Collina verdeggiante dal cuore di lava, tra il mare e l’Etna, un tempo ricca di vigneti, al cui posto, oggi, campeggiano, quasi ad ironizzare il nome, anonime abitazioni - quelle del paese nuovo - svela tuttavia itinerari inediti. Una località fra racconti leggendari e nuove realtà, alle porte di Catania, divenuta quasi un quartiere residenziale, ma che, ciononostante, mantiene una propria identità culturale, colma di aspetti mitici, di cui molti all’interno della comunità ne custodiscono la memoria. La tipica disposizione al cui centro si erge il Santuario - costruzione romanica risalente al XI secolo - affiancati dal convento degli agostiniani scalzi, con l’ampia piazza antistante che sostituisce l’antico bagghiu da cui si dipana il paese. Ma è oltre la piazza, fulcro della vita valverdese, che si scoprono i percorsi più interessanti. Andando in direzione sud, si può salire per ‘a chianata Nuvara, da dove inaspettatamente, all’inizio del pianoro, si scorge maestoso il vulcano attorniato dalla corte di paesi etnei e proseguendo, in alto, la frazione di Carminello, un tempo sacca di bracciantato agricolo, oggi luogo di residenza, conserva ancora in alcuni angoli l’atmosfera incantata del vecchio villaggio rurale. Le stradine tortuose e ripide, nere di pietra lavica e verdi di edera, purpuree di buganvillee, contornate a tratti ruderi di campagna e splendide ville, che, residenze estive o abitazioni permanenti, guardano dal retro il mare dei Ciclopi, la cui visione è concessa ai più, solo dai rari magnifici “bel vedere” posti ai fianchi delle vie, o , a ridosso di piccole chiese di campagna nella contrada di Monte d’Oro, al culmine dell’altopiano. Discendendo per le ripide trazzere, immersa nel verde della macchia mediterranea, una sorgiva, quella dell’acqua di Casalrosato, cui un tempo si attribuivano virtù taumaturgiche, nonché, secondo l’immaginario popolare addirittura miracolose. Attualmente, però, le sue acque non vengono utilizzate, almeno a questi fini, da quando sono state rinvenute tracce di inquinamento dovuto ai concimi chimici e agli scarichi industriali.

Non molto distante, proseguendo nella stessa direttrice, finalmente si raggiunge, tra svettanti pioppi, mistici ulivi e ombrose querce, ‘a funtana, luogo mistico e leggendario, e nello stesso tempo suggestivo. Lì, da un vecchio lavatoio, sgorga la sorgente del miracolo, la stessa in cui secondo la leggenda apparve la Vergine e di fronte si trova la sacra edicola, meta privilegiata dai pellegrinaggi nei giorni in cui ricorre l’apparizione, quotidianamente accoglie nel silenzio speranze votive. Inoltrandosi poi per la via Caramme, verso il territorio delle “Aci”, si incontra l’Eremo di S. Anna attorniato dalla splendida vista sul mare, oggi, quasi del tutto abbandonato e obiettivo ”colonialistico”, pare, di ambiziose compagnie che vorrebbero la trasformazione del luogo in un villaggio turistico. Sebbene l’Eremo ricada sotto la giurisdizione del comune di Aci Catena, per motivi geografici e culturali è stato da sempre assimilato a Valverde, divenendo insieme al Santuario di S. Maria un altro polo fondamentale della religiosità. La dolcezza del clima, il verde della natura e la bellezza del paesaggio che si gode dalla collina, hanno fatto inoltre, del nostro piccolo centro, un soggiorno alla moda, negli anni fra la fine del ‘800 e gli inizi del ‘900, per nobili famiglie catanesi spinte dalla calura estiva a trasferirsi verso luoghi più freschi e salubri non troppo distanti dalla città. A testimonianza di quegli anni restano le bellissime costruzioni: Villa Scammacca, Villa Biscari, Villa Grimaldi, Villa Calì, che ancora oggi ornano gli itinerari paesaggisticamente più significativi.

La festa e la leggenda.

L’ultima Domenica del mese di Agosto ricorre la festività della Vergine, patrona di Valverde. La festa si articola in tre giorni. Tra archi di luminaria e fuochi d’artificio è tutt’un tripudio di colori accompagnato dal suono delle campane, delle bande e dal ciarlare della folla festante che si fonde a momenti alle urla di venditori di calia, crispelle e soprattutto acciughe. E’ l’acciuga il simbolo della festa, il cibo della devozione, come dicono i vecchi. L’acciuga unico sostentamento - in altri tempi - dei pescatori della vicina Aci Trezza, rappresenta un dono che questi offrivano alla Santa per propiziarsi la protezione della divinità durante la stagione invernale ormai prossima a venire. Ma il giorno più importante dei tre è il Venerdì, giorno del pellegrinaggio alla “fontana” e di vero sentire religioso e coinvolgimento popolare. Un fiume di fiaccole si snoda lentamente sorrette da pellegrini in preghiera fino al luogo in cui accadde il miracolo. In quel punto così narra la miracolistica, avvenne l’apparizione della Madonna a Dionìsio, terribile brigante - forse, un personaggio realmente vissuto, probabilmente la leggenda ha tratto ispirazione dalla vicenda di un ex soldato dell’esercito del generale bizantino Giorgio Maniache rifugiatosi in quelle zone in seguito ad un episodio di tradimento e dedicatosi al brigantaggio - Costui batteva la verde collina in cerca di viandanti da saccheggiare fino a che non si imbattè in Egidio, pio pellegrino. Il brigante aggredisce e deruba Egidio, sta per ucciderlo, quando la voce di una donna gli ordina per tre volte di fermarsi. Accortosi della presenza divina, Dioniso libera la vittima. Ne segue come di consueto il pentimento e l’edificazione del Santuario laddove uno stormo di gru mandato da Maria si riunisce a formare una corona. Dioniso, nella caverna dove dimorava, trova una sorgente d’acqua che gli permette la costruzione del tempio. Ma, un anno dopo, durante la preghiera, una seconda apparizione della Madonna con il Bambino in grembo lascia la sua impronta sul pilastro della chiesa, la stesso in cui è tuttora possibile trovare l’icona riccamente ornata sulla sinistra della navata. La leggenda prosegue ancora in vari racconti, connessi sempre all’edificazione del Santuario e le difficoltà incontrate nella costruzione durante la quale l’intervento salvifico della Vergine Maria preserva da ogni pericolo di interruzione. Il culto della Madonna si perpetua nei tempi grazie all’icona gelosamente custodita nel Santuario a Lei dedicato, da cui la storia del paese, una storia fatta di quotidianità senza eventi eccezionali, ha tratto il suo prestigio e la sua identità. L’immagine della Madonna di Valverde, oltre per la particolarità dei suoi bellissimi tratti, viene identificata per la sua piccola gru che tiene insieme al figlio in un gesto protettivo. La gru, messaggera di Maria, è infatti il simbolo di Valverde. E’ sempre su quest’ultima che altre leggende e racconti scaturiscono dalla fantasia popolare. Tra i tanti, quello di uno stormo di gru che ogni anno nel mese mariano si fermavano al di sopra della chiesa, formando in volo una grande emme in onore e simbolo di Maria. Questi uccelli - di passaggio nella zona, il cui volo vorticoso può ricordare la lettera emme - furono allontanati definitivamente dall’avvento della caccia con armi  da fuoco e dalla progressiva urbanizzazione. Le leggende forniscono di fatto ampie informazioni o conferme su quella che è la storia economica e antropologica della comunità e sulle risorse del territorio. Situata a pochi chilometri dal mare, sin dal Medioevo doveva costituire una zona di transito per gli scambi fra i vari agglomerati rurali che andavano popolando il bosco di Aci e di cui anche Valverde faceva parte. La sua origine è legata probabilmente alle scorrerie saracene che minacciavano la costa acese costringendo la popolazione a rifugiassi più in alto, in una zona si piena d’insidie, ma ricca di falde acquifere. L’acqua - elemento vitale, legato da sempre, alla miracolistica tradizionale - rafforza il culto sacrale contribuendo con molte probabilità alla sua diffusione. Non a caso le virtù taumaturgiche dell’acqua sono spesso associate ad eventi miracolistici e viceversa. Nel nostro caso, infatti, il mito testimonia ampiamente della fertilità del terreno non solo dal punto di vista agricolo ma anche paesaggistico, confermata poi dalla complessità delle credenze solitamente ispirate dalla amenità dei luoghi. Oltre al Santuario, Valverde vanta altre importanti chiese: La chiesa della Misericordia, ricostruita dopo il terremoto del 1693 dalla confraternita cinquecentesca di S. Maria della Misericordia, tutt’oggi operante come centro assistenziale, di volontariato; la chiesa di S. Maria delle Grazie del 1714 in contrada Maugeri; San Filippo d’Agira, fondata nel 1500 dal nobile catanese don Alvaro Paternò.

 

L’antica economia.

Vasti feudi coltivati a vigne rivestivano il suolo che circondava ‘u bagghiu”, terreno in terra battuta prospiciente la chiesa madre che oggi anno ospitava la fiera franca. In quell’occasione e nei giorni delle più note ricorrenze religiose, forni in pietra ardevano incessanti e quasi in atto sacrificale, carni spezziate venivano convivialmente consumate e innaffiate abbondantemente con il forte vino di queste terre. Antichi rituali di civiltà contadine, dove la fede Cristiana si orna di paganesimo, di cui scarsi elementi residuali, ormai folclorici si riscontrano a fatica nelle odierne feste patronali. Il vino, protagonista indiscusso di ogni forma di ritualità, rappresentava fino ad inizio secolo la principale fonte economica della verde valle. I “vigneri” e i “mostai”, infatti, erano i mestieri più ricorrenti ed era qui che si trovavano i più rinomati della zona dell’acese.

Cenni storici.

La vicenda storica di Valverde si inserisce in quella di Aci e del suo castello. Nel 1400 entrò a far parte dell’università di Aci e quindici anni più tardi Ferdinando di Castiglia inviò suo figlio in qualità di viceré. Nel 1640, la contrada dei “vigneri” venne ad integrarsi con il territorio delle nuove città dei SS. Antonio e Filippo, fino a quando fu inviato quale vicario generale don Stefano Riggio, la cui famiglia dominò per oltre un secolo ottenendo il titolo onorifico di duchi di Valverde. Tuttavia, malgrado il passato contrassegnato da una notevole caratterizzazione culturale, come fulcro di religiosità, la piccola contrada etnea ottenne il riconoscimento di comune autonomo solo nel 1951, in seguito a vicende di lotta locale di cui non mancano ricordi e gustosi aneddoti.

 

L’Eremo di Sant’Anna.

Posto sul fianco di una verde altura, fra le cittadine di Valverde, Aci Sant’Antonio, Aci Bonaccorsi e Aci Catena, cui appartiene geograficamente, in contrada San Filippo, sorge l’edificio di Sant’Anna, composto dalla Chiesa e dell’attiguo convento. Circondato da un incantevole panorama, si scorgono come a catena molti paesini e contrade del territorio acese, immersi nel verde di una valle dolcemente scoscesa, al cui fondo si delinea il tratto di mare di Capo Mulini. Allungando lo sguardo ad oriente, oltre i tetti e le cupole della più regale delle Aci, si distinguono, nelle giornate limpide, le vette della vicina Calabria; mentre a nord, sorge, prepotentemente l’Etna. La storia dell’Eremo è strettamente connessa alla vicenda del suo fondatore fra’ Rosario Campione da Acireale, il quale, scelta in giovane età la vita monastica, si ritirò in contemplazione all’età di ventisei anni nella chiesetta di Loreto ad Acireale, peregrinò nei vari conventi e monasteri, fino a che, rispondendo al suo desiderio di solitudine, non gli fu ordinato da un suo superiore e consigliere spirituale, padre Mariano Patanè, di trasferirsi nella piccola chiesa di Sant’Anna nel quartiere di Aci San Filippo. Era questa una chiesetta abbandonata rivestita di edera che penetrava all’interno, già adibita ad un monaco cieco che viveva di elemosina. Solo più tardi, in seguito ad una donazione di un piccolo appezzamento nel territorio di Aci Trezza, da parte del sac. don Ciantro Finocchiaro, cantore della Collegiata di Aci San Filippo, il monaco intraprese l’opera a lui destinata di dare inizio all’Eremo di Sant’Anna. L’opera fu inziata da una grande cisterna per favorire i bisogni della comunità che nel frattempo andava formandosi. I lavori furono condotti senza aiuto di alcun architetto, solo in seguito, vennero in aiuto ai monaci due esperti muratori, Alfio e Concetto Grasso, padre e figlio. Anche la chiesa all’interno, con il suo splendido altare maggiore, che si distingue per i magnifici lavori in rame e marmi policromi, fu realizzata interamente da due valenti frati artigiani: fra’ Vincenzo Musumeci, per i lavori in rame, e fra’ Raffaele Badalà, meccanico e cesellatore. Sempre agli stessi si devono inoltre, le opere riguardanti la realizzazione della campana grande e delle piccole dell’orologio nonché vasi di creta e smalto cesellati a fuoco, insieme alla splendida pavimentazione che porta lo stemma episcopale di Monsignor Ventimiglia, vescovo di Catania e benefattore della comunità di Sant’Anna. L’intera opera fu portata a compimento nel 1756, come appare dalla data scolpita sotto la chiave dell’arco della porta dello stesso edificio, mentre la chiesetta originaria, pare sia ormai accertato, risalga al secolo XVI. Oggi, purtroppo, forse anche a causa della crisi devozionale, l’Eremo rimane semi abbandonato e difficilmente si riesce a visitare, per quanto, la bellezza del panorama e la magnificenza delle opere d’arte rappresenterebbe, come di fatto ha rappresentato, insieme al santuario di Valverde, un’importante meta turistico-culturale oltre che spirituale.

 

Il dono, il sangue, l’agnello.

Il giorno precedente la ricorrenza dell’apparizione - che si celebra in maniera solenne la sera dell’ultimo sabato del mese di agosto - dopo il pellegrinaggio alla “funtana”, luogo in cui secondo la leggenda avvenne il miracolo, si consuma in atto devozionale, l’acciuga; condita con olio, aceto e pepe, accompagnata da pane fragrante di grano duro (possibilmente appena sfornato) rappresenta il dono dei pescatori del vicino villaggio di Aci Trezza alla Santa. L’acciuga, pesce povero ma nutriente, una volta trattato col sale, costituiva la fonte principale di sostentamento invernale della gente di mare della vicina Aci trezza, mentre il vino come sempre accompagnava in abbondanza il convivio onde attenuare la sete che la salamoia rendeva crescente. Tra risa e baldoria, si concludeva in questo modo la serata del venerdì, cui faceva seguito un sabato di commozione e preghiera almeno fino alla sera, quando, finita la processione, ci si riuniva all’aperto a mangiare il castrato che fino agli inizi del secolo scorso veniva preparato in grandi forni a pietra situati nel porticato che allora circondava la casa. La carne, sapientemente unta in olio d’oliva, veniva “abbuttunata” con spezie odorose tra cui campeggiava il pepe nero in grossi grani e qualche volta l’aglio, in piccole dosi, intervenivano a spezzare l’afrore tipico dell’animale. Ad ultimare la cena oltre al consueto vino, l’anguria dalla polpa fiammante ma dal gusto fresco e dissetante spegneva l’arsura che seguiva il luogo e abbondante pasto, inconsueto, soprattutto, della maggior parte dei partecipanti. Il rosso dell’anguria così come il vino rimanda per analogia cromatica al sangue, assumendo qui, un significato fortemente simbolico, che abbinato alla carne d’agnello, metafora sacrificale per eccellenza, purifica dagli ardori che la festività stessa suscitava, visto che in molti casi non mancava il vilipendio rivolto alle divinità, cui faceva seguito, come di consueto, il dovuto pentimento, da espiare magari durante la cerimonia della domenica mattina, stritolati in abiti e calzatura smaglianti, riservati per l’occasione. Ancora oggi, l’acciuga, il catrato e l’anguria rappresentano gli elementi tipici della festa e insieme si identificano con il paese stesso, con la tradizione valverdese. Attualmente però, il castrato viene consumato solo in famiglia o fra amici, mentre all’acciuga è stata dedicata la domenica che precede la festa (secondo la tradizione la festività ricorre l’ultima domenica) giorno in cui si svolge una sagra che raccoglie un vasto pubblico, in particolare i giovani di tutto il circondario.