All’inizio degli anni ’50, il pane non era considerato un nemico della linea da guardare con sospetto e diffidenza, ma grazia di Dio. Ai bambini si insegnava ad amare e rispettare il pane; se cadeva si raccoglieva e si baciava; quello duro si riciclava come pane cotto; in chiesa il prete lo offriva a Dio come frutto della terra e del lavoro dell’uomo. La Sicilia, che aveva per ben due volte cinto la battaglia del grano durante il ventennio fascista, nel mese di giugno sfoderava la sua opulenza: biondi campi di messi a perdita d’occhio! La mietitura era la conclusione di un anno di fatiche, di paure ( bastava un solo temporale per rovinare il raccolto) e di speranze. Come tale diventava rito e festa religiosa e pagana insieme. Ricordo un piccolo pezzo di terra alla “Piana” che ad anni alterni veniva seminato a grano. Quando questo era maturo tutta la famiglia si trasferiva sul campo vivendo in una piccola stanza rurale che faceva parte del corpo più grande dove ogni stanza apparteneva ad un proprietario diverso. Si dormiva sull’aia perché tutti in casa non ci entravamo, su duri materassi di crine posati per terra. Non c’era acqua corrente, anzi non c’era acqua del tutto e per bere si andava a riempire le “quartare” ad un pozzo distante qualche chilometro. Ci si alzava al levar del sole e dopo una veloce colazione con pane, acciughe e vino, i mietitori armati di falce e “itàla” ( ditali di canna per proteggere le mani) iniziavano a “metiri” seguendo i “filara” di spighe. Dietro venivano quelli addetti a legare le spighe in covoni che venivano lasciati ad asciugare sui campi. Dietro ancora i ragazzi in cerca di nidi di allodole e di spighe lasciate a terra da sgranocchiare. L’aria tremolava per il gran caldo, il cielo era terso e di un turchese incredibile, le cicale non cessavano un solo istante di frinire. Alle 10 si staccava per il pranzo rigorosamente a base di “maccu” preparato nel frattempo dalle donne ( una volta una biscia cadde nel pentolone e gli uomini trovarono che “l’ancidda” dava più gusto alle fave!). Poi i covoni venivano portati sull’aia ed iniziava “a pisatura”. Due muli bendati venivano fatti girare sulle spighe in modo da frantumarle e separare i chicchi dalla paglia. Colui che teneva le redini incitava “ l’armali” a continuare a girare in nome dei santi che più aveva cari e di tanto in tanto infilava tra queste litanie una bestemmia. Gli altri uomini con i forconi sollevavano la paglia. Alla fine il grano veniva raccolto nei sacchi, la paglia caricata sui carretti e il tutto portato in paese. La paglia serviva per le lettiere degli animali e non solo; il grano invece veniva “sbagnatu, appoi sbintuliatu cui crivi” fino ad eliminare tutta la pula e infine stipato nei “cannizzi” per il fabbisogno della famiglia. Quando scendeva la sera sull’aia (non c’era luce elettrica e neanche la tv) si accendevano dei fuochi con rami di eucalipto che servivano, oltre che ad illuminare e a riscaldare contro “u risinu” della notte, anche a tenere lontani i nugoli di zanzare assetate di sangue. Attorno a quei fuochi si cenava, si beveva e poi si cantava e si danzava. Alla fine della mietitura, dei biondi campi ondeggianti, screziati di papaveri, non restavano che file di ispide stoppie da bruciare per bonificare la terra e allora: “Misericordia, dissuru l’ariddi quannu deseru focu a li ristucci” !
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