Una lavandaia rinomata

Casa mia era frequentata dalla 'Gnura Ciccia, lavandaia rinomata. Era costei un donnone tanto largo quanto lungo, con una bella treccia appena brizzolata sulla nuca e un volto rotondo e sorridente su cui spiccavano due grandi occhi neri. Vestiva gonne di,cotone lunghe fino alla caviglia, arricciate in vita, che aumentavano di numero man mano che incalzava il freddo; quando questi diventava particolarmente intenso, veniva ad annunciarci che aveva messo anche i mutandoni e "U scialW' sulla testa. Una volta alla settimana raccoglieva lenzuola e tovaglie sporche, dopo averle contate, in una grossa "truscia" che metteva sulla testa; a secondo della quantità richiedeva due o tre pezzi di sapone di casa (quello buono fatto con l'olio d'oliva appena rancido) verde che profumava di pulito e partiva con l'andatura di una regina. Alle tre di notte si alzava e si dirigeva al fiume dove aveva la sua pietra-lavatoio (stricatu, ri) - ogni lavandaia aveva la sua - si immergeva nell'acqua limpida e fredda fino alla vita, dopo aver tolto e ripiegato le gonne, e cominciava a lavare. Per le cinque del mattino la biancheria era già lavata e veniva stesa sull'erba del prato finché non si fosse asciugata. Se la giornata era piovosa Ciccia e le sue colleghe asciugavano la biancheria in una stanza appositamente affittata. Mentre le lenzuola asciugavano, le lavandaie facevano colazione e chiacchieravano. Nel frattempo sull'alto della collina che sovrastava il fiume si acquattavano i ragazzini che andavano per spiare le nudità delle lavandaie e così spesso finiva "a pitruliata" dall'una e dall'altra parte. Quando il bucato era asciutto, Ciccia rifaceva la truscia, questa volta piegata per bene, e tornava per farsi pagare. Poteva succedere di qualche lenzuolo scambiato (ed erano discussioni a non finire perché Ciccia non sbagliava mai!) o di qualche buco non previsto che veniva subito rattoppato, ma ricordo il profumo che emanava da quella biancheria (senza bisogno di additivi e ammorbidenti biodegradabili) quando il ferro rovente con la carbonella accesa dentro la stirava. Ciccia non andava via subito, giocava con noi bambini e ci raccontava le avventure della sua vita, come quanto aveva partorito la figlia sulla strada per il fiume e poi con la neonata sotto il braccio aveva proseguito per fare il suo lavoro quotidiano. Quel giorno però si era concessa un panino bianco al posto del solito pane casereccio. Ricordo quando andavo a trovarla a casa il suo letto bianco, enorme, con quattro materassi di crine, che profumava dei gelsomini che metteva sotto i cuscini; ai piedi del letto la mangiatoia per l'asino del marito. Ciccia aveva fatto anche la balia (non esistevano i latti in polvere) a Catania e quando la signora la aveva costretta ad indossare il busto e le scarpe, in piena via Etnea si era seduta sul marciapiede e si era tolta tutto perché si sentiva soffocare. Era fatta cosi. Poi Ciccia era diventata vecchietta, piena di dolori alle ginocchia; il fiume si era ridotto ad un rigagnolo per il pozzo che avevano scavato vicino alla sorgente; mia nonna allora aveva comprato una lavatrice serniautomatica dove bisognava mettere l'acqua dentro con il secchio, il sapone grattugiato e chiudere il coperchio per farla girare. Ciccia continuava a venire la sera e stavolta per aiutare a grattuggiare il sapone, o per recitare la novena di Natale o per sbattere le uova per i dolci pasquali. Era diventata un componente dell'universo familiare. A vita.