L'inconsapevole sublìmista 

Nel mese di marzo dei 1996 moriva Giuseppe Correnti, chiamato affettuosamente da tutti i suoi compaesani "Pippinu" Quella giornata, la campana della parrocchia di S. Caterina suonava lemme lemme, erano gli inequivocabili rintocchi che partecipavano la morte di una persona. la gente, com'è d'uso, si fece il segno della santa Croce e recitò "l'Etneo riposo" e subito iniziarono i "sacri riti di buon vicinato": "Cummà, cu è ca muriu? Bob! Sunà a campana di S. Catarina, avi a essiri uno di S. Michelí!" Cu è ca stava tintu? Quella giornata non andò così! Il tradizionale copione fu totalmente modificato. La notizia incredula ed eclatante, girò tutto il paese "cli casa in casa, di bocca in bocca". "Muriu Pippinu Correnti! `Muriu Pippinu Correnti'. Alla notizia tutti esclamavano: ''Mischinu''! Nella mente di tutti, velocemente, come quando si riavvolge una pellicola, ognuno andò a scavare nei propri ricordi per evocare un fatto o un evento di cui Peppino era stato protagonista. Ci si accorse subito che il nostro eroe, di ognuno di noi, portava con sè un pezzo di storia. Peppino Correnti, barbone per caso, o meglio, per necessità, era nato a Chiusa Sclafani il 15 giugno dei 192 1, ed era lì che viveva, amato e benvoluto da tutti. In qualsiasi ora della giornata era solito trovarlo ai bordi della statale Palermo - Agrigento indaffarato a far pascolare le sue capre e ad intrattenere, con simpatiche battute, i passanti di turno. I suoi capelli, colorati con lucido di scarpe, indifferentemente, testa di moro o nero, erano nascosti da un berretto milita re decorato con spille, corno, ed altri oggetti ornamentali, la cui trasformazione non consentiva d'individuarne l'arma d'appartenenza. La barba incolta, di colore variegato, era bruciata dal mozziconi di sigarette che raccattava per terra e che fumava fino ad oltre il filtro. Il suo viso, bruciato dal sole, era solcato da lunghe cavità che rafforzavano il suo mesto sorriso. Gli occhi lucenti e vivaci erano capaci di emanare una grande tenerezza che abbellivano il suo sorriso buono e fiducioso, anche se... spruzzavano un pizzico di malizia. La sua ampia falcata gli consentiva di raggiungere velocemente i diversi quartieri dei paese, ciò, faceva pensare che possedesse il dono dell'ubiquità; tra uno spostamento e l'altro si fermava con grandi e piccini, pronto a scambiare una battuta, una risata o riferire qualcosa, più o meno sensata. Si vestiva sempre allo stesso modo, mentre, nelle festività trasformava il suo abblig 'amento maniera goliardica ed alquanto stravagante. Ciondoli, nastri, medaglie, finanche i quanti militari di lana con le punte consumate che mostravano le sue unghia lunghe e sporchissime. Le giacche militari erano le sue preferite, le chiedeva a tutti. I pantaloni Il indossava corti, anticipando la moda dei pinocchietti, evidenziando in tal modo calzini dimessi e di vari colori. Ai piedi portava, si fa per dire, delle comode e consumate scarpe di due o tre misure più grandi che trascinava per le strade dei paese con un suono ritmato e familiare che si riconosceva ad una decina di metri. Coi sole o con la pioggia, coi vento o con il freddo Peppino era in mezzo alla strada pronto a rilasciare la solita battuta o disponibile a farsi prendere in giro. Il pasto di Peppino era fugace, costituito dagli avanzi che riusciva a trovare nei cassonetti dell'immondizia o da qualche piatto di pasta offerto dagli amici o dai parenti. Correnti in queste condizioni si trascinò per diversi anni con un manipolo di capre che rappresentavano le uniche sue vere compagne; un gruppo di girgentane che portava in giro fiero, mostrandole a tutti con grande orgoglio e autocompiaci mento. La preferita era Carmelina, animale dalle corna lunghe e possenti, che solitamente inghirlandava con nastri e corone d'alloro tanto da farla sembrare una scenografia di teatro. Le capre erano la ragione della sua vita, le cose più care che aveva avuto al mondo, le uniche che lo amassero, sembrava che il destino crudele l'avesse resi un tutt'uno. Era solito sentirlo dialogare con le sue bestie, le quali, restavano a guardarlo imbambolate, ammaliate da questo "nobile padrone" che finalmente le aveva elevate al grado più ,evoluto" di umani. Lo seguivano ciecamente riconoscendolo "Becco dei branco". Peppino dormiva sotto i ponti, nel pagliai, o nei rifugi di fortuna con l'unica campognia: le sue capre. Spesso appiccava fuoco ai bordi dello stradale, nell'intento di pre parare per l'autunno successivo, un buon pascolo per le sue caprette, anche se, spesso provocava seri danni. La gente capiva che era opera di Pippinu e non gli si accaniva contro; il perdono era sempre scontato. Il nostro sublimista nella sua gioventù era stato un ragazzo normalissimo; i più anziani lo ricordano come un grande lavoratore, forte, tenace, energico e robusto. Tornato dal servizio di leva mostrava alcuni disturbi psichici, qualcuno racconta che adescasse anche minori e per questo fu più volte rinchiuso in manicomio. Da questa esperienza ne uscì distrutto e sconvolto. Il nosocomio, aveva trasformato quest'uomo duro, ìmpetuoso, in una persona mite e remissiva. Per guadagnarsi da vivere svolgeva lavori di facchinaggio: per una mangiata di spiccioli trasportava a domicilio le valigie delle persone che tornavano con la corriera da Palermo. Per accaparrarsi la clientela scaturivano delle vere zuffe con un altro barbone, deceduto qualche anno addietro, che tutti chiamavano "Ninu Murrialisi". Peppino ha trascorso gran parte della sua vita in silenzio, coi suo mondo, con le sue capre, con la sua solitudine; la sua partenza ha lasciato un grande vuoto tra i suoi compaesani. La sua morte ha dei sensazionale, poiché la notizia del suo decesso ha portato un senso di sgomento in tutti. E' bastato Il rintocco cupo della campana grande di S. Caterina per far cadere in silenzio l'intero paese. Ognuno con una motivazione propria, con un ricordo diverso, con la propria espressione ha voluto salutare per l'ultima volta l'amico Peppino. Da più parti si è mossa la solidarietà e la compassione umana, gran parte dei lavoratori ha anticipato la fine della giornata, i ragazzi dei corpo bandistico si sono autoconvocati per accompagnarlo, come si fa con i notabili dei paese, altri, si offrivano per portare il feretro a spalla al cimitero, altri ancora hanno portato i fiori, insomma una gara di generosità senza precedenti. Il corteo si è snodato con un'anclatura lenta, non una lacrima, non un viso accigliato, tutti presi da un'estasi che li rendeva sereni. Peppino era solito partecipare a tutti i funerali, si trovava sempre in prima fila con il vestito tirato a festa e per tutti si dispiaceva. Chissà, forse per riconoscenza o per semplice amore di fratellanza, tutti hanno sentito la necessità di salutare per l'ultima volta l'amico Peppino. In tutti è scattata la grande solidarietà umano, il muro che si rompe, i sentimenti che si manifestano, il desiderio di essere presente. Ognuno spinto da una sublime umanità ha voluto essere per l'ultima volta vicino all'amico di sempre. Qualche settimana più tardi, nel corso della novena dedicata a S. Giuseppe, l'arciprete Don Rosario Bacile, sentendo il dovere di ringraziare tutti i compaesani in nome di Peppino, ha sottolineato, commosso, il grande coinvolgimento di massa che c'era stato intorno al suo feretro. Il sacerdote soffermandosi sulla figura di Correnti lo ricordava in occasione della festa di S. Giuseppe, forse una delle poche volte che entrava in chiesa, sistemato nella navata sinistra dei tempio di S. Maria silenzioso, impassibile, attento e a volte anche raccolto in meditazione; dopo la funzione entrava in sacrestia per lasciare un sorriso di compiacimento ai sacerdoti. Al passaggio del feretro anche i negozi hanno abbassato le saracinesche in senso di rispetto verso "l'ultimo" E "l'ultimo" divento il primo; infatti, la suo funzione religiosa così sublime è stata celebrata come se si trattasse di uno dei "primi'. Non c'è uomo sulla terra che non si affligge cercando di apparire, o cerca di superare i suoi simili per ottenere chissà quale riconoscenza o quale ricompensa, sospinti dall'aria della vanità, Peppino, viceversa, ci insegna come gli uomini, anche gli ultimi, con un passato non certo esaltante, con i suoi gesti semplici e disinteressati riescono ad emergere e diventano occasione per tutti di riscoperta di quei valori umani di fratellanza e amore che spesso noi volontàriamente seppelliamo tra l'egoismo della vita. Grazie Peppino per aver dato, alla nostra comunità, anche per un pomeriggio, l'opportunità di ritrovarsi unita. Addio per sempre, i tuoi affezionatissimi compaesani.

Tratto dal libro Piccoli Gradi Uomini di Mario Liberto - ISPE ARCHIMEDE EDITRICE