Un rito antichissimo portatore e propriziatore di benessere
La
festa aleggiava nell'aria al primo freddo di novembre, quando in famiglia ci
si interrogava su quando "fare il maiale"
Si cercava la data più comoda per tutta la "truppa" familiare, che il più
delle volte includeva diverse famiglie legate da vincoli di profonda e
indissolubile amicizia. In genere era un sabato o una domenica e il posto
era o la "casa di campagna" o la masseria del contadino che con solerzia
aveva dato seguito alle "raccomandazioni" di allevare il maiale come si
allevava una volta. Niente mangimi o prodotti industriali; solo fave, ceci,
crusca impastata e siero di ricotta, per avere la carne più dolce. E tenerlo
libero di gironzolare per la masseria per ottenere carni più sode.
Il
giorno prima dell'evento era tutto un fervore di preparativi: i limoni, i
contenitori, il sale, l'olio, il vino, i piatti, le tovaglie. Tutto pronto,
controllato e ricontrollato, in grosse ceste. La mattina presto ci si recava
all'appuntamento. Abbracci sinceri, il pregustare una giornata in
spensierata allegria, i piccoli che organizzavano i loro giochi, provocavano
una indescrivibile confusione nella quale ognuno, comunque, sapeva cosa
fare. Il fuoco scoppiettante, sotto un enorme contenitore d'acqua, segnava
l'inizio della festa. E mentre l'acqua si scaldava, con corde e con
determinazione si andava a prelevare il festeggiato.
Che, in totale disaccordo cominciava a grugnire e a dimenarsi a più non
posso, ma con fermezza lo si sdraiava sul tavolone appositamente preparato
dove braccia nerborute lo inchiodavano.
Un po'
d'acqua calda sulla gola e un rito antichissimo portatore e propiziatore di
benessere, ancora una volta veniva compiuto.
Spossati dalla fatica e mentre le "donne" preparavano il "sangeli", iniziava
la "spelatura" del maiale. Terminata la " spelatura " lo si appendeva a dei
forti ganci per essere ripulito dal "campanaro" (interiora), mentre furtivi
coltelli tagliavano pezzetti di carne che, condita con sale, veniva
arrostita sul fuoco e fatta fuori innaffiata con del buon vino. A pranzo "i
cosi r'intra'' venivano arrostiti sul fuoco o fritti in padella. Un pranzo
lunghissimo, allegro e spensierato, condito con bicchieri di vino e con
interminabili e accese discussioni sugli studi dei figli, sul lavoro, sui
problemi grandi e piccoli delle famiglie. A fine giornata le famiglie
partecipanti si dividevano il festeggiato. Stanchi ma contenti ci si
salutava. L'appuntamento era per il prossimo anno. E a casa continuava
l'onda lunga della festa. Dopo due, tre giorni, necessari per la frollatura
della carne, iniziava la "sfasciata del maiale", sezionandolo in ogni sua
parte: cotenna, lardo e un po' di carne per la pancetta; piedi, orecchie per
la gelatina "a gliatina"; carne per la salsiccia e il salame; costate,
frittole e "asaimi" per il dolci. Niente veniva scartato. Ed ogni giorno
erano piatti e sapori diversi: la preparazione della gelatina con la "spurpata
ri ossa" finale; o quando si doveva provare la salsiccia e il salame: con la
carne già condita si preparavano polpette che venivano
fritte
con olive nere; o la carne al sugo. Sapori indimenticabili.
"fari u maiali", una festa per la famiglia, ma una grande faticaccia per i
grandi: disossare, macinare la carne, insaccare. Fatiche abbondantemente
ripagate, però, dalle delizie che avrebbero arricchito le tavole familiari
fino al primo caldo dell'estate.
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