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Rea o Cibele o Mata, un donnone che non s'è mai visto l'eguale; con una faccia da luna piena anzi una luna piena addirittura. Gigantesca quanto e più del moresco marito, veste da guerriera sopra un cavallo intenzionalmente superbo. Sul capo, i cui capelli sono tirati indietro e legati da un nastro, porta una corona di fronde e fiori, con una stella in fronte, le tre torri, una collana, un ampio mantello azzurro tempestato di stelle, che copre tutto il dorso del cavallo. Lieta e sorridente non ha nulla della severità del suo amato consorte; e quasi come per segno di sua gentilezza ha un mazzo di fiori alla mano diritta, ed impugna leggermente la lancia con la manca, lasciando abbandonate le redini del destriero, che al pari di quello di Grifone è bardato e coperto di una ricca gualdrappa rossa ornata di galloni, fiori e rabeschi. I principi giganti son chiusi in un magazzino di via San Giacomo a destra della Cattedrale; e vi stanno dodici lunghi mesi. Quel magazzino, anzi tutto il fabbricato, secondo gli ameni discorsi che ho sentiti dalla gente venuta, è di proprietà loro. Il Municipio, ai tempi dei tempi, si mise in possesso delle rendite dei Giganti ed ha il dovere di provvedere alle spese loro necessarie: dimora, rinnovamento parziale dei costumi, restauro delle figure e via discorrendo. Ma il Municipio dopo di aver messe le mani sui beni della bella Camarese, spende appena poche lire in questi restauri, e l'anno scorso lesinava per poche centinaia di lire ai facchini che doveano trascinare i Giganti per la città e finiva col rinunciare al trasporto di essi! Così ragionavano la mattina del 13 agosto del 1896 quattro o cinque crocchi di popolani, e guardavano con gli occhi imbambolati i diletti loro progenitori. Ma gà le immense porte della casa di Mata e Grifone, per particolari congegni sono spalancate, ed un fragoroso battimano saluta le care figure. Operai di ogni genere, marinai, pescatori, venditori, sono festanti, ed i fanciulli corrono per tutta la via San Giacomo e per la piazza della Cattedrale. Un tamburino batte qualche colpo, ed i fanciulli saltano, sgambettano elettrizzati. Dozzine di giovani vigorosi e robusti appaiati sotto solide stanghe, barcollanti, trascinano i due strani colossi per le vie più frequentate della città; e la città è in festa: e dalle logge, dai balconi, dagli usci, dalle entrate, dagli sbocchi dei vicoli, dai cortili la gente si affaccia giuliva, soddisfatta a rimirare lo spettacolo che agli occhi suoi riporta i simulacri del Gialanti e della Gilantissa, che godono il privilegio di una perpetua giovinezza, sempre amabili, sempre sorridenti qualunque siano le opinioni che sul conto loro abbiano i vecchi e giovani padri della patria. Nel 1861, al soffio aquilonare dei nuovi tempi, furono condannati all'ostracismo quali vieti arnesi di servitù dove non entra la professione della libertà. Ma l'anno appresso rieccoli con la loro eterna serenità, niente impermaliti dell'offesa loro fatta da un Sindaco, da un Questore, da un Prefetto che non li capiscono. E mentre un forestiero per far lo spiritoso chiede: "oh che cosa date da mangiare a queste statue?" Le statue per bocca di un facchino rispondono senz'altro: "Polenta!". Voler dire di ciò che avviene al passaggio dei colossi è presunzione. Vi sono scene che si vedono ma non si descrivono e, descritte, finiscono in parodia. Ecco perché mi fermo di fronte a questo spettacolo stranamente pittoresco e pittorescamente strano. Due artisti di molto valore e di meritata rinomanza, l'uno con la penna, l'altro col bulino, lo ritrassero con vera genialità ed io taccio lasciando parlare la riproduzione dell'opera loro. Rilevo soltanto tutti quei costumi, che ora paiono goffi, sessant'anni fa riproducevano il figurino di Parigi. Ma mentre i colossi son fermi ed i portatori si riposano un istante, la burla tradizionale ne fa delle sue; ed una è questa: scovatosi tra la folla un provinciale, un uomo facile a cader in trappola, egli viene subito condotto innanzi al Gigante, e consigliato, spinto, costretto a baciargli il piede, egli, il semplicione, bacia ed una solenne sghignazzata del non colto bacio accoglie lo sconsigliato bacio. Nel disegno che accompagna questa descrizione, e che raffigura i Giganti nella Marina tra moltissime persone e cose si vede una pelle di cammello entro la quale due uomini ficcano il capo ed il tronco e tenendo le gambe e i piedi liberi precedono i Giganti. Questa pelle sarebbe stata la spoglia del cammello che montava il conte Ruggero il Normanno quando entrò in Messina per la conquista della Sicilia. L'unicità dei due spettacoli, quello, cioè, dei colossi e l'altro del cammello, parrebbe non suffragata da testimonianze storiche. La maggior parte degli scrittori partendo dalla pia leggenda, fanno precedere la Bara dal cammello; ed il La Farina lo fa supporre. Il Samperi, nel secolo XVII lo colloca allato di essa, ma il nostro disegno, che è documentato di testimoni oculari, sposta dalla Bara la funzione del cammello e la mette innanzi ai colossi riunendo le due scene profane e lasciando libera la sacra della Bara. Sia che si voglia, lungo il tragitto i due uomini in maschera "vanno giocando et bagordando" come diceva tre secoli addietro il Buonfiglio; ed il giuoco e bagordo era una successione di movimenti, di smorfie, di dinoccolamenti, di corse, di salti, che il cammello, o meglio gli uomini camuffati da cammello, preceduti e fatti rilevare da un suonatore di cornamusa, van facendo per le piazze e per le strade cavando berretti a chicchessia e facendoli volare per aria. In uno dei disegni del Samperi insieme col cammello sta un uomo in maschera con barba da satiro e berretto cornuto , il quale minaccia di picchiare con due grosse vesciche di maiale legate ad un bastone una specie di monello caduto per terra, presso la Bara. Quell'uomo ha nella mano sinistra una scatola come quelle che portano i frati sacerdoti: il che non è senza un secondo significato; perché scopo forse non primitivo od originario dello spettacolo, è una questua, a memoria dei vecchi, un poco, anche troppo sommaria, per fondaci e botteghe; nella quale pane, carne, salame, frutta ed altro veniva senza tanti complimenti preso in bocca dal finto dromedario e messo insieme dalla magna comitante caterra del cammello. Una idea di questa scena abissina ci vien data dal Serpente di Butera, il cui attore è un erede o un compagno incosciente del cammello e di cui ripete nè più nè meno la mimica, mentre i suoi amici la sera vanno a rimpinzar l'epa col mal tolto della giornata. La rapacità del cammello deve essere stata grande davvero se essa ha potuto rimanere proverbiale nel Messinese; tanto che del fare man bassa su tutto, dell'arrapinare, dell'appropriarsi ogni cosa si suol dire: fari lu gamiddu o la santa gaminidda. I Giganti costituiscono la prima delle tre cose caratteristiche di Messina. Quando un messinese chiede senz'altro ad una persona "U' vidisti?" si intende il Gigante della festa; quando U' sintisti? si allude al terremoto; e quando: U'tastasti? (lo saggiasti) si suppone il pesce spada. Il motto è tradizionale come tradizionale durante le feste è l'uso di certi panini da fanciulli, rappresentanti le figure del Gigante e della Gigantessa. |