Qualche chilometro quadrato di scogli e terra con al centro, guardando da lontano, un “ciuffetto” d’alberi. Non  verrebbe la pena neppure di segnarla, Mozia, su una cartina geografica se intorno all’ottavo secolo avanti Cristo non si fossero accorti della sua esistenza i Fenici che la scelsero, in mezzo a una laguna,  come stazione commerciale. E in effetti, a ben considerare, è innegabile la strategicità della sua posizione: lontana dalla terraferma e affacciata al mare aperto. Prima artigiani, poi commercianti, quindi navigatori e colonizzatori, dei Fenici si ha notizia a partire dal terzo millennio prima di Cristo: abitanti dei territori di Canaan, vengono citati anche nella Sacra Bibbia. A loro va certamente ascritto il merito d’aver saputo sfruttare pienamente le risorse offerte dalla zona in cui abitavano: boschi sterminati dai quali ricavarono navi robuste ma agili. Abili manufatturieri, già a quel tempo con una spiccata predisposizione per ciò che oggi chiameremmo “marketing e budget”, pensarono di allargare i propri orizzonti commerciali spingendosi per mare alla ricerca di nuovi mercati. Le navi le sapevano costruire, le tecniche di trasformazione e creazione di manufatti le avevano già sperimentate da tempo, non restava, dunque, che coniugare le due cose e diventare commercianti in senso lato: produttori e distributori, sempre all’insegna della massima espandibilità. Ecco, in breve, le esigenze che spinsero i Fenici a scoprire Mozia. E a darle anche il nome: Mozia è, infatti, un termine fenicio che significa “filanda” e nell’isola avevano, per l’appunto, impiantato numerose officine per la produzione di filati caratteristici che amavano colorare con la porpora.  Animati soltanto da esigenze commerciali, non si avvicinarono mai a una nuova terra per dominare: semmai colonizzare, ma nel senso positivo e costruttivo del termine. E se ai Fenici, per un verso, dobbiamo l’importanza archeologica dell’isolotto marsalese, è soltanto grazie alla costanza  e alla testardaggine di un ricco inglese, Giuseppe Whitaker, che oggi possiamo ammirare e conservare i resti di quell’antica civiltà. Studioso e appassionato di archeologia, Whitaker si era messo sulle tracce dei Fenici da anni, li aveva inseguiti a lungo in tutto il Mediterraneo, ma mai come a Mozia, ebbe a dire lo stesso inglese, trovò così tanto da riportare alla luce e non solo - è evidente - sul piano strettamente quantitativo: vasi in alabastro, monete, medaglie, gioielli, riconducibili a svariati stili, e poi, ciò che più conta, le rovine ben conservate nei secoli di una città fortificata. E lo “spettacolo”, al termine degli scavi, sarebbe stato per Whitaker ancora più sorprendente se non ci avesse messo lo zampino Dioniso I di Siracusa che nel 397 a.C. era riuscito a prendersi beffa del sistema difensivo dell’isola e a oltrepassare le fortificazioni e le imponenti mura fino ad allora impenetrabili per qualsiasi nemico. La costanza dell’archeologo inglese è stata premiata nel 1971 con la costituzione della “Fondazione Giuseppe Whitaker”, grazie alla quale oggi, all’interno della villa da lui abitata con la famiglia, è stato realizzato un museo fenicio.