Troina,
paese di montagna posto a 1.121 metri s.l.m., ai margini meridionali dei
Nebrodi, in una zona ricca di boschi e di pascoli, è conosciuto
nella storia di Sicilia perché nel secolo XI diviene la prima capitale
normanna dell’isola, dove saranno raggiunti i primi accordi sulla
“legatia apostolica”, attraverso l’incontro tra papa
Urbano II ed il conte Ruggero; ma è noto anche per le bellezze
paesaggistiche, l’aria pura che vi si respira e, particolare da
non sottovalutare, per la gastronomia locale.
Chi vi soggiorna può avere il piacere di gustare dei piatti unici
nel loro genere, caratteristici di una cucina legata ad ambienti agro-pastorali,
propri delle zone montane; e tra questi primeggia un piatto rustico e
completo, la cosiddetta “vastedda cu sammucu”, denominata
anche “vastedda ‘nfigghiulata”. La voce “vastedda”,
con le varianti “vastella” e “guastella”, assume
in Sicilia il significato di focaccia o scacciata; essa deriva dal francese
antico “gastel”, ma la si riscontra pure nel normanno “guastel”
e “wastel”. Le definizioni di “Guastedda” e “Vastedda”,
presenti sul vocabolario siciliano-italiano di Antonino Traina (1868),
si avvicinano alla focaccia prodotta nel troinese ma non sono soddisfacenti
del tutto; in esse si parla di una “specie di pan buffetto”,
che si imbottisce nel suo interno di ricotta, ciccioli ed altro, e che
tale voce potrebbe derivare da “pastella”, da cui “pastedda”
ed, infine, “guastedda”. Quanto all’aggettivo “’nfigghiulata”,
sempre nel già menzionato vocabolario siciliano, viene riportato
il significato di “sorta di pagnotta a guisa di sfogliata e con
ingredienti”, quali potrebbero essere la ricotta, la salsiccia e
la tuma; mentre per “’nfigghiulatu” si definisce una
“guastella” con dentro il ripieno messo in abbondanza. Infine,
l’azione di “’nfigghiulari” porta ad effettuare
delle strane mescolanze, a tramescolare, a mettere una cosa dentro l’altra.
Per esempio, a Rosolini, nel siracusano, viene prodotta una “’nfigghiulata”
di tal tipo, definita in un autorevole libro di cucina siciliana “una
focaccia di mescolanze” (G. Coria, Profumi di Sicilia, 1981). La
parola “vastedda”, inoltre, assume diversi significati nell’ambito
delle varie province siciliane e talvolta anche da comune a comune. Si
tratta di un antenato della pizza nell’ennese o di un grosso pane,
detto anche “guastidduni”, nell’agrigentino e nel nisseno;
una sorta di pane semi-integrale fatto con semola grossa nel siracusano.
Addirittura, nel Belice, per “vastedda” viene indicato un
formaggio a pasta filata di forma rotonda e schiacciata. Un altro pane
particolare, denominato “vastiédda”, viene prodotto
nel ragusano, preparato nel passato il giorno di Pentecoste e consumato
in segno propiziatorio; alla farina impastata come per il pane comune,
vi si aggiunge un’adeguata quantità di fiori di sambuco.
Autori che si sono occupati di gastronomia siciliana definiscono la “vastedda”
una pagnotta del diametro di 20-30 centimetri od anche più grande,
la quale presenta una mollica gialla, spugnosa, morbida e fragrante ed
una crosta dal caldo colore bruno. Da una versione “schetta”,
vale a dire celibe, che in senso figurato significa <<priva di qualcosa>>,
si passa alla versione “maritata”, cioè <<completa>>,
che è quella che si avvicina di più alla focaccia troinese,
presentandosi questa ultima più ricca per l’aggiunta
di aromi e farciture.
La “vastedda cu sammucu”, prodotta a Troina, può essere
assaporata e gustata tra maggio e giugno, in occasione della fioritura
del sambuco (“Sambucus nigra”), pianta arborea o arbustiva
delle caprifoliacee che cresce spontanea nei terreni fertili e nei luoghi
freschi, ma che si riscontra coltivata pure negli orti e nei pressi dei
casolari di campagna. I fiori bianchi e molto profumati vengono impiegati,
appunto, per aromatizzare ed insaporire questa tipica focaccia, elemento
da non trascurare per la riuscita del piatto. Tale focaccia, pertanto,
è di esclusiva produzione della cucina troinese, al punto che gli
abitanti dei paesi viciniori pur conoscendola, non riescono a cimentarsi
nella sua preparazione. Gli ingredienti, come già detto, sono semplici:
farina di grano duro (semola), lievito naturale (“criscienti”)
o di birra, acqua, sale, strutto (“saìmi”), latte ed
uova, per l’impasto; tuma fresca tagliata a fette, meglio se ottenuta
da latte vaccino, salame (“ferlata”) affettato e posto a strati,
dadini di pancetta (“vintrìsca”) soffritta, per la
farcitura; il tutto cosparso sia nell’impasto che esternamente da
abbondanti fiori di sambuco. Fino a qualche anno addietro, in alternativa
alla semola, poteva essere utilizzata la cosiddetta “majorca”,
antica varietà di grano gentile, dalla quale si otteneva una farina
che dava un prodotto più bianco. L’impasto, eseguito in maniera
energica, assieme ad un’attenta cottura nel forno a legna, dal quale
si ottiene doratura e fragranza, rappresentano fattori fondamentali per
la buona riuscita del prodotto. Ed in questo contesto risulta valido un
detto comune tra le massaie: “’a massara cierni e ‘mpasta,
‘u funnu conza e vasta”; queste, inoltre, invocando il patrono
per ottenere la buona riuscita del piatto, si segnano con la croce e,
nel momento in cui le forme si fanno scivolare nel forno, recitano più
volte “San Suvviestu bieni e priestu!”.
La struttura della “vastedda cu sammucu”, esternamente a crosta
croccante, è composta nel suo interno da due strati di pasta, separati
o intramezzati dalla farcitura; a cottura avvenuta, lo spessore non deve
superare i 6-8 centimetri. Tradizionalmente di forma circolare, come la
cosiddetta “impanata”, oggi prevale la rettangolare, simile
alla “scaccia”, ma con dimensioni variabili. Nell'attesa
di una documentazione che ne attesterebbe le origini e le produzioni di
questa caratteristica focaccia, come pure l’esatto quantitativo
degli ingredienti da utilizzare, si continua a fare riferimento ai ricettari
trascritti nei vecchi e sgualciti quaderni di cucina. Alcune considerazioni
portano, comunque, a stabilire come la voce “vastedda” si
riscontra in tutta la Sicilia col significato di focaccia o scacciata
e tale voce, e non solo a Troina, fa parte di un piatto caratteristico
della gastronomia isolana. In particolare, per le origini francesi del
termine, tali focacce possono essere ricondotte al periodo medievale.
Questa ultima ipotesi viene supportata anche dalla tipologia degli
ingredienti impiegati; infatti, ed è il caso della “vastedda
cu sammucu” prodotta a Troina, l’elevato apporto di ingredienti
ottenuti dalla lavorazione della carne di maiale, quali il salame, lo
strutto e la pancetta, risulta caratteristico di tale epoca, quando
questo animale
era tenuto in grande considerazione ed allevato prevalentemente allo stato
brado, cibandosi di ghiande prodotte dalle querce, molto più numerose
rispetto ad oggi. Se fino a qualche anno addietro questo piatto veniva
preparato esclusivamente in primavera, non solo perché coincidente
con la fioritura del sambuco, ma perché tuma ed altri ingredienti
sono propri di questa stagione, facilmente reperibili nelle campagne e
nelle masserie, oggi la produzione avviene durante tutto l’arco
dell’anno per conto dei panificatori, data la cospicua richiesta
del prodotto da parte di cultori ed affezionati a tale genere di cucina,
con l’impiego in questi casi di fiori di sambuco essiccati. Attraverso
una sagra gastronomica, ideata ed organizzata dalla “Pro Loco Troina”,
la cui prima edizione risale al 1987, oggi questo piatto ha raggiunto
la piena valorizzazione, avviandosi alla fase di tipicizzazione. Visitando
la sagra, che si tiene presso l’antico loggiato del monastero di
Sant’Agostino, oltre a poter assaggiare la rinomata “vastedda
cu sammucu”, preparata dai locali panificatori e ristoratori, è
possibile conoscere altri piatti della gastronomia troinese, tra i quali
primeggiano i cosiddetti “’nfasciatieddi”, dolci a base
di vincotto di fichidindia rivestiti o, meglio, fasciati, da un involucro
di pasta di biscotto. La “vastedda cu sammucu” si inserisce,
altresì, nel cosiddetto “Festino di San Silvestro”,
manifestazioni a carattere folkloristico-religiose in onore del patrono,
che si tengono ogni anno tra la penultima domenica di maggio e la prima
domenica di giugno. Nell’ambito dei pellegrinaggi che si svolgono
sia a piedi sia con cavalli e muli bardati e carichi di alloro, si suole
offrire ai devoti di ritorno dalle vicine foreste, oltre ai già
citati “’nfasciatieddi”, calde fette di “vastedda”,
biscotti al lievito e traboccanti bicchieri di vino.
In questo contesto, la “vastedda cu sammucu”, realizzata dalle
abili mani delle massaie, così come la preparazione si è
tramandata per secoli, diviene un piatto devozionale della religiosità
popolare.
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