Un immersione nel barocco di Modica alla
scoperta di angoli di straordinaria suggestione, delle antiche costumanze
della Contea, di arte, cultura e di una imperdibile tradizione
gastronomica, attraverso un dedalo infinito di stradine
e lunghe teorie di scale, nel settecentesimo
anniversario della fondazione della Contea
Sulle tracce dei Conti nell'epicentro del tardo
barocco di Giovanni
Carbone
E
divenne "regnum in regno" di
Giuseppe Privitera
Presi
per la gola
I
muri a secco nel paesaggio ibleo di Vera
Zaccaria
Cava
d'Ispica
I
Caricatori della Contea
Brancati
e Modica
L'antico
Carnevale di Modica
Quasimodo
e Modica
Modica
'96, la Contea e la memoria di
Giorgio Sparacino
Sulle tracce dei Conti nell'epicentro del tardo
barocco di Giovanni
Carbone

"Un teatro era il paese, un
proscenio di pietre rosa, una festa di mirabillie. E cime adorava di
gelsomino sul far della sera…quante campane c’erano a Modica allora, per
nozze e battesimi, con pietre, angelus, ma soprattutto per
funerali…”
Dal romanzo Argo il cieco
di Gesualdo Bufalino
Sembra
una vecchia nobildonna con il suo fascino inalterato Modica, che vezzosa
si nasconde per poi far capolino dalla profonda valle in cui giace,
accogliendo i visitatori secondo un rituale antico, indossando l'abito da
sera più elegante che possiede e facendo ampio sfoggio dei suoi gioielli
più pregiati: le sue cento chiese, il suo barocco, i suoi eleganti palazzi
che, improvvisamente, ci si parano dinnanzi in tutto il loro splendore
mentre percorriamo la fitta rete di piccole stradine e la lunga teoria di
scale che si intrecciano nel suo centro storico, o lungo la via
principale. Modica si trova adagiata in una vallata verso cui digrada a
partire da un alto sperone nel cuore degli Iblei, a pochi chilometri dalla
splendida costa del Canale di Sicilia. L'immagine della città ci coglie
quasi di sorpresa con la sua elegante trama urbana mentre percorriamo, per
raggiungerla, l'alto ponte che la domina, il più alto d'Europa, come si
vantano da queste parti. L'assetto urbanistico della città è stato
profondamente trasformato dal terribile terremoto del 1693 a seguito del
quale si ebbe la ricostruzione che diede libero sfogo ai fasti del
barocco. La sua grandiosità e i suoi aspetti salienti caratterizzati dalle
inutili giravolte, dagli arditi ghirigori sono indicativi del tentativo di
esorcizzare l'evento luttuoso. Tutte le città più famose del Val di Noto,
Noto in testa, hanno subito la stessa sorte travolte dal sisma a cui è
seguita la catarsi della ricostruzione, ma, in alcuni casi, non sembrano
oggi in grado di resistere all'incuria ed alla dabbenaggine delle
istituzioni che non hanno saputo preservare lo straordinario patrimonio
architettonico e culturale, frutto di una reazione d'orgoglio dei
siciliani dell'epoca, facendo di recente la loro ultima vittima con il
crollo della Chiesa di San Nicola a Noto. Dal fondo della valle le due vie
principali, il Corso Umberto 1 e viale Medaglie d'Oro, separati da Piazza
C. Rizzone, sono il punto di partenza per la nostra visita nell'ex
capitale della Contea, un tempo regno nel regno con una propria
amministrazione ed una propria autonomia praticamente assoluta. Partendo
da Corso Umberto 1 una gradinata conduce al fastoso Duomo di San
Giorgio. Si sa, queste vecchie signore sono talvolta un po' bizzose,
quindi, prima di mostrarci le meraviglie della propria casa, ci
costringono a sudare non poco. E la Chiesa di San Giorgio è sicuramente
una delle cose più pregiate
dell'arredo urbano di Modica e, per quanto sopra, è abbastanza faticoso
risalire i 250 gradini che separano la città bassa dal sagrato della
chiesa. Un consiglio può essere quello di prendersela comoda e
soffermarsi indugiando ad ammirare gli angoli più caratteristici e lo
splendido panorama della città dai belvederi durante la nostra
risalita. Giunti in cima, prima di affrontare l'ultima rampa di
scale, godiamoci la sontuosa facciata della chiesa, una delle massime
espressioni dell' ultimo barocco del Val di Noto e, prima di visitarne
l'interno, ammiriamo sulla sua sinistra anche l'elegante prospetto di
Palazzo Polara. La chiesa di San Giorgio è stata edificata per la
prima volta nel XII secolo, distrutta dal terremoto del 1613, fu
ricostruita per volontà del conte Alfonso Enriquez Cabrera nel 1643 e
danneggiata nuovamente dal sisma del 1693. La facciata, a torre a tre
ordini viene attribuita per analogia con altre opere dell'artista, a
Rosario Gagliardi. L'interno di San Giorgio ornato di stucchi, mostra
subito la sua unicità con la struttura a cinque navate (che già si

intuiva osservando la facciata) con transetto e cupola. Nel
1895, sul pavimento, è stata tracciata una meridiana. Tra le opere d'arte,
donate dai conti di Modica, da menzionare, nel presbiterio alle spalle
dell'altare, il polittico attribuito a Bernardino Niger databile
intorno al 1573 e costituito da tre registri sovrapposti che raffigurano
in 10 tavole racchiuse in cornici finemente decorate
scene della vita di San Giorgio, di Gesù e di San Martino. Di scuola
gaginiana sono Giuliano Mancino e Girolamo Berrettaro, autori, nel
1511, della statua della Madonna della Neve ospitata nella cappella a
sinistra della maggiore. Nella navata a destra in corrispondenza del
secondo altare una tela raffigurante l'Assunta, opera del pittore
Filippo Paladino e datata 1610. Da non perdere, nell'ultimo altare,
l'elegante lavorazione dell'urna d'argento contenente le reliquie di San
Giorgio opera
... dal balcone aperto si udiva spargersi a
fiotti giù verso il Carmine, e San Giorgio, e i dodici santi apostoli
della scalea di San Pietro..." G. Bufalino (foto in alto la chiesa
di S. Pietro n.d.r.); A seguire Portale De Leva, uno dei pochi esempi
ancora presenti a Modica dell'architettura chiaramontana. infine
un'immagine del centro storico con le classiche
gradinate..
di scuola veneziana del XIV secolo ma successivamente sottoposta a
rimaneggiamenti sino agli inizi del secolo scorso. All'uscita di San
Giorgio ritroviamo alla nostra destra il Palazzo Polara, edificio
settecentesco sede della pinacoteca comunale. L'interno, visitabile,mostra
ancora , il mobilio utilizzato dalla famiglia Polara inserito in un
contesto pregevole frutto di un recente restauro in cui si evidenzia
l'eleganza dei pavimenti e dei soffitti affrescati. L'edificio è stato
donato dai vecchi proprietari al Comune di Modica. Alle spalle di San
Giorgio ancora un edificio settecentesco di pregiato barocco, Palazzo
Tomasi Rosso, sulla cui facciata spiccano i balconi sostenuti da
mensole con motivi antropomorfici. Più in alto si giunge alla
rupe del Castello su cui domina la maestosa Torre
dell'Orologio. Le recenti abbondanti piogge di questo strano inverno
hanno determinato alla base della rupe alcuni crolli che hanno riportato
miracolosamente alla luce i vecchi locali dell'antico edificio e una scala
cinquecentesca. Strano segno del destino nell'anno del settecentesimo
anniversario della fondazione della Contea di Modica (1296-1996).
Ritornati su Corso Umberto 1, ripercorrendo a ritroso la strada e la
scalinata che ci avevano portato in cima alla rupe che domina il paese,
faticando di meno ovviamente, perché come si dice in Sicilia "a scinniri
tutti i Santi aiutunu", dirigiamoci verso la chiesa di San Pietro,
ammirando la teoria di palazzi sette-ottocenteschi che si affacciano sulla
strada. Purtroppo, dell'edificio
religioso,
chiuso per restauri, potremo ammirare solo la
magica
scalinata ornata dalle statue dei dodici apostoli, che
conduce
al sagrato, e la facciata barocca. La chiesa ha subito la
stessa
sorte di San Giorgio essendo stata edificata già nel XIV
secolo
per essere poi gravemente danneggiata dal terremoto
del
1613 e successivamente da quello del 1693 e
ricostruita
nel '700. Possiamo crucciarci di perdere l'interno a tre
navate
della chiesa sulle sue 14 colonne con eleganti capitelli corinzi e,
tra l'altro, il monumentale organo a 3.200 canne e la statua marmorea
rappresentante la Madonna dell'Ausilio di scuola gaginesca. Ma meglio
rinunciare oggi per un restauro che per sempre in seguito ad un
crollo. Proseguiamo la nostra visita risalendo per Corso Umberto 1 sino a
raggiungere il Palazzo di Città ex

Il
chiostro dell'ex convento di San Domenico, oggi Palazzo di Città, con i
gonfaloni dei comuni della Contea in bella mostra in occasione dei
festeggiamenti per il settecentenario della fondazione della
Contea
convento di S.Domenico, all'interno del quale val la pena di
visitare l'elegante chiostro che presenta in una delle sue colonne la
targa che segnala il livello a cui giunse l'acqua durante la terribile
alluvione che riguardò Modica nel 1902. In seguito a questo ennesimo
catastrofico evento naturale, che modificò ulteriormente l'aspetto della
città, eliminando i ponti che univano le opposte rive dei due torrenti che
giacciono a fondo valle, fu resa necessaria la razionalizzazione del
regime delle acque sino alla completa copertura dei letti dei torrenti.
Usciti dal Palazzo di Città, vale la pena dare un veloce sguardo alla
contigua chiesa di S. Domenico, in stile barocco siciliano, una della
poche rimaste in piedi dopo il terremoto del 1693; al suo interno, nel
terzo altare di destra, è conservata una grande tavola della Madonna del
Rosario (1535-40) di Vincenzo da Pavia, discepolo del Perugino.
Percorriamo quindi via Marchesa Tedeschi giungendo a piazza S. Maria in
cui si erge la Chiesa di S. Maria di Betlem, ricostruita anch'essa
nel '700 dopo il terremoto. All'interno, con soffitto ligneo a tre navate
su colonne, una cappella nella navata di sinistra conserva un interessante
presepe inaugurato nel secolo scorso con sessanta personaggi in terracotta
vestiti con i costumi tipici del contado di Modica; a destra, invece,
attraverso un portale ogivale si accede alla Cappella del Sacramento
(Cappella Cabrera) il cui stile architettonico tardo-gotico-rinascimentale
ne denuncia l'origine del XV secolo. Continuando a percorrere Corso
Umberto 1 in direzione di Piazza C. Rizzone, sulla destra, troviamo via
De Leva dove è possibile ammirare lo splendido portale omonimo
in stile arabo-normanno risalente al XIII secolo e finemente cesellato di
pietre. Più avanti, sempre lungo il corso principale, a sinistra è Piazza
Matteotti presso cui sorge la Chiesa del Carmine con l'elegante
portale chiaramontano sormontato da un bel rosone che testimoniano la sua
origine antecedente al terremoto del 1693. L'interno custodisce, disposto
nel secondo altare a sinistra, un pregevole gruppo marmoreo del XVI secolo
attribuito alla bottega di Antonello Gagini, rappresentante
l'Annunciazione e una tela del '600 raffigurante l'Incontro della Madonna
con Gesù risorto di Daniele
 
Monteleoni, collocata nel terzo altare a sinistra. Superata
Piazza G. Rizzone e imboccato Viale Medaglie d'Oro, sulla sinistra, una
traversina conduce al Palazzo dei Mercedari, un convento
settecentesco che al suo primo piano ospita il Museo delle arti e
tradizioni popolari intitolato a Serafino Amabile Guastella. Il museo
etnografico è stato istituito nel 1978 da alcuni intellettuali modicani
che hanno voluto lasciare un segno indelebile delle tradizioni popolari
della zona. Il locale è suddiviso in 15 ambienti adattati a costituire una
masseria, centro di tutte le attività che si svolgevano nel mondo rurale
di un tempo; della masseria fanno parte un bàgghiu (cortile), una stalla e
diversi ambienti utilizzati per le attività artigianali, come la
lavorazione del pane e dei prodotti caseari, la bottega del fabbro, del
sellaio, del carradore, del mielaio, del falegname ecc., ed infine un
ultimo vano è adibito a camera da letto. Tanti altri sono gli angoli di
Modica che meriterebbero altrettanta attenzione ma, come è facile
comprendere, non è possibile dare una panoramica completa delle meraviglie
che questa città è capace di offrirci.
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E divenne “regnum in regno”
di Giuseppe Privitera
Tanto potente da meritarsi l'appellativo
di regno nel regno, la Contea di Modica godeva di un'autonomia
amministrativa pressoché totale dal Regno di Sicilia

Una
conca formata da quattro colline con corsi d'acqua che l'attraversano,
aveva certamente tutte le caratteristiche per costituire fin dai secoli
più lontani un luogo ideale per essere "frequentato" e poi stabilmente
abitato. Anche se le fonti ed i ritrovamenti archeologici dei siti antichi
non dimostrano nulla di 11scientificamente" certo, tuttavia è probabile
che durante il periodo castellucciano " (200-1400 a. c.),
esistessero insediamenti nel territorio. Le successive ondate migratorie,
dei Sicani prima e dei Siculi poi, l'influenza fenicia, sicuramente hanno
determinato in
questo sito un più o meno consistente nucleo
abitativo che alcuni autori locali (Solarino, Modica Scala) definiscono
"fiorente città". Durante il periodo della colonizzazione
greca si hanno testimonianze dirette del coinvolgimento degli insediamenti
della contea nella lotta di predominio tra le città greco-sicule (VIII-VI
sec. a. c.). Con l'occupazione romana di Siracusa e la successiva
eliminazione dall'Isola della presenza cartaginese, i maggiori centri
della contea come Modica e Ibla, essendosi arrese spontaneamente, furono
classificate come città decumane. Le forti imposizioni di imposte e
tributi e le illecite vessazioni degli esattori del periodo verrino
(73 a. c.) ridussero drasticamente il numero degli "aratori" (in tre
anni pare siano passati da 187 a 86), determinando un notevole calo
della produzione di frumento con relativa decadenza dei centri urbani e
instabilità sociale. Nell'età di Lepido, anche se si assistette ad una
certa stabilizzazione sociale, il sistema di produzione fondato sul
latifondo ad economia schiavista, non assicurò certo migliori condizioni
di vita. Dall'età del tardo Impero la contea entra in un
precoce e progressivo
Medio Evo senza tempo, scandito da una
diffusione sempre più ampia del Cristianesimo testimoniata da numerosi
"ipogei" e catacombe che hanno il loro fulcro nella Cava d'Ispica ed
ancora in necropoli (Michelica e Renninello) o borgate scomparse
(Miglidulo, Cavetta, ecc.). La presenza bizantina, successiva alla
conquista, è testimoniata, oltre che dalla pur rara presenza archeologica,
anche dall'influenza che la loro cultura greco-ortodossa ha lasciato nei
costumi, nei siti religiosi, nella toponomastica. Il sito fu certamente
fortificato e denominato "Rocche di Mudicaq" che la "Cronaca di Cambridge"
riferisce essere caduto in mano musulmana nell'844-45. Il periodo saraceno
fu caratterizzato da un impulso nella produzione agricola determinato
dall'accrescimento delle culture intensive attraverso nuove tecniche di
irrigazione ("saie" e "gabbie") e di coltivazione, l'introduzione di nuove
colture arboree (agrumi, ulivo e in particolare il carrubbo) tutt'ora
parti integranti del paesaggio ibleo. La presenza di toponimi di
origine
araba caratterizza la Contea così come gran parte dell'Isola. Con la
conquista normanna della fine dell'XI sec., il territorio viene modificato
in base ai nuovi assetti di tipo feudale e prelude all'istituzione della
Contea. Dopo la rivolta del Vespro (1282) Modica è feudo dei Mosca, ma la
svolta storica avviene con l'incoronazione a re di Sicilia di Federico
d'Aragona che riunisce in un unico stato feudale, di straordinaria
importanza storica, le contee di Modica e Ragusa, affidandole, come
testimonia un "diplorna" redatto in Palermo il 25 marzo del 1296, a
Manfredi di Chiaramonte. Da questa data si fa partire l'inizio ufficiale
dell'istituzione della Contea di cui quest'anno ricorre il
settecentenario. 1 fasti e il potere della Contea sotto il dominio di
questa importante famiglia sono testimoniati in modo inequivocabile dalle
innumerevoli testimonianze architettoniche (chiese, castelli, palazzi) in
stile, per l'appunto, chiaramontano. Una svolta storica nelle vicende
siciliane e per la Contea rappresenta, nel 1377, la morte di Federico 111
il Semplice, allorché vengono nominati reggitori del regno per conto della
quindicenne Maria, rimasta orfana, Manfredi 111 Chiaramonte, Artale
Alagona, Francesco Ventimiglia e Guglielmo Peralta. Nel 1390 Maria va in
sposa a Martino, figlio del Duca di Montblanc. che non nasconde la propria
intenzione dì impossessarsi del trono di Sicilia. Spaventati da questi
propositi, non volendo cedere la Contea agli aragonesi, i Chiaramonte
convocano i vicari del regno progettando una difesa ad oltranza del
proprio territorio e segnando nel contempo, loro malgrado, la fine del
loro potere. Infatti non appena Manfredi III di Chiaramonte d'Alagona e il
Ventimiglia muoiono, Martino e la moglie Maria sbarcano a Trapani con una
potente armata agli ordini del Capitano Generale Bernardo Cabrera.
Rapidamente tutti i baroni dell'Isola devono sottomettersi ai sovrani, con
la sola eccezione di Andrea Chiaramonte figlio di Manfredi che,
rifuggiandosi a Palermo, pone invece una strenua resistenza. Ingannato da
una promessa di perdono ed immunità, l'ultimo dei Chiaramonte viene invece
giustiziato nel giugno del 1392. Ad egli
succede, nel controllo della contea, Bernardo Cabrera premiato dai sovrani
per le sue gesta anche con la nomina a Grande Ammiraglio del Regno. Nel
1410, rimasta a reggere il trono di Sicilia Bianca di Navarra, si
scatenano le lotte per il trono rimasto vacante. Il conte di Modica,
Bernardo Cabrera, vi aspira anch'egli puntando al matrimonio con Bianca di
Navarra, il cui vicariato ha però termine con l'ascesa al trono di
Ferdinando 1 di Castiglia.Dopo la morte di Bernardo Cabrera la Contea vive
alterne vicende ma il suo possedimento è sempre molto ambito e toccherà,
nel 1481, a Federico Henriquez, parente del re di Spagna, che sposerà
l'ultima dei Cabrera, Anna. Subito dopo le nozze gli sposi fecero
edificare la chiesa di Santa Maria del Gesù con l'annesso convento dei
Frati Minori Osservanti. Gli Henriquez-Cabrera riconducono la Contea ad
uno splendore e ad una potenza tale da meritare l'appellativo di "regnum
in regno" con facoltà da parte dei conti di emanare leggi proprie. In
particolare il conte Giovanni Alfonzo Henriquez-Cabrera, la cui famiglia
aspira al trono di Sicilia, viene nominato icerè. Con Ludovico Il, gli
Henriquez-Cabrera divengono protagonisti di una profonda trasformazione
socioeconomica della contea, determinando il passaggio dai vecchi modelli
dello stato feudale ad una struttura economico-produttiva più moderna.
Alla base di queste trasformazioni è la riforma amministrativa che prevede
la concessione di numerose terre in enfiteusi e cioè in locazione secondo
precise norme gestite da uno specifico istituto giuridico secondo cui il
feudatario o il possessore di immobili potevano cedere il proprio bene
come "domino diretto" ad un concessionario o come "domino utile" in cambio
di un censo annuale che poteva protrarsi per un periodo di tempo
indeterminato. Le metamorfosi sociali sono immediatamente percepibili con
il decentramento dei flussi economici e con la nascita, nella campagna
modicana, di numerosi ed importanti insediamenti rurali. Questa riforma va
ad aggiungersi alla preesistente concessione di una importante franchigia
ottenuta dai conti per l'esportazione di merci, contribuendo al
potenziamento delle strutture economiche della contea. In questa fase, e
per tutto il periodo della Controriforma, all'espansione delle attività
economiche si aggiunge una notevole attività culturale determinata anche
dalla presenza in Modica di numerosi ordini monastici; tra questi i Padri
Riformati, i Domenicani e i Gesuiti cui si deve l'edificazione di numerosi
luoghi di culto e conventi. Fu questo un periodo fervido per lo sviluppo
nella Contea delle arti, delle scienze, delle lettere e della filosofia
che ebbero la loro massima espressione nel genio di Tommaso Campailla,
assertore convinto delle teorie cartesiane ed autore dei poema "L'Adamo,
ovvero il mondo creato". Il Campailla fu testimone oculare. a soli 25
anni, del terribile terremoto che sconvolse il Val di Noto l’11 gennaio
1693 e che, come riferisce Rocco Pirri, lasciò la città di Modica
"medietas devastata" con 2.400 morti. La capacità delle classi nobiliari
di investire in ricostruzioni, che rispetto ai tempi furono rapidissime,
testimonia la loro stabile condizione patrimoniale e il ruolo crescente
della ricca borghesia agraria nonché la presenza di maestranze artistiche
ed artigianali di alto livello che raggiunsero la massima espressione
delle loro potenzialità nella riedificazione della chiesa di San Giorgio,
l'esempio più compiuto del tardo barocco del Val di Noto. Come scrive
Giuseppe Barone (prefazione al testo di G. Raniolo La Contea di Modica nel
regno di Sicilia, 1993) "La ricostruzione si snoda con fasi alterne lungo
il XVIII sec. ed esprime il livello più alto della progettualità politica
dei gruppi dirigenti locali: dall'edilizia monumentale ecclesiastica a
quella di committenza laica, dalla cortina delle fabbriche dI ceto civile
alle più modeste case di artigiani e popolani, il tessuto urbanistico
delle cittadelle iblee qualifica il secondo momento 'alto' della Contea,
perché esprime compiutamente l'ascesa ed il gusto delle colte borghesie
locali, la loro scelta lungimirante di 'pietrificare' rendite e profitti
con un uso scenograficamente sapiente dei volumi e degli spazi. Non si
trattò affatto di un miracolo ma di una consapevole direzione dei processi
di trasformazione da parte dei patriziati urbani e degli intellettuali".
La storia dei conti di Modica procede di pari passo con le vicende
politiche dell'epoca.
Dopo che il conte Giovanni Tommaso, accusato di lesa maestà perdette il
possesso della Contea, essa fu incamerata dal demanio spagnolo.
Successivamente, nonostante la pace di Utrecht del 1713 avesse assegnato
la Sicilia al Duca di Savoia Amedeo 11, la Contea di Modica rimase
possesso feudale di Filippo V che impose, anche con la minaccia delle
anni, tale condizione al nuovo re dell'isola. Dopo la sconfitta di
quest'ultimo la Contea, il cui controllo era passato a Carlo VI successore
di Amedeo, fu aggregata al dominio austriaco. Solo intorno al 1729 la
Contea fu riconcessa a Pasquale Henriquez-Cabrera durante la cui signoria,
a causa della guerra di successione al trono polacco e all'avvento al
potere di Carlo 111 di Borbone, la Sicilia e quindi la Contea tornò sotto
il dominio spagnolo cui la popolazione, nel bene o nel male, era già
avvezza. La decadenza di questa signoria ormai lontana prosegue
ininterrottamente sino al 1812 , data che segna l'abolizione della
feudalità. Agli ultimi Conti non rimasero che i titoli ed alcuni beni
personali come al Conte Carlo Michele Fitzjames
Stuart y Stolberg Silva Alvarez... che contava di gran lunga più nomi che
beni, essendo stato, per debiti, espropriato delle residue proprietà.
L'ultimo della serie, con cui si estinse la casata fu Giacomo 11. Con il
Risorgimento Modica fu tra le prime città siciliane ad issare, nel 1860,
il tricolor divenendo successivamente capoluogo di provincia, sostituita
più tardi dalla vicina Ragusa. Nonostante siano numerosi i contributi
storiografici dedicati alla Contea essa costituisce ancora oggi un ricco
serbatoio per studi a venire di cui tappa fondamentale è l'istituzione di
un Comitato scientifico insediato in occasione delle celebrazioni per il
suo settecentenario. Una prima occasione di incontro e di verifica è già
stata avviata nel marzo del '96 con l'apertura del Convegno "La terra e il
potere: la Contea di Modica nel medioevo". Un'occasione per fare il punto
sullo stato delle ricerche storiche fin qui effettuate (nuove
testimonianze ci verranno dalla consultazione dei materiali depositati
presso gli archivi spagnoli studiati dal professor Vittorio Sciuti Russi)
per l'individuazione di quei caratteri originali di un'area regionale o
sub-regionale che costituiscono le costanti della sua storia osservata in
prospettiva plurisecolare
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Presi per la gola
Un semplice itinerario per Modica
difficilmente potrà essere percorso in un sol giorno, tanto più se vi
lascerete guidare dagli odori che si sprigionano dalle molte pasticcerie
che incontrerete lungo la strada, tutte capaci di proporvi imperdibili
golosità frutto della secolare arte gastronomica modicana,
tramandata fedelmente sino ai giorni nostri. Beh, già che ci siete, non
perdetevi gli affucaparrini, biscotti duri preparati con
farina, uova, strutto e zucchero; i nucatoli, teneri
biscotti di origine araba, ripieni di fichi secchi, cannella, noci,
mandorle e miele; i gel alla cannella, alle mandorle, all'anguría, al
limone; il torrone, gli amaretti e gli squisiti mpanatigghi
con ripieno di mandorle, filetto di vitello e spezie; i
pastieri, un pasticcio di carne tritata di capretto e
agnello con uova, formaggio e pepe: le 'mpanate
ragusane e le scacce,costituite da sottili
sfoglie di pasta di farina condite con broccoli, spinaci, pomodoro o,
ancora, con prezzemolo. A sera, se vi fermate in una delle trattorie del
posto, non dimenticate di assaggiare i ravioli
fatti in casa ripieni di ricotta, la salsiccia la gelatina, o finireste
per commettere un delitto imperdonabile. L'arte casearia è nella zona
straordinariamente sviluppata, favorita anche dagli abbondanti pascoli del
territorio ibleo e dai metodi di allevamento che difficilmente raggiungono
dimensione industriale tutto vantaggio della qualità dei prodotti. Per
accompagnare queste pietanze si consiglia di assaggiare il vino
caratteristico della zona, considerato superiore alla media e ottenuto dal
vitigno "Nero di Avola" di cui sono disponibili due specie, uno più scuro
e dalla gradazione piuttosto alta e uno più chiaro e leggero.
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I muri a secco nel paesaggio ibleo Di Vera Zaccaria
I muri a
secco, che caratterizzano il paesaggio ibleo, sono dettagli apparentemente
insignificanti dell'architettura rurale. Sopravvissuti a diverse epoche,
restano a cimelio di un tempo trascorso e raccontano di un padrone che ha
lasciato la "proprietà a due figli,o a tre. Poi sono venuti i nipoti e
ancora altri a succedersi nella gestione di un latifondo inizialmente
vasto ma di volta in volta frazionato quasi seguendo una naturale
suddivisione catastale. Insieme le generazioni hanno svolto un lavoro
collettivo scrivendo quello sconfinato libro che è il paesaggio agricolo
delle valli e delle colline iblee.1 muri a secco sono sorti come
delimitazione, se occorreva come recinzione, come sostegno di terrapieni e
forse anche per riparare il fertile podere da coltivare, dal troppo vento
che avrebbe potuto portare via la terra tanto preziosa. Il materiale per
eseguire tali operazioni veniva prelevato dal campo stesso,"spitrato", per
poter essere arato. Per un'antica abitudine a dare un'utilità a tutte le
cose, i blocchi o i grossi pezzi di calcare duro, diveltí dai loro
alloggiamenti, venivano ammonticchiati e sul posto grossolanamente
squadrati. Se ne occupava " u mastro ri mura" con colpi di 'rnartello a
testa" che producevano fratture piane, adattandoli con la "mazzetta" e con
lo scalpello; li metteva in opera disponendoli con la faccia maggiore
orizzontale e con la maggiore dimensione (la lunghezza) parallela al
perimetro del muro. li suo spessore era proporzionale all'altezza, portava
come carico il solo peso proprio e per resistere allo schiacciamento la
sua azione trasversale era, quasi sempre, trapezoidale. Più largo alla
base, più ridotto lo spessore in testa, era formato quindi da due corsi di
conci che ne costituivano i perimetri esterni mentre la parte interna era
costituita da pietrame minuto o in pezzi irregolari a scaglie. La testa
del muro cioè la parte superiore era curata disponendo a chi usura conci
pressoché uguali come grandezza, con una faccia piena, quella a contatto
con lo strato sottostante ed una faccia arrotondata, quella esterna. La
stessa cura, nella scelta delle pietre tutte uguali, veniva adottata
quando il muro era interrotto per consentire l'ingresso. A volte,
riducendo lo spessore dell'opera muraria, si lasciavano fuoriuscire
blocchi squadrati, disposti in diagonale, per piccole pedate di una
scaletta al naturale che consentiva il valico del muro particolarmente
alto. Queste strutture speciali, cui le condizioni ambientali da secoli ne
hanno consigliato l'applicazione, si adottano tutt'ora, sia perché
perdurano le stesse condizioni,sia per tradizione.
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Cava d’Ispica
di Giovanni Carbone
Lasciando
Modica, in direzione di Pozzallo, segnali turistici ci indicano la
presenza della Cava d'Ispica, uno dei maggiorì complessi rupestri della
Sicilia. Si tratta di un canyon lungo 13 chilometri, scavato dal torrente
Busaitone, che reca in sé le testimonianze di una frequentazione costante
dell'uomo dai primi insediamenti Sicani sino al più recente utilizzo di
alcune delle sue grotte per il ricovero delle greggi. Nel corso dei secoli
la Cava d'Ispica ha conosciuto momenti di grande splendore, in particolare
tra i secoli IV e VII d.C., in relazione al movimento monastico che
dall'Oriente si diffuse per tutto il Mediterraneo. La visita è resa
particolarmente agevole dalla presenza di un parcheggio per le auto, di un
ufficio informazioni e di comodi sentieri che tracciano un interessante
itinerario.
Subito sulla destra, all'ingresso del sito, si può
visitare
la grande catacomba paleocristiana di
"Larderia",
databíle tra il IV e il V secolo d.C.. La catacomba conta oltre
trecento tombe disperse lungo tre corridoi. Il corridoio centrale
(o decumano centrale) conduce al "cubicolo del baldacchino", una
monumentale sepoltura sormontata da un baldacchino con pilastri regolari e
costituita da un vano quadrato sulla sinistra del corridoio. Proseguendo
la visita del sito ci si imbatte ancora in testimonianze di epoche diverse
della presenza umana. Ritornati sulla strada e percorrendola verso
Rosolini, dopo poche centinaia di metri, si imbocca una carrozzabile sulla
destra e, poco dopo, a sinistra, si possono ammirare i resti della chiesa
di San Pancrati a pianta longitudinale tricora, databile tra il V e il VI
secolo. Nelle vicinanze della chiesa si trova "u rutt'e santi",
un'interessante grotta che conserva resti di pitture bizantine purtroppo
in pessimo stato. In zona anche la grotta di San Nicola, una piccola
chiesetta rupestre di età bizantina. La descrizione delle numerose
testimonianze della presenza umana nella Cava d'Ispica non rende merito
alle suggestioni paesaggistico-naturalistiche pure staordinarie. Tornando
indietro all'ufficio informazioni, fatevi indicare un altro interessante
sito, il "Castello", un complesso di abitazioni rupestri a più piani di
età tardo-medievale, abitato sino agli anni '50.
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I Caricatori della Contea
di
Giovanni Carbone
Uno degli
elementi che fecero della Contea di Modica il "regno nel regno" è stato
sicuramente la capacità dei Conti di conquistarsi ìl privilegio di potere
spedire le proprie mercanzie senza incorrere nel pagamento di dazi al
governo centrale, utilizzando una franchigia così ampia che spesso i
prodottì dell'economia locale da soli non consentivano la sua copertura. A
tal proposito venivano spesso importate merci da altri luoghi per poterle
poi esportare, per cosi dire, esentasse dai territori della Contea. Un
ruolo strategico in queste operazioni di "elusione" fiscale ante
litteram, giocavano i caricatori, enormi magazzini costieri in
cui le derrate venivano stoccate per poi essere imbarcate sulle navi che
provvedevano al loro trasporto verso altri lidi mediterranei. Tra questi
caricatori sicuramente i più importanti erano quelli di Pozzallo e
Sampieri. Il primo si espanse sino a divenire una grossa cittadina
rívíerasca, emancipatasi dalla feudalità e quindi dalla subordinazione
alla Contea di Modica con il decreto regio del 1829 con cui diveniva
comune autonomo. La storia del caricatore di Pozzallo comincia con
Manfredi di Chíaramonte. Il "Caricatore", punto di sfogo sul mare della
Contea di Modica, appartenne, dalla fine del XIV secolo, al Conte Bernardo
Cabrera che per concessione reale aveva il diritto di esportare da esso
dodicimila salme di frumento. Dell'antico caricatore rimane, insigne
testimonianza, la Torre, fatta erigere dal Conte Bernardo Cabrera a
difesa del sito dalle incursioni dei pirati. Della Torre parla
dettagliatamente, nella sua opera Descrizione dell'Isola di Sicilia
(a cura di G. Dì Marzo, Palermo, 1877), il Camilliani, che ne riconosce
l'importanza strategica proponendo anzi l'elevazione di altre
fortificazioni a difesa della costa, probabilmente mai edificate.
L'imponenza della Torre, visibile dalla piazza principale di Pozzallo,
parla anche il Fazello che la definì "ingens et magnifica"
(Dell'istoria di Sicilia, Palermo 1558). L'edificio ha subito, nel
corso dei secoli, numerose modifiche sia di natura strategico-militare,
come i rinforzi
per sorreggere le artiglierie ed un terrapieno verso
il mare voluti da Carlo V, sìa di vera e propria ricostruzione, come
quelle volute dagli Henriquez Cabrera dopo il disastroso terremoto del
1693. Importante presidio militare, la Torre era gestita. come ci tramanda
lo Spannocchi. da un cappellano al comando di 4 uomini. Oggi l'edificio si
presenta come una costruzione austera e omogenea il cui rigore è
scarsamente interrotto da elementi costruttivi. La sua altezza attuale di
circa 20 metri è inferiore all'originale in cui erano presenti le ormai
perdute merlature. All'interno della Torre, oggi chiusa per restauri. si
accedeva per mezzo di un ponte levatoio, mentre verso il mare è ancora
possibile osservare i resti del potente bastione deputato al sostegno
delle artiglierie. Di una torre analoga il Camilliani propone
l'edificazione a difesa del caricatore di Sampieri, ma è improbabile che
la sua costruzione sia mai stata effettuata. Sampieri, frazione di Scicli,
è invece oggi un piccolo borgo di pescatori discretamente conservato nella
sua parte più antica, attorno a cui si è sviluppato un grosso centro
turistico
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Brancati e Modica
Nel suo "Diario romano", scritto tra il '47 e il '54
ma pubblicato postumo nel 1961, Vitaliano Brancati traccia, dopo un suo
ritorno a Modica nel 1948, un breve viaggio nella memoria della sua
“fanciullezza".
"Modica, la città in cui ho trascorso la fanciullezza. Ne partii
a dieci anni, un mattino di luglio, dopo una notte di luna trascorsa quasi
interamente nel giardino di un amico. Avremmo dovuto passare l'estate a
Marzamemi, e tornare in autunno. Invece non tornammo più. Mio padre fu
trasferito dall'una all'altra città siciliana, e sebbene i nostri nuovi
soggiorni fossero vicini a Modica, non accadde mai più che vi tornassimo,
nemmeno per un'ora. Vi ritorno nel 1948, dopo trenta anni. 1 giorni della
fanciullezza mi assaltano da tutte le parti. Poiché, tornando in un luogo,
noi siamo portati a riprendere la nostra vita nel punto preciso in cui
l'abbiamo lasciata, e a seguitarla senz'alcuna interruzione, questo mio
giorno di quarantenne s'attacca immediatamente a quella mia notte di
ragazzo decenne, con una dolcezza mostruosa mentre tutto il tempo,
intercorso in altri luoghi, fra la notte deVI 8 e il suo domani dei '48,
compresso, strappato, amputato, salta via come un tronco marcio. Profondo
doloroso diletto di perdere trenta anni di vita smisuratamente meno felici
di quei dieci che soli mi vedo dietro le spalle camminando per queste
strade, in questa città che non conta per me un'ora, un minuto, che non
sia brillante di sensazioni vivacissime, e che solo oggi vado sporcando di
sguardi fiacchi, passi gravi, pensieri malinconici e stanchi. Modica
riempie una stretta valle e i quattro monti che le fanno cerchio. Mentre
passeggio per la via principale, vedo nitidamente quanto accade in un
vicoletto che, a piedi, raggiungerci dopo mezz'ora di faticoso cammino, e
con lo sguardo raggiungo subito nelle sue più interne minuzie, perché sta
librato davanti a me a poca distanza nell'aria. Nei giorni dell'epidemia
spagnola, con la fronte poggiata ai vetri del balcone, vedevo chiaramente
i lutti di cui era disseminata la città, le finestre che si chiudevano, i
portoncini da cui usciva una bara. In una stradetta di Modica alta,
riparata da un muricciolo che giungeva al ginocchio del passante, vidi una
mattina un carro funebre andare lentissimamente stipato di bare. D'un
tratto si spaccò. Seppi la sera che le bare erano state restituite alle
famiglie; ma nell'angoscia e confusione di quei tempi, non s'era stati
molto attenti nella triste operazione, sicché quando le famiglie vollero
rivedere la cara persona, che uscita per l'ultima volta, tornava ancora
una volta a rincasare con gli occhi chiusi, e schiodarono il coperchio, in
fondo alla bara videro uno sconosciuto, infinitamente pietoso nella sua
incapacità di resuscitare, con le sue fattezze di estraneo, un antico e
lungo amore in coloro che lo guardavano. Ma la morte non spaventa la
fanciullezza. La sera noi leggevamo a voce alta I Promessi Sposi:
"Scendeva da uno di quegli usci... " " Smettetela! " diceva mio padre dal
suo studio, quando la porta socchiusa lasciava passare la nostra voce. "
E' proprio questo il momento di leggere la peste di Milano? " Quando
arrivai a Modica dal mio paese natio, avevo tre anni. Ecco la chiesa di
San Giorgio che, affacciandomi nella terrazza, vidi per la prima cosa, e
che mi penetrò profondamente nell'occhio, in un punto in cui torna a
colpirmi dopo trent'anni: sporgente dalla parete del monte su cui sorge,
come un enorme altorilievo, col tortuoso strascico delle sue scalinate.
Ecco, sui muri, i capperi coi fiori rosa.... E i palazzi l'uno sull'altro,
ciascuno con una striscia di cielo imprigionata dietro la ringhiera delle
terrazze o dei balconi. Il sonno, a quel tempo, era assoluto e fitto,
senza il minimo spiraglio, ma nient'affatto simile alla morte, al
contrario succosissima, profonda, compatta sensazione di vita. Il sonno mi
rimpastava alle cose da cui la incipiente coscienza mi distaccava a poco a
poco. Una sorta di allucinazione. Nessuno è invecchiato. Ecco gli uomini
che lasciai di quarant'anni, quelli che mi facevano cavalcare sui loro
ginocchi e mi mandavano alle narici, dall'interno della camicia, un
leggero puzzo di vecchiaia. Sono sempre gli stessi, hanno sempre
quarant'anni: li riconosco ad uno ad uno; potrei chiamarli per nome....
Ahimè, non sono loro! sono i figli, che hanno piano piano indossato i nasi
dei padri, le loro pancette, il loro puzzo di vecchiaia, il loro modo di
sedere davanti al circolo. Sono ì miei compagni di scuola, i miei
coetanei".
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L’antico Carnevale di Modica
Nella Contea dì Modica il carnevale era
qualcosa di eccezionale sia per la partecipazione corale di popolo che per
la varietà di espressione. Perlomeno a sentire Serafino Amabile Guastella
(Chiaramonte Gulfi 1819/1899) che con la sua acuta verve lo descrisse ne "
L'antico Carnevale della Contea di Modica" uscito dapprima a Modica nel
1876 e qualche anno ripubblicato da Piccitto & Antoci tipografi
editori ragusani. Le maschere, i riti e le rappresentazioni che lo
caratterizzarono fino agli inizi dell'Ottocento rivivono nelle pagine del
Guastella e, tra ironia e partecipazione, il lettore viene condotto pagìna
dopo pagina attraverso le città della Contea, quando ancora la gente
sapeva divertirsi con poco e non temeva di sfidare i potenti e il potere
con l'unica arma concessagli: l'ironia e lo sberleffo. Ecco il poeta
popolare che in piazza viene issato su un podio improvvisato: i suoi
strali si appuntano dapprima sulla categoria degli artigiani (è evidente
che egli rappresentava i contadini ed è contadino lui stesso), poi è il
turno degli avvocati imbroglioni e dei notabili sempre pronti a
fregare la povera gente ed infine gli amministratori attaccati alle
poltrone, incapaci ed al servizio del potentato politico ed economico. Si
sa che il poeta è sacro, specie in questo periodo; per cui i colpiti
masticavano amaro e magari facevano progetti di vendetta per quando
"l'immunità" sarebbe scaduta. Intanto per le strade la gente ride e
scherza; alcuni gruppi mimano o rappresentano episodi e personaggi: Don
Spadaccino, a suo dire terribile coi nemici, spaccatutto e prode
spadaccino, ma nella realtà gradasso e pavido, sempre pronto a prender la
fuga in caso di pericolo; facile l'identificazione col personaggio locale,
il capo della gendarmeria o delle guardie municipali o uno "sbirro" più
temuto. 0 lo zù Rusà (zio Rosario) il contadino ignorante e volgare, o
l'Allampacucci detto anche Mastru Ruppiddu, la caricatura delle maestranze
sempre affamato e servile. E a proposito di fame, sorella di quel bisogno
a cui prìma si accennava, era in questa occasione che costei veniva
esorcizzata con abbondanza di pasti e varietà di cibi Il giovedì grasso
erano abitualì i maccheroni con sugo e carne dì maiale; la pasta approdava
alle tavole dei contadini e popolani ancora il sabato, la domenica e il
martedì di carnevale. Ed era abbondante per tutti, anche in considerazione
del fatto che bisognava attendere un altro anno per rivederla. Un piatto
unico di fave e verdura colta nei campi era il pasto quotidiano per molti
di loro, per alcuni neppure questo. Si divertivano meno i nobili, col loro
carnevale fatto di fastosi costumi, rappresentazioni mitologiche o
galanti, feste nei saloni dei loro lussuosi palazzi di Ibla, Modica,
Scieli, Spaccaforno o Chiaramonte: ma mangiavano e bevevano
abbondantemente tutti i giorni dell'anno! Come monaci, preti e monache,
sottolinea con acutezza Guastella, che per altro non sfuggivano al fascino
del carnevale, ed a parecchie sue licenze. Il popolo non sembrava farsene
un cruccio, anzi accettava fatalisticamente e con un pizzico di ironia
quello che era da sempe l'andazzo delle cose: tanto valeva scherzarci
sopra! E in questa occasione accomunava potenti, nobili, sbirri, preti,
avvocati e notai, e quanti altrì erano nati per la loro rovina, li
rivestiva dei panni dello schemo e li affidava alla piazza, la terribile
piazza! Quanto sia rimasto della vitalità del Carnevale della Contea di
Modica è difficile oggi rintracciare, anche perché le attuali riproposte o
elaborazioni di quel carnevale più che recuperarne frammenti stravolgono
lo stesso spirito. D'altronde lo stesso Guastella all'inizio del suo
saggio avvertiva che già ai suoi tempi "delle costumanze di esso talune
susstino rigogliose, altre furono strozzate dalla reazione borbonica, e
poscia dalla libertà nuova, e all'occorrenza dal carabiniere che ne
spianarono le angolature più scabre; altre vivono nella memoria dei vecchi
......" (dal vol. "L'ulivo saraceno" di G.
Cultrera)
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Quasimodo e Modica

Quasimodo è considerato il rappresentante
più tipico dell'ermetismo degli anni '30. Il poeta trascorse l'infanzia e
la prima giovinezza in Sicilia, per poi trasferirsi a Roma dove si
iscrisse alla Facoltà di ingegneria. L'esigenza di trovare un lavoro
subito, gli impedì di portare a termine gli studi e lo indusse ad
impiegarsi presso il genio civile, prima a Reggio Calabria e in seguito a
Imperia, a Cagliari, a Milano, Dopo qualche anno, nel 1938, abbandonò
l'impiego e lavorò, prima come segretario di Zavattini poi, dal 1941, come
professore in una scuola media superiore di Milano. Nel dopoguerra
affiancò all'insegnamento un'intensa attività giomalistica e di traduttore
(inaugurata nel 1940 con la celebre versione dei Lirici Greci). Nel
1959 ottenne il premio Nobel per la letteratura; morì a Napoli nel 1968.
Nella produzione poetica di Quasimodo si possono individuare due fasi. La
prima è quella propriamente ermetica, rappresentata dalla raccolta
Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932); tema
dominante è la rievocazione dell'infanzia, strettamente connessa al
paesaggio della Sicilia, che acquista agli occhi di Quasimodo una
coloritura mitica. Nato a Modica il 20 agosto del 190 1, ebbe sempre il
vezzo di affermare di essere nato a Siracusa per confermare, in questo
modo, un suo tipico mito: quello di essere un siculo-greco. E manche
possibile che il considerarsi siracusano fosse anche la testimonianza del
rapporto amore-odio tra il poeta e la sua città natale. Lui, uomo di
sinistra, non aveva mai superato le riserve culturali dei suoi
concittadini dell'epoca. Oggi le cose sono profondamente cambiate con la
nascita a Modica di un centro studi dedicato al poeta e l'impegno
dell'Amministrazione, Comunale nell'intitolarglí una strada e nel
riportare nella sua casa natale le sue carte. Un'operazione quest'ultima
sicuramente complessa ma agevolata da un cospicuo finanziamento regionale
stanziato a tale fine. La seconda fase della sua opera abbraccia la poesia
del dopoguerra, raccolta in Giorno dopo giorno (1947) e La vita
non è un sogno (1949) che si caratterizzano per il linguaggio
più semplice e immediatamente comprensibile, perla maggiore attenzione
rivolta alla realtà contemporanea e per i contenuti sociali e civili che
esprimono.
In alto un ritratto del poeta Salvatore Quasimodo che in Modica ebbe i
natali. A fianco la casa dei centro storico del paese che lo ospitò
con, in evidenza, la lapide che ne ricorda il passaggio.
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Modica '96,
la Contea e la memoria
di Giorgio Sparacino
Modica nel '96
ha festeggiato il 7° Centenario della nascita della Contea con un
ricchissimo programma di manifestazioni svoltesi dal giugno a
dicembre. Riportiamo una nota dell'allora Assessore ai Beni
Culturali Giorgio Sparacino.
Modica celebra quest'anno il 7'Centenario
della nascita della Contea. E' un momento importante, che deve perseguire
dite obiettivi precisi ed indissolubilmente legati fra loro. Uno, quello
culturalmente più gratificante, è qffidato alla promozione di un'indagine
storicogrqfica di alto livello sul nostro passato. L'altro, quello di
costume, forse meno importante ma certamente di maggior presa popolare, è
legato ad un auspicabile processo di ri . appropri . azione della propria
identità, la sola che può determinare in una città e in un popolo quello
scatto d'orgoglio che faccia guardare con fiducia al futuro. E il futuro
di una città dipende dal suo passato, dalla consapevolezza che ne ha ogni
cittadino. Modica 96: la Contea e la memoria" è dunque un'occasione unica
per una ricerca di riscatto, per un tentativo di voltar pagina e di
guardare con maggiore speranza verso il futuro. Un' occasione
che può significare decremento della piaga della disoccupazione, se
è vero - come è vero - che il turismo, al Sud, può essere il volano della
ripresa economica. L' ONU ha calcolato che oltre il 60% dei beni
artistici di tutto il pianeta sono concentrati in Italia. E di questo 60%
la Sicilia ha una ,fetta consistente. Questi dati confermano che la
vocazione di quest'isola e delle sue Città d'Arte è il turismo. Il turismo
e l'agriturismo possono diventare motore insostituibile del rilancio
economico del nostro territorio. E il rilancio economico significa posti
di lavoro per tutti, soprattutto per i giovani. E nuovi posti di lavoro
sono anche un mezzo per contrastare lo strapotere della mafia, che fra i
disoccupati assume la sua manovalanza. Ma tutto questo devono capirlo le
Amministrazioni locali, i Comuni, le Provincie e, in primo luogo, la
Regione Siciliana. Risorse e capitali devono essere impegnati per creare e
non per togliere ferrovie, strade, attrezzature, per recuperare e
sottrarre all'incuria e alla speculazione privatale zone archeologiche, i
parchi e quant'altro costituisce la nostra ricchezza massima. Gli
investimenti nel settore dei beni culturali sono investimenti produttivi.
La cultura e il turismo culturale sono la nostra reale possibilità di
riscatto. Bisogna fare in modo che tutti i musei siano sempre fruibili,
che le chiese non debbano crollare. Bisogna recuperare e restaurare i
castelli, le rocche, i conventi. Il sud d'Italia e la Sicilia in
particolare sono talmente ricchi di città d'arte e di testimonianZe
storico-artistiche, che basterebbe la fruizione di una terza parte di
questo patrimonio per la soluzione dei nostri ormai cronici problemi. "
Modica 96: la Contea e la memoria" nasce anche come invito a
considerare tutto questo ed insieme come scommessa per un tentativo di
restituire alla gente lavoro e dignità.
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