Ci sono
“antichi” mestieri che al giorno d’oggi vanno lentamente
scomparendo, sono proprio quei mestieri che danno il sapore della campagna,
di una
vita modesta, fatta di sacrifici, vissuta di tante piccole ma semplici
cose. Quello del “cufinaro” uno di questi “antichi”
mestieri. Un tempo l’uso dei cestini di canna intrecciata era
giornaliero ed ogni “cufino” aveva un nome ed una forma
diversa a secondo l’uso a cui era destinato: se doveva contenere
gli attrezzi per innestare la pianta era il “ panaro pi’nnesti”,
se doveva contenere la ricotta fresca era “ a cavagna” o,
se serviva per dare la forma alla cagliata del formaggio era “a
vascedda”. Oggi questi sono stati sostituiti da materiali di plastica,
ed ecco che andando in giro per le campagne si vedono brutti ed antiestetici
“cesti” di plastica gialla con stampato il disegno della
canna intrecciata ed il manico nero, patetiche imitazioni del “panaru”.
Così i “cufinari” vanno piano, piano scomparendo
e coloro che lavorano la canna con gesti attenti e precisi sono davvero
pochi. Entrare nella bottega di un “cufinaro” porta veramente
indietro nel tempo. Sul pavimento grezzo, a volte di cotto, alle pareti
umide ma luminose, si trovano tantissimi “cufini” dalle
forme svariate e negli angoli i fasci di canna che con il suo colore
leggermente ambrato e il caratteristico odore dolciastro fanno pensare
ai campi soleggiati delle calde estati siciliane. Da una parte il piccolo
banco di lavoro anch’esso fatto di canna, dove si trovano pochi
attrezzi in confronto alla grande quantità di “opere”
realizzate, perché tutto dipende dall’abilità dell’artigiano,
che con la sua attenzione intreccia e annoda la canna, l’olivastro
o il castagno. Ed infine la sua sedia bassa, di legno, dove il cufinaro
siede per cominciare il suo lavoro. Don Saro è uno degli ultimi
cufinari che nella zona di Catania ancora si dedica a quest’arte.
Un vecchietto, che tutte le mattine si alza alle cinque per cominciare
a lavorare. Dal suo viso segnato dal tempo e dai suoi occhi stanchi
traspare tanta gioia e un velo, non poco evidente di soddisfazione non
appena gli chiedo di spiegarmi come nasce un “cufino”. Così
si siede sulla sedia e incomincia a lavorare, mentre con voce fioca
mi spiega che la “vria”, la canna è raccolta lungo
le rive dei fiumi. Dopo viene misurata e messa a bagno per otto giorni.
– “Così la posso lavorare come voglio”- continua
Don Saro mentre con lo sguardo attento le sue mani continuano a maneggiare
la canna con grande abilità è decisione. Il “cufino”
viene iniziato mettendo due “virie”, verghe di olivastro,
castagno o melograno, più larghe a forma di croce, per formare
la base. A questa si intrecciano le “vrie” più sottili
fino a formare una ruota, i lati del “cufino” sono preparati
facendo partire altre “vrie” dal centro come dei raggi ed
infine vengono intrecciati per formare “ a trizza” ed il
manico. Vedere Don Saro che si dedica al suo lavoro trasmette tanta
emozione. E’ un artista mentre con passione realizza la sua opera.
Il mestiere del cufinaro oggi sopravvive solo per finalità folkloristiche,
ed ecco che molti dei suoi prodotti fanno bella mostra nei moderni salotti
o nei locali alla moda. Si ha però l’impressione di vedere
sottovalutata e banalizzata una dell’espressioni più belle
del nostro artigianato di pregio.
|