio inedito sulla "necropoli sotterranea " di Savoca, la mummificazione è "il prodotto di un processo semplicissimo, di un esporto per assorbimento degli umori effettuato da microscopiche fungaie d'Hypha ". A detta di quest'autore la essiccazione completa dei cadaveri richiedeva un periodo di sessanta giorni alla fine del quale la pelle che ricopriva i corpi diventava "incartapecorita e sonora come quella di un cembalo ". Alla luce delle considerazioni fin qui espresse emerge l'indubbio valore storico ed etno-antropologíco dei corpi mummificati di Savoca.

L'intervento della Soprintendenza di Messina è stato occasionalo da un allo vandalico perpetrato da ignoti nella notte fra il sette e l'otto febbraio 1985, con cui quindici delle diciassette mummie esposte vennero imbrattate con vernice ad olio di colore verde. La vernice, oltre ad deturpare le parti scoperte delle mummie, ossia principalmente le mani e i volti, ha lasciato larghe pezzature dì colore ed aloni oleosi sugli abiti che ricoprivano i corpi, risalenti al XVIII e al XIX secolo ed attestanti le qualifiche nobiliari o sacerdotali dei defunti. A detta dai restauratori di tessuti interpellati dalla Sezione per i Beni Storico-artistici della Soprintendenza, alla quale chi scrive aveva rivolto l'invito ad un intervento congiunto, è impossibile eliminare il danno arrecato alle stoffe.

La coltivazione del gelso bianco e l'industria della seta noi la dobbiamo alla presenza degli Arabi in Sicilia; e che molto si accrebbe sotto i Normanni e gli Svevi, Sicché, prima assai della conquista di Corfu, la Sicilia, aveva conosciuto già sin dal
secolo VIII di Cristo sia l'industria della seta come la coltivazione del gelso bianco le cui foglie come si sa servono per la nutrizione dei flugelli dai quali si estrae la seta. Sin da quei tempi in questo settore ionico della Sicilia orientale, Savoca fu tra le prime ad impiantare l'industria della seta, ed ebbe laboratori molto rinomati, che detennero un primato nell'isola per molti secoli, e smerciarono nei mercati orientali in gara con
i medesimi. Fino al 1855 uno stabilimento lavorava per tutto l'anno e altri otto stagionalmente dal 15 giugno fino alla fine di luglio.

Nel secolo XIII i frati conventuali di S. Francesco, mandati a Savoca da S. Antonio da Padova che trovasi allora a Messina, avevano un laboratorio per l'industria della seta, in un fabbricato grandioso annesso al Convento, che, sorgeva in con ada S. Maria della Misericordia - oggi -Mallina - del quale abbiamo osservato i ruderi, adesso in parte scomparsi; perchè in quel punto ove sorgeva detto laboratorio, oltre le altre cose venne costruita una grande e profonda vasca capace di contenere vari metri cubi d'acqua per irrigazione proprietà dei signori Lo Re Lembo, oggi Lombardo.

Vicino a detta vasca verso sud-est esiste in perfetto stato una cisterna trecentesca; e i ruderi che oggi si ammirano restano dalla parte che guarda nord-est, sopra della vasca. Ora questo magnifico solare così pieno di gloriosi ricordi giace ai piedi del monte Cucco, sopra la rotabile provinciale Savoca-Casalvecchio-Antillo. Di altri laboratori in quanto alla loro ubicazione non ci è pervenuta memoria, ma è certo che sono esistiti.

La rinomanza poi di detti laboratori dì cui ho voluto fare menzione si deve ai notabili savocesi delle diverse epoche; giacché essi tenevano l'egemonia sia per l'allevamento dei bachi, come per la estrazione e lavorazione della seta tanto che le donne patrizie filavano e tessevano la seta e nel dare diversi colori naturali si distinsero, per il gusto e la finezza che noi abbiamo ammirato in resti di seriche stoffe uscite dai telai in esame in alcune case patrizie, e nelle Chiese dell'Immacolata e della Matrice di Savoca; paramenti sacri, sopracalici di seta, cappe, scialli ricchissimi vestiti per uomo come tutt'ora si noto nella necropoli sotterranea dei Cappuccini, che coprono il corpo essiccato dì alcuni patrizi savocesi del settecento, Ma di tutte queste bellezze di seta nulla esiste più se non un pallido ricordo.

Dal manoscritto di P. Basilio Angliotta "l' industria della seta in Savoca", anno 1962