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meno di un chilometro dal bivio adiacente ponte del Maccarrone sul Fiume
Simeto, attraversato dalla statale 121, e salendo per la cosiddetta
strada per Carcaci, oggi rappresentata da un tratto della statale 575,
ci si imbatte in una serie di alte ed imponenti arcate che costituiscono
il cosiddetto “ponte-acquedotto Biscari o d’Aragona”, realizzato
nella seconda metà del Settecento dal principe Ignazio Paternò
Castello, proprietario di questi luoghi. Più a valle, il Simeto scorre
incassato tra due alte pareti di rocce vulcaniche e lo si può varcare
soltanto sul citato ponte del Maccarrone, una struttura lunga più di
cento metri, abbellita agli estremi da alti obelischi. L’acquedotto in
questione si inserisce in una serie di opere e di interventi effettuati
nel territorio di Adrano fin dal XVIII secolo miranti, oltre che al
risanamento ed allo sviluppo, a garantire occupazione alle masse
popolari in continua crescita. Risalgono a questo periodo alcune
grandiose opere di bonifica relative a terreni improduttivi;
l’ammodernamento dell’agricoltura che diviene sempre più
specializzata; la costruzione, appunto, del ponte-acquedotto e di
diversi mulini ad acqua; ed ancora strade rurali, vasche, bevai.
L’opera, una via di mezzo tra un ponte ed un acquedotto, venne
concepita al fine di migliorare le condizioni igienico-sanitarie degli
abitanti del territorio, attraverso la bonifica di una parte della valle
del Simeto ma anche per trarre ingenti guadagni dalla coltivazione del
riso. L’acquedotto attraversa ancora oggi, in senso ortogonale, il
Fiume Simeto nel punto denominato passo della Carrubba, in contrada
Cimino, territorio posto tra i comuni di Adrano e Centuripe. Esso
avrebbe consentito il passaggio dell’acqua dalle Favare di Santa
Domenica al Feudo di Ragona, al fine di poter intraprendere la
coltivazione del riso. Notizie tratte dal “Dizionario topografico
della Sicilia” (Amico, 1865), ci dicono che Aragona era "Casale
un tempo esistente nel territorio detto oggi volgarmente di Ragona, tra
Centorbi ed Adernò, con una torre. Appartenevasi nel 1408 a Giovanni
Eschisano, come si rileva dal censo di Re Martino; a Perollo di Modica
nel 1479, che il vendette ad Artale Mincio, donde pervenne a Giovanni
Paternò, ed oggi per dritto dei padri suoi ad Ignazio Paternò Castello
Principe di Biscari." In esso "Ci ha una sorgiva di acqua
puzzolente nerastra e zolfurea." Ancora oggi sono visibili i fabbricati ed i ruderi della masseria ubicata nel mezzo della Piana d’Aragona, adiacente alla strada. I lavori del ponte-acquedotto durarono circa dodici anni, essendo stati iniziati nel 1765 e completati nel 1777. Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari, viene considerato uno dei personaggi più prestigiosi della nobiltà siciliana; quinto principe di Biscari, nasce a Catania nel 1719. Egli stesso progetta e fa realizzare questa grandiosa opera nel suo feudo tanto che, assieme alla costruzione di un altro acquedotto (impiegato per portare l’acqua da un pozzo scavato a Cifali al giardino di Villa Laberinto a Catania, l’attuale Villa Bellini) e ad altre opere nel porto di Catania, si meriterà la fama di grande architetto. Ma è soprattutto la coltivazione del riso, pianta esigente in fabbisogno d’acqua, che induce la realizzazione dell’acquedotto. Fin oltre la metà dell’Ottocento il riso, cereale a semina primaverile, viene coltivato in quasi tutte le pianure fluviali della Sicilia; centri di produzione sono Lentini, la Piana di Catania, i territori del Simeto, Centuripe, Paternò, ed ancora Calatabiano, Vittoria e Bivona. Anche la terra di Carcaci, limitrofa al feudo di Ragona, assieme ad altri piccoli centri della Sicilia è conosciuta in questo periodo per la coltivazione del riso: "...hanno molto nome quelli di Carcaci a occidente dell’Etna e quello di Roccella nel lato settentrionale." (Ferrara, 1834). Pianta coltivata con successo nella nostra Isola poiché fornisce rese elevate ed un reddito di molto superiore a quello del frumento "...sino al centuplicare il suo fruttato in quei siti abbondanti di sorgive di acqua o contigui ai fiumi ove possano facilmente congegnarsi delle prese..." (La Via, 1845), la sua coltivazione durerà fino al 1877, sempre più delimitata in zone lontane dai centri abitati ed, infine, proibita per motivi di carattere sanitario. Un Regio Decreto del 1820 ne proibiva già la diffusione nei luoghi prossimi all’abitato e lungo le strade principali, incoraggiandone la coltivazione cosiddetta a “secco”. Le tecniche colturali e l’elevato fabbisogno idrico di questa pianta fanno sì che i territori dove viene diffusa diventano ben presto malarici: "Pianta paludosa ricerca acque abbondanti e stagnanti onde nudrisce la gente lontana, e ammazza quella che coltiva o che abita i paesi vicini..." (Ferrara, 1834). Tentativi di coltivare il riso a “secco”, cioè mediante sistemi di irrigazione simili a quelli impiegati per gli ortaggi, daranno scarsi risultati, soprattutto nelle rese. Nel territorio di Carcaci, dunque, a metà Settecento "...vi si numerano circa 100 case e 345 abitanti...l’aria è malefica perlochè la gente non può prosperarsi, infatti vi si contavano nel 1798 soli 251 abitanti, diminuiti sino al 1831 a 134, ed a 90 nel fine del 1852, onde è imminente un dissolvimento." (Amico, 1856). Nel 1853 vi risultano ancora coltivati a riso circa 650 ettari di terreno. La stessa Adernò, situata più a monte, risente di quest’aria malsana: pur essendo "posta sopra elevato sito ha buono aere dalla parte dell’Etna, pessimo dalla parte del fiume per le piantaggioni di riso e per la macerazione dei lini e canapi nelle sottoposte pianure bagnate da copiose acque." (Ferrara, 1834). In questi luoghi di produzione, alcune piste, mulini idraulici impiegati nella brillatura del riso, ubicate lungo il corso del Simeto, pestavano in appositi recipienti, mediante piedi di legno foderati di sughero, i chicchi di riso al fine di distaccarne la pula. L’acquedotto, come si è detto, venne completato nel 1777; le difficoltà tecniche legate al dislivello ed alla distanza tra le due sponde laviche che fiancheggiano il Fiume Simeto furono superate agevolmente attraverso la realizzazione di una serie di alti ed uniformi archi a tutto sesto, precisamente trentuno, che si sviluppavano per centinaia di metri, il principale dei quali, appena ogivato, oltrepassava l’altezza di 130 piedi (quasi 40 metri); nel complesso l’acquedotto si estendeva per una lunghezza di 1.330 piedi (circa 400 metri). Su di esso e su parte della terraferma d’ambo le sponde, venne poggiato un secondo ordine di archi che raggiunse la lunghezza di 360 canne nostrali (più di 740 metri). Il costo complessivo dell’opera fu calcolato in 100.000 scudi. Non appena completato, il ponte-acquedotto Biscari divenne meta di scrittori e viaggiatori, anche stranieri. Jean Houel, pittore ed architetto francese, dimorando in Sicilia tra il 1776 ed il 1780, avrà modo di osservare l’opera già compiuta; nel suo “Voyage pittoresque...” scrive: "Egli [il principe] ha fatto costruire un acquedotto che per ardimento e dovizia è degno di rivaleggiare con quelli romani...Si tratta di una costruzione di utilità immensa che tanto più è costata al generoso Principe in quanto ha dovuto superare difficoltà di ogni genere". Interessante si presenta il disegno dal tema “Vue de l’Aquedue d’Aragona” nel quale, oltre ad essere raffigurato l’acquedotto in tutta la sua lunghezza, l’Houel mette in risalto la fiumara dalla quale si diparte un canale (saja) che porta l’acqua ad un mulino. Il marchese di Villabianca, nel trattato sui ponti della Sicilia del 1791, definisce l’opera "...un de’ ponti più superbi e magnifici della Sicilia, per non dirsi il primo tra i medesimi...[avendo] fatto di sè comparsa così superba in Regno, come di uno de’ più eccelsi ornamenti della Sicilia...". Ed ancora, il geografo francese Elisée Reclus, nella relazione di viaggio del 1865 sulla Sicilia, descrive così la struttura: "Seguendo un piccolo e grazioso sentiero mi trovai ben tosto davanti ad uno dei più grandi monumenti della Sicilia. E’ un ponte acquedotto che meriterebbe di essere chiamato il ponte per eccellenza". Il 5 febbraio del 1781 "un colpo di furioso vento" o meglio "un violento turbine...forse accompagnato da tremuoto", abbattè la superba struttura e "...andar videsi tutto in rovina, strascinato dalla tempesta di una fiera illuvione d’acqua, che diè furia alle onde di involarlo al mare." (Villabianca, 1791). Dei trentuno archi di cui si componeva l’opera, ne rimasero in piedi soltanto sette minori. Cinque anni dopo, alla morte del principe avvenuta nel 1786, si dava inizio alla riedificazione dell’acquedotto ad opera del figlio Vincenzo, degno successore, secondo i disegni del francese Pierre Francois Léonard Fontaine, uno dei più illustri architetti del periodo neoclassico; l’esecuzione venne affidata invece all’architetto catanese Salvatore Arancio che portò a compimento l’opera nel 1791. Sul prospetto nord della grande costruzione venne addossato un ponte, del tutto simile a quelli presenti in altri fiumi della Sicilia, il quale permetteva il passaggio da una sponda all’altra alle persone ed alle bestie da soma. L’acquedotto, presente ancora al giorno d’oggi, monco in alcune parti e con vistose deturpazioni effettuate a causa dell’impiego del cemento, rimane nel territorio se non in tutta la Sicilia, un’opera ammirabile per l’applicazione delle leggi d’idraulica e per la solidità della costruzione. |
Bibliografia di riferimento | |
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Nelle foto in ordine di scorrimento: - 1)Tratto dell'acquedotto come si presenta oggi - 2) Particolare - 3) Jean Houel "Vue de l'Aquedue d'Aragona" (1780) - 4) Elisèe Reclus "Ponte d'Aragona" (1865). |