Gli anni Cinquanta e il consumismo. La breve storia del formaggio siciliano e le sue prospettive
Fino a poco tempo fa raramente fuori dei confini della Sicilia si era a conoscenza dei "canestrati" e "provoloni", di "piacentini" o di "ricotte salate". Solo i nostri emigrati sparsi per il mondo trasmettevano, addolciti del ricordo e dalla lontananza, racconti, proverbi, nomi e sapori sconosciuti ai più, alimentando l'unico debolissimo commercio extrasiciliano. No, il formaggio "tipico" siciliano non ha mai avuto grandi fortune o almeno non ha avuto quella che meritava. Ha sempre portato addosso il marchio della cucina povera, "fredda", "non cucinata", tipica degli strati subalterni. Ecco quindi anche tra i consumistici siciliani "post-boom" diffondersi l'uso e il consumo di scamorze, provoline e formaggi fusi (figli del benessere e dell'industria della "leggerezza")al posto di provoloni, caciocavalli e pecorini che puzzano tanto di anni difficili. La produzione totale di latte trasformato, in Sicilia, si è mantenuta fino ai primi anni '80 a livelli non lontani da quelli degli anni '50. Con una importante sostanziale novità che la dice lunga sui caratteri "sociologici" del consumo: nel 1951, sul totale della produzione di latte, il 42,4% era rappresentato da latte ovicaprino. Ora siamo a quote che a malapena raggiungono un quinto della produzione totale. Il tutto mentre la proporzione tra latte bovino e ovicaprino trasformato rimane pressoché immutata nel tempo. Cosa è successo? Semplicemente che ora il latte di pecora serve solo per produrre il formaggio essendo del tutto scomparso il consumo diretto (quanti anni luce sono passati da quando il pastore bussava alla porta per rifornirci con la sua pecora-industria ambulante-di latte davanti l'uscio?).
Le nuove tendenze del mercato agroalimentare sono chiare: per il prodotto tipico di qualità la strada sembra finalmente in discesa. In un contesto di questo tipo anche il formaggio siciliano ha le sue carte da giocare, la sua carta di credito da spendere nel mercato della "virtù" alimentare. La condizione è quella di utilizzare appieno le potenzialità di quella parte di produttori che utilizzano strutture artigianali o familiari e che risultano più penalizzate dall'assenza di adeguate strutture consortili e di commercializzazione. Occorre anche regolarizzare e razionalizzare le fonti di approvvigionamento necessarie alla produzione delle aziende medio-piccole. Secondo Ida Di Fazio in Il latte e i suoi derivati": "La situazione attuale del l'allevamento, infatti fa sì che i maggiori quantitativi di latte in Sicilia vengano prodotti ancora, in concomitanza col periodo di maggiore disponibilità dei foraggi verdi, con una stasi nel periodo estivo. Il breve periodo di sovrapproduzione si ripercuote sul prezzo del latte, al punto che alcuni allevatori caseificano direttamente il latte finché il prezzo dei formaggio è remunerativo, mentre lo conferiscono alle centrali quando si inverte l'andamento dei prezzi. Accade così che gli stabilimenti di trasformazione di piccole e medi dimensioni sforniti delle fonti stabili di approvvigionamento di materia prima ( ... ) lavorano spesso anche cagliata importata da altre regioni italiani. L'isolamento delle aziende minime, poi, fasi che i loro prodotti possano raggiungere solo ristretti mercati locali".
D'altra parte l'attuale legislazione di tutela (risalente al 1955) del Pecorino siciliano favorisce, piuttosto che disciplinare, questa estrema variabilità. La legge stessa, per esempio consente pezzature che vanno da 4 a 12 chilogrammi "con variazioni in più o meno" (non specificate!) e soprattutto identifica come zone di produzione, senza esclusione alcuna, l'intero territorio regionale. Questo significa, di fatto, rendere inefficace ogni possibile tutela e scarsamente utilizzabile in marchio di qualità. Non sorprende quindi che praticamente nessuna azienda si avvale dei marchio doc.
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