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Le note che seguono
lungi dall’essere una analisi storica o archeologica rigorosa e
condotta con gli strumenti idonei a tale lavoro, sono semplicemente
una collazione di testi, di periodo antico e contemporaneo
sull’antica città scomparsa di Engyon. Una piccola antologia della
vasta letteratura che la riguarda, mirata a sostenere una tesi, che il
sito di Engyon sia l’attuale città dell’ennese, Troina. Plutarco
nelle ‘Vite Parallele’, nel capitolo 20 della ‘Vita di
Marcello’, narra della conquista di Engyon, città greco-sicula, ad
opera dei Romani, e del modo singolare in cui questa avvenne. Scrive
Plutarco: ”In Sicilia esiste una città, a nome Enguio, piuttosto
piccola, ma molto antica e famosa per l’apparizione delle dee che
chiamano Madri. Il tempio che vi sorge si dice sia stato costruito dai
Creti. Nell’interno si mostravano al visitatore alcune lance ed
elmetti di bronzo con inciso il nome di Merione e di Ulisse, ossia di
Odisseo, che li dedicarono alle dee. Gli abitanti di Enguio erano
tutti ferventi sostenitori dei Cartaginesi; solo uno dei primi
cittadini, Nicia, cercava di convincerli a passare dalla parte dei
Romani. In assemblea sostenne apertamente e con franchezza le sue
opinioni ed accusò gli avversari di inaccortezza, finchè questi,
temendo la sua potenza e la sua autorità, complottarono per
arrestarlo e consegnarlo ai Cartaginesi. Nicia, come si accorse che di
nascosto lo si sorvegliava, cominciò a pronunciare pubblicamente
certi discorsi indecorosi sul conto delle Madri e fece di tutto per
dare a credere che disprezzava il culto e non prestava fede alla
supposta apparizione delle dee. I suoi nemici si rallegrarono,
pensando che egli fornisse da solo l’accusa più grave, su cui farlo
cadere. Quando tutto fu pronto per arrestarlo, durante un’assemblea
generale dei cittadini nicia tenne un discorso in cui diede dei
consigli al popolo, ma a metà dell’orazione si accasciò al suolo
di botto. Lasciò passare un attimo, che trascorse, come possiamo
immaginare, senza che nessuno si muovesse per lo spavento, poi cominciò
ad alzare la testa, la girò attorno e disse qualche parola prima con
voce tremula e cavernosa, poi alzando e intensificando a poco a poco
il tono. Come vide che l’uditorio era immobilizzato e ammutolito
dalla paura, gettò via la veste, strappò la tunica che aveva
indosso, balzò in piedi e si mise a correre mezzo nudo verso
l’uscita del teatro, gridando che le Madri lo incalzavano. Nessuno
osò fermarlo nè sbarrargli la strada: non lo permise la
superstizione. Si ritrassero tutti lontano da lui, che intanto varcava
la porta e usciva dalla città, non mancando di eseguire tutti gli
urli e i movimenti che fa di solito chi, invasato da uno spirito
demoniaco, esce di senno.Anche la moglie, che era al corrente del
piano e si era messa d’accordo in precedenza col marito, prese con sè
i figli e si prostrò in atto supplichevole davanti al sacello delle
dee; poi fingendo di voler arrestare il marito, che correva per i
campi, uscì sicuramente dalla città senza che nessuno glielo
impedisse. In questo modo poterono arrivare sani e salvi fino a
Siracusa, ove li accolse Marcello’ Così Plutarco riprendendo
Posidonio in un gioco di rimandi, continue dissolvenze di dati storici
e leggendarie fabulazioni,narra di quanto avvenuto ad Engion, città
dalle misteriose apparizioni, n seguito scomparsa. Il cerchio si
stringe, dalla Sicilia intera di Plutarco, alla poca distanza da Agira,
città natia di Diodoro Siculo. Questi sostiene che i cretesi
‘fondarono una città chiamata Engio dalla sorgente che scorre nella
città. In seguito, dopo la presa di Troia, quando il cretese Merione
approdò in Sicilia, essi, per la parentela che li legava, accolsero i
Cretesi sbarcati, concessero loro la cittadinanza e, avendo come punto
di partenza una città fortificata, debellarono alcuni dei confinanti
e acquistarono un territorio sufficiente.Essi si accrescevano sempre
di più, e quando ebbero costruito il tempio delle Madri, onorarono le
dee in modo straordinario, adornando il loro tempio con molte offerte.
Dicono che esse fossero state trasportate da Creta, perché anche
presso i Cretesi queste dee vengono onorate in modo straordinario...
Infine poiché la fama delle dee cresceva grandemente, gli abitanti
del luogo le onoravano di continuo con molte offerte d’oro e
d’argento... costruirono un tempio di grandezza straordinaria, non
solo, ma ammirato anche per la sontuosità della costruzione: non
avendo nel proprio territorio una buona pietra, la portarono dai
confinanti abitanti di Agirio -le città distavano circa cento stadi,
e la strada attraverso la quale era necessario trasportare le pietre
era scabrosa e completamente impraticabile-: ragione per la quale
costruirono dei carri a quattro ruote e con cento coppie di buoi
trasportarono la pietra’. La storia di Engyon ha da sempre suscitato
interesse sia per quel che riguarda la ricerca e la identificazione di
questo sito che per lo studio di un culto, quello delle dee madri,
senz’altro eccentrico rispetto alla tradizione sia greca che
siceliota. Ma è nel ‘900 che gli studi di topografia, antropologia
e storia antica danno significative, problematiche e stimolanti
risultanze. Emanuele Ciaceri, in’Culti e miti nella storia
dell’antica Sicilia ‘del 1910 identifica engion con Gangi(1),
accettando una ipotesi allora corrente, mostrandosi dubbioso sulla
‘meccanica’ introduzione del culto cretese di Rhea, cerca di
spiegarsi il senso del culto delle ‘meteres’, servendosi di un
accostamento già fatto da Timeo che in un frammento riporta quanto
detto da Pitagora, cioè che sia un rifacimento del culto siceliota
delle ninfe, divinità fluviali. Andrea Barbato, nicosiano, in
‘Engio e Imacara’, del 20, riprende -Diodoro, e sottolinea che
Engio aveva lo stesso tiranno di Apollonia (altra città scomparsa), -
Cicerone che dice non doversi trovare lontano da Apollonia e Capitium;
-Silio che la dice fondata su una rupe scoscesa, in mezzo a campi
disseminati di rocce, insomma come dice Diodoro a cento stadi da Agira
e nei pressi di una sorgente. Barbato riporta il deciso ed esatto
calcolo di Holm che Gangi dista 200 e non 100 stadi da Agira ed il suo
icastico giudizio: ’ognuno meraviglierebbe che questa osservazione
non fosse fatta per lo innanzi’, liquidando quindi quella tradizione
che per Ciaceri sembrava avere valore probante nell’identificare
Engion con Gangi); aggiunge di suo che Gangi vecchia era posizionata
su un piano, prima di venire distrutta nel 1299 da Federico
d’Aragona, per poi essere riedificata su un altopiano e non poteva
avere quindi le caratteristiche di sito costruito su un ‘luogo
forte per costruzione ‘come scriveva Diodoro. Escludendo l’ipotesi
che possa essere identificata con Troina (senza però addurre alcuna
motivazione) Barbato riprende e cerca di argomentare la tesi seconda
la quale Engion sia da identificare con Nicosia con i seguenti
argomenti: - Nicosia dista undici miglia da Agira - è situata non
lontana da Capitium ed Apollonia - è in parte su una rupe scoscesa -
è in prossimità di varie sorgenti (del fiume Salso) G. C. Canale,
docente di architettura, troinese, nel 55, in ‘Engyon, ricerche di
topografia antica nell’interno della Sicilia, nell’esaminare la
zona archeologica di troina, avvalora e sostiene la identificazione di
Engio con Troina, con una analisi scientifica e puntuale; servendosi
di strumenti concettuali atti a dedurre da indizi e osservazioni
empiriche, arriva a conclusioni che hanno valore significativo (ma che
certo non presentano la incontrovertibile dimostrabilità che solo la
ricerca archeologica può determinare). Con sicurezza si indica in
Troina, con i suoi 1120 m. sul livello del mare, e compreso in
distanza da Agira quale quella indicata da Diodoro, il sito attuale
dell’antica Engyon. Numerosi i rilievi che smontano l’ipotesi del
Barbato di una identificazione Nicosia-Engio: fa notare Canale che
questi era stato alquanto generico, parlando di varie sorgenti e non
ben definendole; continuando poi a rilevare che tale ipotesi è
insostenibile anche perchè Nicosia non presenta le caratteristiche di
‘ripidità di contorni’ ne vi è ‘un percorso tra Agira e
Nicosia che possa considerarsi aspro’ come afferma Diodoro;
esaminando la zona a sud di Troina, quel territorio di 124.436 mq.
compreso tra il monte Muganà e San Panteon, Canale trova la prima
concordanza con il racconto di Diodoro nel constatare la presenza di
un ‘torrente, in cui confluiscono le acque di una sorgente’.L’intera
zona, nota Canale, denominata ‘rusuni’ha mantenuto nel toponimo la
riduzione per diminuitivo del termine greco ‘rous’ il suffisso
siciliano ‘uni’, nel senso di piccolo corso d’acqua. Poi, nel
rilevare come nella suddetta zona archeologica, si ravvedono
dall’esame delle strutture murarie e dalle tracce di
costruzioni esistenti, quattro fasi costruttive, rileva che la prima
del IV secolo a.C. sembra essere la più idonea a essere identificata
con la città antica di Engio, dimostrando l’analisi della cinta
muraria, della squadratura delle pietre, delle tecniche di lavorazione
in genere, sicuri artifici del IV sec. a.C.. Sulla presenza in questa
città che Canale contribuisce ad identificare con Troina con elementi
importanti, di un tempio, lo studioso nota solo la possibilità,
dimostrandosi a lungo dubbioso sulla natura e consistenza del culto
delle meteres. Dubbi che sembra non avere Giacomo Manganaro, sul culto
delle dee madri, e sulla identificazione di Engio con Troina. In uno
studio del 92, sulla opera diodorea ‘Diodoro Siculo e la
storiografia classica’, lo studioso ricorda come già nel 65
analizzando ’una glans fittile [ritrovata in una campagna di scavi a
troina] con l’indicazione di fa(tria)Ekgu, da scogliere certamente
in Ekgu(inon), che è forma dissimulata di Eggu(inon)’ aveva dedotto
che il preciso riferimento era ad Engion e sebbene questo non fosse
elemento indiscutibile e prova ultima, si fosse fatto il suo
convincimento forte che engio fosse l’antica Troina. Ospite in un
convegno nella città di agira nell’ 84, lo stesso studioso
guardando in direzione di troina rafforza intuitivamente la sua idea
(2) e la sostiene con argomenti un po' nuovi, un po' vecchi ma
arricchiti da qualche testimonianza in più. Sostiene Manganaro: -
bisogna prendere in considerazione una statuina fittile, di 19 cm.,
rinvenuta in un podere del troinese cav. Ferdinando Pettinato. La
statuina è così descritta da una allieva del prof. Manganaro: ‘una
donna seduta,... sulle cui gambe stese in avanti è adagiato un
bambino nudo con le gambe divaricate tendenti al petto della madre’,
ed è da considerare rappresentazione adatta di una offerta alle dee
madri, un ex-voto di fattura locale. (Due foto della statuina, in
seguito rubata, sono riprodotte nel testo citato). - sicuro elemento
di identificazione del sito di Engyon è soprattutto quello
della circostanza secondo la quale uno stesso tiranno, Leptines,
controllasse intorno al 342 a.C.. Sia la città di Engion che quella
di Apollonia (alla seconda Timoleonte diede l’autonomia, dopo aver
catturato il tiranno). Apollonia è stata con sicurezza identificata
con Sanfratello (3). Manganaro riportando peraltro la diretta
testimonianza di Vincenzo Squillace, Sindaco in tempi passati di
Troina, attesta l’esistenza di una trazzera antica che partiva da
Troina e giungeva sino a San Fratello, via percorsa dai contadini e
ancor prima della guerra anche da tutti quelli che dovevano passare la
visita di leva a Sanfratello (4). Era quindi facile, per il tiranno
Leptines dominare sui due luoghi. Intanto Engion continua ad
interessare gli storici. E soprattutto per quel che riguarda le dee
madri. Il libro recente di Carlo Ginzburg, ’Storia notturna’,nell’obiettivo
di decifrare il sabba, il raduno delle streghe, come rito estatico,
proveniente da riti e credenze legati a pratiche remote, comuni agli
sciamani, ai popoli sciti, poi trasmessi ai celti e quindi ai greci e
da qui diffusosi dopo un lunghissimo viaggio, sia geografico che
temporale in Europa, raccoglie ed analizza miti e riti antichissimi.
Tra i tanti, proprio il culto delle dee madri di Engion. Accettando la
identificazione di Troina con Engion, sostenuta da Sir Moses Finley,
che a sua volta riprende quella classica di E. Pais, Ginzburg si
sofferma sulla provenienza cretese delle dee madri e sulla
ricostruzione genealogica complessa che questa implica. Ma rimane
ancor più colpito dal comportamento di Nicia, dal suo venire ad
essere in preda a convulsioni, mostrando un atteggiamento simile a
quello dei fedeli della dea cretese Rhea. Da qui con un salto
temporale notevole, Ginzburg ci ricorda che nel ‘500 vengono
condotti in Sicilia, dal Sant’Ufficio della Inquisizione, dei
processi contro donne che hanno incontri notturni con esseri femminili
chiamate ‘donne di fuori’. Fino all’800 continuano ad apparire
figure strane, pronte a concedere benefici a chi le segue: ’le belle
signore’. Scrive Ginzburg, ‘uomini e donne, magari abitanti in
sperduti paesi di montagna rivivono senza saperlo nei loro deliqui
notturni miti e riti giunti a loro da spazi e tempi remotissimi’,
sostenendo un perturbante rapporto di continuità tra il culto delle
dee Madri e le strane apparizioni di ‘fantasmi’ notturne, capaci
anch’esse di indurre in uno stato confusionale ed estatico chi vi si
imbatte (5). Ma quel che è notevolmente interessante è attingere dal
libro di Ginzburg il fatto che il capitolo 20 della vita di marcello e
un altro scritto di Plutarco ‘Sulla distruzione degli oracoli’
hanno dato lo spunto a Goethe per ideare la scena delle Madri del
Faust, grande capolavoro della letteratura mondiale (6). Nella II
parte, i versi 6213 e seguenti recitano: ’mal volentieri ti scopro
un altro segreto... Auguste dee troneggiano in sconfinata solitudine.
Intorno a loro, nessun luogo, e tempo ancora meno. Parlare di loro ci
si sente a disagio. Sono le Madri!... Dee sconosciute a voi mortali e
da noi non volentieri nominate. Per la loro dimora ti occorre frugar
nell’abisso... A te! Prendi questa chiave. La chiave riconoscerà il
giusto luogo. Seguila nella discesa: ti condurrà alle Madri. Un
tripode ardente ti farà infine manifesto, che tu sei giunto nel
profondo del più profondo abisso. Alla sua luce, vedrai le Madri. Le
une seggono, altre stan dritte e vanno: così come capita. Formazione
e trasformazione, gioco eterno della mente eterna, circonfuse dalle
immagini di tutte le creature. Esse non ti vedono, perché vedono
schemi soltanto. Fa cuore allora, perché il pericolo è grande. E
muovi dritto su quel tripode, e toccalo con la chiave’.
L’interesse di Goethe verso questo culto è in rapporto a quelle
immagine che sempre ricorre nel suo lavoro letterario e nel suo
pensiero dell’eterno femminino, di quella triplice dimensione della
donna, di madre-amante-figlia simbolo universale e costante presenza
nella vita umana, le dee madri di Engion raffigurate in tre donne si
prestano a questa immagine goethiana e da qui deduciamo il suo
interesse verso il culto di Engion, che diventa altissima letteratura
nel Faust, a sua volta oggetto di indagine e interpretazione dai suoi
contemporanei ad oggi. Ma l’analisi del culto delle dee madri non ci
sembra solo affascinante e avvincente in sè. Ci pare possa offrire la
possibilità di stabilire un nesso importante per aggiungere un motivo
a sostegno della identificazione Engion-Troina. Il nesso che
intendiamo stabilire è con quella che Federico De Roberto definì
‘singolare processione’, che si svolge, a Troina, la penultima
domenica di maggio di ogni anno ed è comunemente chiamata ‘festa
dei rami’. Il giovedì precedente i pellegrini( che intendono
partecipare a questa festa) si radunano a sera per iniziare un lungo
viaggio che li porterà da Troina al bosco in un luogo ritenuto sacro,
dove ognuno dei partecipanti prenderà un ramo di alloro, per poi,
dopo due giornate di ritiro sacrale nel silenzio del bosco, di
‘comunione’ spirituale con la natura e di unione ‘panica’ con
il tutto, in un viaggio iniziatico e devozionale, concludere il
pellegrinaggio con il giro del paese, dove l’alloro adorna lunghe
aste di legno o ci si adorna il corpo di rami di esso.
Questa festa è una vera e propria ‘selva’ di simboli che richiamano le ‘madri’ nel senso della simbologia materna-femminile. Ci faremo guidare da Carl Gustav Jung nella decifrazione di questi simboli. In ‘Simboli della rinascita ‘ e ne ‘Il sacrificio’, capitoli del testo di Jung, padre della psicologia analitica, ‘La libido, simboli e trasformazioni’, tutto il discorso è condotto sulla decifrazione dei simboli materni e del complesso rapporto madre-figlio nei suoi termini inconsci, individuali e collettivi; ma noi prescindendo dall’intento teorico di Jung che proprio in quest’opera fonda la sua scienza divergendo dall’impostazione psicoanalitica di Freud, constatiamo solamente, ai fini della nostra questione, come Jung, attingendo ad un vastissimo materiale mitologico affermi che quello dell’albero è un simbolo materno per eccellenza (7); che le processioni con gli alberi, le falloforie, il trasporto dell’albero, (ricorda Jung un passo di Strabone), avevano un ruolo importante nel culto di Dioniso e Demetra; ma è il mistero cristiano, la lotta spirituale di Cristo nell’orto del Getsemani, il ‘transitus’ con la croce, che permette di individuare, per Jung, il nesso tra croce ed albero come madre; tutti riferimenti che identificano una costante: l’albero. L’albero della vita è un simbolo materno, il ‘trasportare’ alberi, un viaggio devozionale alla madre (8); e ancora una messe enorme di riti-miti-tradizioni di ogni epoca che accostano l’albero alla Madre, al Femminile; la foresta è anch’essa rappresentazione simbolica della madre (9), l’area sacra dei boschi rifugio delle dee, come Diana e le (tante) altre. E allora che deduzioni possiamo fare? - il fatto che la processione dei rami sia diventata un omaggio ad un Santo cristiano, San Silvestro, il locale patrono, ci permette di dedurre che questo rito, ora cristiano, al pari di tanti altri dei quali ci parla Ciaceri, si innesta in un precedente culto, precristiano, pagano (10), e quale se non quello delle dee madri, visto che a divinità femminili erano prevalentemente rivolte le falloforie, visto che momenti, forme, ’simboli’ tutti di questa strana processione hanno un senso ‘femminile’, ’materno’? - l’esistenza di culti molto simili, di sicura impronta pagana come quello di San Fratello, la processione dei ‘muzzuni’, o la partenza dai boschi di Capizzi della cavalcata della ‘ddarata’, festa consimile a quella dei ‘rami’ che si svolge una settimana dopo, e una uguale processione di cavalli e ‘ramari’ che lì vi si svolge segnano ancora un percorso viario che ci ricorda quell’Engion che, dice Cicerone, non è lontana da Apollonia e Capitium. E ancora, la sopravvivenza, nel nostro territorio, di forme cultuali chiaramente pagane, quali i’ vicineddi’ o i ‘vicchiuneddi’, offerte votive di cibo a bambini, in diverse ricorrenze che rievocano l’onorare la divinità, il considerare i bimbi esseri quasi divini; o la consuetudine della ‘ittata di nuciddi’, il giorno della festa di San Silvestro (2 dicembre), plastica rappresentazione della semina, del gettare la noce che ha forma di seme, ma che antiche leggende dicono essere prodotto di un albero nato da una testa di donna serpente, e riprodurre quindi le sembianze di una testa, (se ne osserviamo l’interno scorgiamo infatti tre cavità che sembrano due occhi e una bocca) sembrerebbero ammiccare sempre al culto delle dee madri, che nella sua multiformità non è scomparso. In altre aree del mondo è tuttora presente. Maria Silvia Codecasa in ‘Sette serpenti’, del ’95, lunga ricerca, frutto di 15 anni di viaggio nell’Asia e nel Pacifico, sulle tracce del culto dei sette serpenti, ci racconta delle ‘septematikos’, le sette madri, dee venerate in templi e con rituali particolari da fedeli e pellegrini. In molti di questi templi, nei cerimoniali e nel contesto di queste pratiche religiose, figurano spesso gli alberi come presenze significative. Ci sorprende apprendere che anche una delle sette dee madri è ascesa in cielo diventando l’Orsa Maggiore, in modo analogo a quell’antica leggenda che abbiamo riportato a proposito delle dee di Engion. Poi un nutrito numero di accostamenti tra culto delle dee e presenza di alberi. La dea Manasa appare sull’albero sacro di Sij sotto forma di otto serpenti col cappuccio teso, ogni quindicina di luna calante, a Calcutta; le sette dee della Malesia sono celebrate come ‘principesse della palma del betel’; a Bali le sette Kensulari, dee sorelle sono la pianta del basilico. E poi, talmente tante altre analogie tra dee madri e loro rappresentazione simbolica sotto forma di alberi, da far dire all’autrice della ricerca, Codecasa, che la pianta è qualità fondamentale delle dee madri. Ma le dee Madri, culto che abbiamo visto ancora vegeto ad Oriente, sono apparse alla Codecosa, nei racconti e nelle documentazioni da lei raccolti, in forme strane, spesso come metà donna, dalla cintola in su, alla maniera asiatica con il seno di fuori e metà serpente, o con la coda di serpente o che cavalcano un animale, sia esso un pavone, cigno, uccello, accompagnate dalla presenza di un serpente, animale oggetto di culto a sè, ma che intreccia la sua vicenda, la sua funzione simbolica, con le dee. A ridosso dei resti dell’area archeologica studiata da Canale e accanto al monte dal nome alquanto indicativo di San Pantheon, vi è una colonna. Questa è chiamata ‘a cruci’, per la gran croce di ferro che la sovrasta, posta in epoca non lontana a mò di cristianizzazione di qualcosa di religioso ma pagano, presenta scolpito un busto di donna nuda, in posa asiatica con due volatili nelle mani e due serpenti, sostenuta da una coda animalesca, adornata da motivi floreali e piante che richiamano il mondo agricolo; e, poi ancora sono scolpiti mascheroni, strane forme di teschi, figure femminili alate, con coda di serpente, che richiamano Melusina, le ondine, le nereidi, le sirene, e ancora una volta, nel significato mitico, le antiche dee, ’materne e dissodatrici’, come le ha definite Le Goff, ulteriore segno di una presenza cultuale orientale e testimonianza della verità del racconto di Plutarco e Diodoro Siculo. Le dee madri di engion meritano uno studio e una riflessione, perché hanno ispirato Goethe, perché sono alla base di una interpretazione e di una ricerca che scava nel profondo della storia umana e dell’incoscio collettivo (pensiamo, tornando indietro al racconto di plutarco, alle armi di Merione e forse anche di Ulisse, custodite nel tempio delle dee, le armi, create dal Fabbro e usate dall’Eroe, il Maschile che ha bisogno ed è sacramente unito al Femminile, il tempio delle dee lo è chiaramente), dunque alla radice di quei nuclei simbolici che hanno prodotto la civiltà, la cultura, la storia dell’uomo e nella decifrazione dei quali vi è la chiave d’accesso agli archetipi profondi e irrinunciabili della vita e del percorso dell’uomo; per cui ci è sembrato che il possedere ancora questo retaggio mitico-simbolico, tradizionale e profondo, il farlo rivivere seppur in chiave diversa e dissemantizzata, valesse la pena anche farlo conoscere e sistemare in una ottica di stimolo ad una ricerca continua, poiché il nostro, paesano, patrimonio storico-mitico-culturale, come abbiamo visto, ancor che piccolo è di sicura ed eccezionale caratura universale.
Note
1) La identificazione Engion-Gangi che pur con qualche perplessità viene presentata anche da Ciaceri, è stata sostenuta da Cluverio (Sicilia antiqua, ed. in Graevius) e da Amico (Lex. Top. Sic. Palermo, 1575). 2) ’giunto nell’area con i ruderi del castello, la quale corrisponde per certo all’acropoli greca... mi è venuto di immaginare di essere Diodoro. Rievocando alcune rapide notazioni mitiche e topografiche dell’opera diodorea, quel paesaggio mi sembra animarsi dei miti familiari a lui e connettersi più strettamente con le città vicine ad Agyrion. A nord... Diodoro scorgeva i Nebrodi e la città sacra alle ‘meteres ‘,Engyon: dall’acropoli di Agyrion si illumina di certezza l’identificazione di questa città con l’odierna Troina, la quale dista da Agyrion quei cento stadi, circa 18 Km., indicati da Diodoro.....’ 3) Schubring, Bericht. Berlin. Akad. nov. 1886; Bernabò Brea Atti IV Conv.Centro Internazionale di Studi Numismatici, Napoli 1973 4) Che questa trazzera sia stata via di comunicazione anche culturale lo attesterebbero diversi eventi: i rapporti tra i conventi basiliani di Troina e Fragalà, tra i Santi, quello di Troina, San Silvestro, insigne maestro di San Cono, di Naso, l’esistenza di una Chiesa dedicata a quest’ultimo in Troina, poi andata distrutta e il presumibile pellegrinaggio di fedeli verso Naso, l’esistenza di tradizioni simili come la festa dell’alloro a Troina come a Naso, che tante analogie presenta con le feste ricorrenti nella zona circostante San Fratello. 5) Si impone qui una riflessione etimologica. Gli storici antichi e moderni, da Plutarco a Fazello, recentemente Ginzburg, riprendendo questo resoconto evidenziano il carattere estatico, fuori dell’ordinario che assume il culto delle dee; la possessione isterica che denotano i colpiti dalle ire delle divinità, che inducono, in chi ne è vittima, uno stato confusionale, un invasamento, una agitazione inspiegabile e non ben definibile. ‘Sciatere e matri ‘dicono le donne di fronte ad un avvenimento sorprendente. (‘Subito si fece per tutto ciò maraviglia e stupore d’ogn’uno un grandissimo silentio’ tra gli astanti dopo che a Nicia ‘il furore delle Matere gli era entrato addosso’ come racconta Fazello,nella sua ‘Storia della città di Engio’). Matruni. Il vocabolario Siciliano -Italiano di Tropea definisce il termine: ’voce bassa, sorta di malattia, vento morboso, flato. E si prende pure per indigestione’, il Dizionario di Mortillaro riporta oltre a mal di fianco, forte gastralgia, indigestione flato, meteorismo e fiatone il significato di isteria, ‘affirrari lu matruni, soppravvenire le convulsioni isteriche, proprie delle donne’. Il dizionario Etimologico Siciliano
di Salvatore Giarrizzo ricostruisce l’origine, ’dal lat. matrum,
gr. matron, delle madri: male proprio di chi diventa donna’.
Crediamo non si possa non pensare alle dee madri di cui narra
Plutarco, che erano in grado di suscitare strani sintomi e stati di
coscienza fuori dal normale. Ed allora è qui che va ricercato il
senso antico di questo termine, ancora largamente in uso nella parlata
dialettale, in questa accezione di malattia psicosomatica, a carattere
non organico,isterico e convulsivo. Strani sintomi affligono bambini
ed adulti, smorfie e corpi che si contorcono, l’ignoranza dei medici
e l’occhio clinico del popolo diagnosticano: ’havi i matruni’. |
Bibliografia |
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Barbato A., Engio e Imacara,
Nicosia,1920 Calasso R., Le nozze di Cadmo e di Armonia, Adelphi, Milano,1988 Canale C., Engyon, Crisafulli,1950 Ciaceri E., Culti e miti nell’antica Sicilia, Clio, Catania,1993 Codecasa M.S., Sette serpenti, Il manifesto libri, Roma,1994 Diodoro Siculo Biblioteca Storica Sellerio,1984 Goethe, Faust, Sansoni, Firenze,1966 Ginzburg C. Storia Notturna Einaudi, Torino,1994 Fazello, Storia della città di Engio, ristampato da Dafne,1980 Jung C.G., La libido, simboli e trasformazioni, Newton Compton, Roma,1993 Manganaro G., Note diodoree, in Mito Storia Tradizione ‘Diodoro Siculo e la storiografia classica’ Edizioni del Prisma, Catania,1994 Plutarco,Vite Parallelle, Einaudi, Torino,1980 |