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Nella prima metà del secolo XVII, il sovrano spagnolo Filippo IV, costretto da impellenti necessità di denaro occorrente per le sue continue operazioni belliche su vari fronti, cominciò a vendere nei suoi grandi possedimenti sparsi ovunque in Europa, tutto ciò che si poteva vendere ed anche quello che non si poteva vendere, paradosso nascente dalle urgenti direttive provenienti da Madrid. La Sicilia rientrò in questo mercimonio di vendite di feudi, di titoli nobiliari, di casali ed onorificienze, di cui furono controparte attiva alcuni intraprendenti e spregiudicati banchieri genovesi, fra cui ricordiamo Giovan Andrea Massa, Vincenzo Giustiniani, lo Scribani, il Costa, il Vigo. Il Massa comprò all’asta i casali di San Giovanni La Punta e San Gregorio per 8.000 scudi e poi San Giovanni Galermo (458 abitanti nel 1642), Sant’Agata Li Battiati, Trappeto, Tremestieri, Mascalucia, (ceduta poi a Nicolò Placido Branciforte con 1413 ab. e 414 case nel 1652), Plachi (rivenduto indi ai Valguarnera (con il titolo di principe), Camporotondo (venduto poi nel 1654 a Diego Reitano con il titolo di marchese) e San Pietro Clarenza per complessivi 35.000 scudi, più Misterbianco (904 case e 3656 ab.) poi rivenduto ai Trigona di Piazza Armerina per 32.000 scudi di cui 20.000 alla Regia Curia (Corte). Parimenti l’11 luglio 1640 furono venduti al mercante messinese don Domenico Di Giovanni i casali di Trecastagni e Viagrande per 30.000 scudi, atto poi ratificato a Madrid il 6 febbraio 1641, poi seguiti dall’acquisto del casale della Pedara per 12.500 scudi, oltre all’offerta di 800 onze (2.000 scudi) in prestito alla Regia Curia, con un interesse che non avrebbe superato il 12% e che avrebbero dovuto essere restituiti solo se i casali fossero stati riscattati dalla città di Catania, dalla quale erano stati separati. Tale vendita comprendeva nel territorio gli abitanti, le case, i mercati, le strade, le trazzere, i fondaci, le osterie, i macelli, le carceri, i boschi, le terre coltivate, i mulini ed i trappeti, le vigne, gli abbeveratoi, le ghiande, le miniere di metallo, oppure eventuali monete o tesori nascosti sottoterra, i ponti, i pedaggi, le varie tasse, i diritti di nomina dei vari ufficiali del fisco, della guardie, del maestro notaro etc. L’acquirente dei suddetti casali, staccati dall’antica giurisdizione della città di Catania fu - come già detto - il mercante e banchiere messinese don Domenico Di Giovanni. Questi era figlio di Scipione (I) e Brigida Giustiniani, fortunati eredi delle immense ricchezze e quindi dell’impero mercantile dell’armatore e banchiere genovese Vincenzo Giustiniani, che poi trasmisero al suddetto erede Domenico. Questi, entrato in possesso delle ingenti somme ereditate, pensò di investire comprando i suddetti casali di Catania (cfr. D. Ligresti, Catania e i suoi casali, Cuecm, 1995) e i relativi titoli nobiliari che la Regia Curia (Corte) aveva messo all’asta. La vendita permetteva agli abitanti di conservare tutte le immunità ed i privilegi precedenti e consistenti negli usi civici di seminare, pascere, ghiandare, fare carbone e legna nel territorio della Mensa vescovile dove ricadevano i territori dei casali acquistati. I cittadini, sotto la direzione ed il controllo dei portulani potevano ammassare e poi far distribuire cereali e derrate varie in occasione di epidemie, carestie oppure guerre ed invasioni. Il Di Giovanni, pagando il prezzo suddetto per l’acquisto dei casali, non aveva fatto solo un favore alla R. C., fornendole soldi liquidi, ma aveva portato a termine un ottimo investimento finanziario. Ciò infatti gli avrebbe permesso il controllo strategico di alcune importanti vie di comunicazione e di traffico, tra cui la Regia Trazzera che dal litorale jonico portava, attraverso Pisano, Fleri, Viagrande, a Catania e l’altra trafficata strada che perpendicolare a questa, conduceva all’importante scalo di Acitrezza. Il Di Giovanni prese possesso dei casali e subito vi nominò delle persone di fiducia come Antonio Pappalardo a Pedara, incaricato come capitano giustiziere della milizia territoriale, composta da 6 cavalieri e 3 fanti per Trecastagni e 4 cavalieri e 12 fanti per Pedara. Tuttavia don Domenico, per seguire i suoi affari in Messina, risiedette solo temporaneamente a Trecastagni che però cercò di abbellire al meglio. Infatti fece edificare quello che poi fu detto il Palazzo del principe, cioé un edificio a due piani, con scalone centrale grande ed ampia corte, destinato ad essere sede degli organismi giurisdizionali dello "Stato dei Di Giovanni" (Giarrizzo, introd. al testo di G. Pappalardo, pagine storiche della di barone di Pedara il principe aveva occupato il 56mo posto nel Parlamento siciliano. Nel 1652 il Senato di Catania, il giurista Cutelli ed il vescovo Gussio richiesero alla Regia Corte di ritornare in possesso dei casali venduti nel 1640/41 ai Trigona, al Massa e al Di Giovanni e per i quali venivano offerti 149.500 scudi raccolti con immensi sacrifici dai cittadini e così suddivisi: 129.500 scudi come prezzo dei casali e 20.000 scudi come regalia. Dopo una serie di consultazioni e verifiche la Regia Corte concedette il suo benestare ed i casali furono riacquistati dalla città etnea il 7 maggio 1652, mentre i mercanti ritornarono in possesso delle somme prima sborsate. Tuttavia, due anni dopo, nel 1654 la Regia Corte ebbe bisogno di denaro per cui rivendette di nuovo ai suddetti banchieri gli stessi casali per cui i Di Giovanni, dopo due anni di assenza, ritornarono con la persona del principe Domenico in possesso dei feudi acquistati così due volte. Poco tempo dopo, tuttavia il Di Giovanni, richiamato dai suoi affari cittadini si ritirò ben presto a Messina dove si spense il 18 maggio 1666. Il 16 settembre dello stesso anno il figlio erede Scipione ottenne l’investitura dei feudi e dei titoli nobiliari annessi. Al contrario del padre, Scipione si trasferì quasi definitivamente a Trecastagni per curare in loco i suoi interessi "etnei". Come aveva già fatto il suo genitore, delegò alcuni elementi della famiglia Pappalardo di Pedara (la più illustre del periodo e del centro), quali don Ludovico (fratello di don Diego) e Alessandro Pappalardo a ricoprire le funzioni di capitano di giustizia il primo, e di suo amministratore il secondo. Alle sue dirette dipendenze passavano anche i giurati mentre parimenti gli venne confermato il diritto del mero e misto imperio già concesso a suo padre, cioè il potere di amministrare la giustizia compresa la pena di morte: cosicché lo Scipione divenne un piccolo sovrano nelle terre alle sue dipendenze. Gli stessi giurati, oltre agli interessi del principe feudatario dovevano curare la riscossione dei donativi spettanti alla Regia Corte ed erano incaricati pure di fissare le mete (i prezzi) delle derrate alimentari di maggior consumo popolare. Sotto il dominio di Scipione (II) Trecastagni risaltò come la piccola capitale dello "Stato". Infatti il principe a partire dal suo insediamento (1666) iniziò a far costruire il Convento dei Padri Francescani Riformati con l'adiacente Chiesa dedicata a Sant'Antonio da Padova, ai piedi del piccolo, ma storico colle detto del "Mulino a vento". Il Convento, con il portico affrescato in seguito dal pittore acese Giovanni Lo Coco (1667-1721), subì tutta una serie di vicissitudini nel corso dei secoli, diventando di volta in volta municipio, pretura, carcere, scuola e perdendo quindi le sue caratteristiche iniziali. Attualmente la Chiesa presenta affreschi del suddetto pittore, marmi policromi e intarsi barocchi, oltre al sepolcro del figlio di Scipione, Domenico (III), spentosi nel 1696. Il periodo in cui Scipione (II) governò il suo "Stato" non fu certamente sereno come ci fanno sapere le fonti storiche coeve, se consideriamo l'eruzione dell'Etna, la guerra di Messina e il terremoto del 1693. Nel 1669, il 9 marzo il principe si trovò ad affrontare la terribile eruzione scoppiata a poca distanza dal paese di Nicolosi. Per cercare di intervenire secondo nuovi dettami scientifici e non seguendo la tradizione che si era servita sempre di Santi o di reliquie contro il fuoco avanzante, Scipione fece venire da Messina il famoso scienziato Borelli per cercare di affrontare scientificamente il fenomeno della lava. Da questo connubio di potere e scienza vennero fuori degli ordini messi poi in pratica dal Cavaliere Gerosolinitano di Pedara don Diego Pappalardo. Questi, coadiuvato dagli acesi Giacinto Platania e Saverio Musmeci, con un gruppo di uomini tentò di deviare la colata. Gli uomini suddetti coperti da spesse coltri per difendersi dal calore della lava, cercarono di deviare il cammino del torrente di fuoco ammonticchiando massi. La manovra stava per avere un certo successo quando furono impediti da gruppi di uomini di Paternò colà intervenuti. Questi ultimi non volevano che la lava deviata si dirigesse verso le loro campagne. Probabilmente questo fu il primo tentativo documentato di deviazione della lava con le sole forze umane, senza che ci si rivolgesse, come si era sempre fatto nel passato a Dio, tramite l'intercessione di Santi, soprattutto di Sant'Agata della quale si era utilizzato spesso il sacro Velo. Esauritasi la crisi vulcanica, nel 1672 Scipione si ritirò a Messina dove c'era bisogno della sua presenza poiché la situazione politico-sociale della città non faceva presagire niente di buono. Scoppiata poco dopo la guerra tra Francesi e Spagnoli, combattuta per lunghi periodi nell'isola, Scipione mantenne un atteggiamento alquanto strano ma poi si schierò con i primi e quando questi furono sconfitti fu imprigionato insieme al fratello Vincenzo e poi scarcerato. Ai confini del suo "Stato", in territorio di Fleri Pisano, durante questa guerra furono costruiti un Fortino, una Muraglia ed una Porta (cfr. A. Patanè, Il Fortino di Castel Roderigo..., in Memorie e rendiconti dell'Accademia Zelantea, Acireale, 1993) per controllare la Via Regia ed eventualmente bloccare la marcia dell'esercito francese verso il centro dell'isola e Catania. La costruzione delle suddette strutture militari fu coordinata dal Senato acese e finanziata da don Diego Pappalardo. Questi, approfittando dell'assenza del principe ritornato a Messina, tentò di fare del centro di Pedara la capitale dello "Stato" dei Di Giovanni (cfr. G. Giarrizzo op. cit. pag. 13), a scapito di Trecastagni. Il tentativo messo in atto si estrinsecò con uno sforzo economico enorme e che portò al completamento della Chiesa Madre nel 1691, alla costruzione del Teatro, all'istituzione di scuole, all'apertura di strade, all'effettuazione della fiera e della festa di Agosto, sontuosa e fatta conoscere in tutto il territorio etneo per mezzo degli scritti di don Ludovico Pappalardo. I domini dei Di Giovanni subirono un contraccolpo alla fine del Seicento. L'erede di Scipione, Domenico III, l'11 agosto 1696 premorì al padre e fu sepolto nella Chiesa dei Francescani di Trecastagni dove una lapide segnala il suo sepolcro. Mancando altri eredi, fu chiamata a succedergli la nipote Marianna (o Anna Maria) figlia di Domenico e di Isabella Morra e Cottone, la quale il 27 febbraio 1710 sposò a Palermo Giuseppe Alliata principe di Villafranca. Finiva cosìl'era dei Di Giovanni su quel territorio che passava sotto gli Alliata. Come inquadrare storicamente il loro breve regno a Trecastagni, Pedara e Viagrande? Non abbiamo molte notizie in proposito, tuttavia sappiamo che cercarono di migliorare i commerci, costruirono strade, chiese, palazzi, conventi e scuole. L'attività che ne derivò attirò parecchia gente che preferì essere soggetta alla loro signoria piuttosto che sottostare alle angherie di altri feudatari. Secondo l'acuta analisi storica del Giarrizzo, i gruppi dirigenti messinesi cercarono di controllare politicamente ed economicamente il territorio stratigoziale che andava da Patti a Lentini per mezzo di "investimenti significativi in infrastrutture varie e in trasformazioni fondiarie da parte del principe di Trecastagni e dei suoi vassalli". Negli anni che vanno dal 1672 in poi risaltò il ruolo predominante di Pedara che divenne un centro importante per i trasporti di merci e persone. Ne fecero testo le venticinque "redini" di muli che, con la guida dei bordonari trasportavano carbone, legna e neve nei centri costieri ionici e grano soprattutto a Messina. Un breve "regno", quindi quello dei Di Giovanni che però lasciò tracce ben visibili nel territorio che fu parte attiva delle loro iniziative, spesso connesse con quelli che fuorno i grandi avvenimenti della seconda metà del secolo XVII nella Sicilia Orientale e di cui abbiamo già fatto cenno. Tali eventi lasciarono tracce indelebili che ancora oggi, pur tra grandi difficoltà, resistono all'usura del tempo e all'incuria degli uomini e sono testimoni del loro illustre passato. |