Partendo da Siracusa nel 300, S. Lucia passò per Carlentini, diretta a Catania, ove si proponeva di implorare da Sant’Agata la guarigione di Eutichia sua madre, affetta da grave flusso di sangue. S. Lucia contava allora 14 anni.

E la leggenda si ferma. Ogni devoto carlentinese vantava, reliquia preziosa e cara, un ossicino di un pollice della Santa, al quale non era persona che non s’inchinasse riverente. Se non che, un giorno del 1849 andato in quel comune l’Arcivescovo di Siracusa Mons. Manzo ed esaminata la reliquia fece capire al clero che quella non poteva esser l’osso di una ragazza a 14 anni, e la portò via a Siracusa mandando in sostituzione di esso un lembo di veste di S. Lucia debitamente autenticato, che si fu solleciti di chiudere in un’urna rappresentata da un avambraccio d’argento. Io non so che cosa abbia pensato di questo scambio la folla dei devoti. Certo però non mi maraviglierei se mi si dicesse aver essa mormorato contro il buon Monsignore; perché in ordine a santi tutelari ed a reliquie loro i devoti non discutono molto: e se Mons. Manzo prese l’osso di S. Lucia ciò vuol dire che quell’osso faceva comodo a Siracusa, e Carlentini ne fu compensato co un cencio di veste! Sia come si voglia, la festa che si celebrava alla prima si celebra alla seconda reliquia, perché in fin dei conti è la santa protettrice quella che si vuole onorare. Anzi, perché le cose andassero meglio, la festa venne definitivamente rinviata all’ultima domenica di Agosto, non consentendolo sempre il maltempo del 13 Dicembre. Quella domenica è preceduta e seguita da due giorni di solennità: il sabato, che passa un po’ freddino, benché si porti in giro la reliquia, ed il lunedì. Ma otto giorni prima, la pace delle famiglie e l’abituale pazienza degli abitanti viene rotta per più ore ed in ore diverse dal tamburino, che squassa e tempesta il suo ingrato strumento come vuole l’uso, come voleva suo padre, suo nonno, il suo bisnonno: giacché è consuetudine che il tamburinaggio si trasmetta in quel paese per eredità; onde parecchie generazioni consecutive rappresentano la storia di questo ingrato arnese. Nei tre giorni poi lo strazio cresce, perché se prima era limitato, mettiamo, a tre o quattro volte il dì, ora, alternandosi con la musica, chiama la confraternita, mette in moto le statue dei santi, accompagna gli esercizi dello stendardo, e fa i suoi convenevoli innanzi le persone tenute più in conto, e perfino innanzi le tende dei dolcieri della piazza del Municipio; tanto che tu senti alternare il suo rullo infernale col vocio di questi venditori; Cosa duci c’’u ticchi-tacchi! Cannameli c’’u nci-nci! come per dire: dolci squisiti, caramelle...

Domenica e lunedì le reliquie percorrono ripetutamente le strade del paese, sopra un carro trascinato da devoti con processione e stendardo maneggiato da chi più forte ed abile offrì la maggior somma alla chiesa. Alla estremità del carro è sospeso un angelo, che non so quando, ma certo in tempo relativamente vicino, urtò o avrebbe urtato contro un filo telegrafico. I paesi vicini non vollero altro per mettere in burla i Carlentinesi; e quel di Lentini, che si suppongono i più interessati nello scherzare alle spalle degli abitanti di Carlentini, improvvisarono e ripetono sovente il motteggio: ‘Cianu, spingi ‘a canna e ‘u chiovu, cà l’angiulu ‘mpinciu (Luciano alza la canna ed il chiodo, perché l’angelo rimase attaccato). Luciano è il nome favorito dei Carlentinesi; il chiodo è l’arnese del quale questi contadini si servono nel raccogliere i ficodindia.

 

Vi è una storia antica, forse soltanto una leggenda, ma che non escluderemmo possa avere un qualche fondamento di verità. Parla di una crisi terribile, sfociata in carestia che sfiancò e sfinì per la fame gli abitanti di Siracusa. Questi, giunti allo stremo delle forze, ormai rassegnati al loro triste destino, videro giungere dal mare una nave carica di frumento che alleviò le loro sofferenze e consentì di superare quel momento così difficile. Era il giorno di Santa Lucia e cucinare quel frumento diede origine ad una tradizione che non si è mai spenta e che anzi si è diffusa in gran parte della Sicilia. Il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, si mangia la "cuccia", il frumento bollito e condito come se fosse, di volta in volta, un dolce, un piatto unico, o un primo piatto. La tradizione più antica, a dire il vero, ci presenta questo piatto come un dolce, forse a rimarcare ancor più il valore simbolico legato al lieto evento con cui furono superate dai siracusani le difficili condizioni della carestia. Il procedimento con cui si prepara la cuccia dolce non è particolarmente complesso e prevede una prima fase di ripulitura accurata del frumento da cui vengono allontanati i corpi estranei e che viene lavato e versato in un recipiente d’acqua dove rimarrà per ventiquattr’ore. Trascorso questo tempo il frumento viene risciacquato e lessato a fuoco lento per circa due ore, sino a quando, cioè, i chicchi non saranno teneri ed avranno assorbito la gran parte dell’acqua. Lo si scola bene e si dispone in una insalatiera. A parte si prende della ricotta (secondo le dosi consigliate) e la si mescola ben bene con zucchero e cannella, passando eventualmente il tutto al setaccio per evitare il formarsi di grumi. Talvolta la ricotta risulta troppo asciutta, in questo caso si può aggiungere un po’ di latte. Si prende quindi del cioccolato fondente a pezzi, si taglia a scagliette e, insieme a della zucca candita si amalgama al meglio con il fumento e con la ricotta condita con zucchero e cannella. Il composto viene quindi servito, quando sicuramente ben freddo, in un piatto di portata. Il condimento della cuccia dolce può variare anche in relazione ai filtri delle tradizioni locali delle diverse zone della Sicilia, per cui il frumento si può ritrovare condito semplicemente con vincotto, o con crema di latte o, ancora, con miele. In alcune aree della Sicilia, la tradizione di preparare la cuccia dolce viene spostata al 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate.