Quando
le ferie si chiamavano vacanze, i cibi precotti non esistevano e di
supermercati non si parlava, d’estate si raccoglievano e si conservavano
per l’inverno i frutti che la terra elargiva. I metodi di conservazione,
assolutamente naturali ed ecologici, sfruttavano per lo più l’energia
solare, di cui la Sicilia abbonda, che era alla portata di tutte le
tasche.
Nei mesi di luglio ed agosto strade, cortili, terrazzini e ballatoi
venivano invasi da “musciari” o da “ ncannati”
dall’alba al tramonto. Erano questi ripiani fatti da canne di
fiume legate una accanto all’altra con rami di salice,che venivano
posti su “trispiti”, cavalletti di ferro che di solito sostenevano
il piano del letto.Su questi ripiani ben areati si ponevano a seccare
ed asciugare di tutto: fichi da infilare poi a “filaru”
o da lasciare così come “passuluni” da spizzicare
nelle lunghe sere invernali, uva, fichi d’india, cotognata, mostarda,
pomodori tagliati a metà per farne “chiappe” deliziose
condite appena con un goccio d’olio d’oliva e una foglia
di basilico, e infine, principe di ogni conserva, i piatti di “strattu”.La
preparazione dello strattu era lunga e laboriosa, ogni massaia vantava
i suoi segreti per ottenere al meglio questa quinta essenza dell’estate
che avrebbe riscaldato e colorato i ragù dei giorni di festa!
Prima di tutto bisognava passare una grossa quantità di pomodoro
e per questo si mobilitava tutta la famiglia e il vicinato. C’era
chi lo faceva dopo aver sbollentato i pomodori chi invece li passava
a crudo dopo averli tagliati e lasciati una notte intera a scolare l’acqua
in eccesso.
Per passarli si utilizzavano dei setacci bucherellati ( tipo grattugia),
rotondi su cui a mano si strizzavano pomodori su pomodori. Il passato
veniva raccolto su una pentola sottostante. A questo punto c’era
chi lo concentrava per bollitura e chi lo versava nei grandi piatti
adibiti appunto per fare “u’ strattu”. C’era
chi assieme ai pomodori passava qualche peperoncino per dargli il piccante,
chi preferiva aggiungere il basilico e chi una punta di zucchero. Una
volta versato sui piatti questi venivano esposti al sole di prima mattina
e ritirati al tramonto, per evitare che l’umidità della
notte lo facesse inacidire, e durante l’esposizione andava rigirato
spesso con un cucchiaio di legno. I piatti venivano coperti con un velo
per proteggere il loro contenuto dalle mosche e dalla polvere, ma non
c’era niente da proteggerlo dalle dita ingorde dei ragazzini che,
non avendo ancora nutella a disposizione, con la scusa di “arriminarlu”
ne facevano scorpacciate. Man mano che la conserva si addensava veniva
riunita in pochi piatti fino a quando diventava una massa densa liscia
di colore rosso scuro. A questo punto si impastava a mano con il basilico,
sale ed olio d’oliva e si riponeva in vasi di vetro chiusi da
una tela per permetterne l’areazione, coperto da un filo d’olio
rigorosamente d’oliva, in attesa di essere sciolto col vino rosso
per preparare quei sughi favolosi che avrebbero fatto la delizia del
palato di intere famiglie.