Guy De Maupassant fu uno dei pochi a raggiungere, nel suo viaggio del 1885, la "perla del Mediterraneo" facendone una descrizione su periodici parigini. Nel 1890 il "Viaggio in Sicilia" diventa un capitolo del suo più ampio volume di memorie di viaggi dal titolo "La vie errante". Il suo itinerario, che parte da Palermo, Monreale, attraverso i templi greci di Segesta, Selinunte ed Agrigento, comprende anche una tappa a Vulcano ed infine giunge sino all'Etna. Riportiamo per intero la descrizione della sua ascensione.

 

"Ripartiamo comunque verso Catania, da dove voglio scalare il vulcano. Ogni tanto, tra due monti, lo si scorge, con la cima avvolta da una nube immobile di vapori fuorusciti dal cratere. Dappertutto, attorno a noi, il suolo è scuro, color bronzo. Il treno corre su una costa di lava. E tuttavia il mostro è lontano, a trentasei o forse quaranta chilometri. Si capisce allora quanto sia enorme. Dalla sua bocca nera e smisurata, ha eruttato ogni tanto un fiotto infuocato di bitume che, scorrendo sulle sue pendici dolci o ripide, colmando le valli, seppellendo villaggi, annegando uomini come un fiume è venuto a spegnersi nel mare, respingendo davanti a sè. I flutti lenti, densi e rossi, scuritisi man mano che indurivano, hanno creato strapiombi, montagne, burroni, hanno esteso intorno all’immenso vulcano, una contrada nera e bizzarra, screpolata, ondulata, tortuosa, inverosimile, disegnata dalle stramberie delle eruzioni e dalla spaventosa fantasia delle lave bollenti. Succede che l’Etna rimanga tranquillo per secoli e si limiti a soffiare in cielo il denso fumo del proprio cratere. Allora, sotto l’azione delle piogge e del sole, le lave delle antiche colate si polverizzano, diventano una specie di cenere, di terra sabbiosa e nera, in cui crescono ulivi, aranci, limoni, melograni, vigneti, messi. Nulla è più verde, più aggraziato, più carino di Acireale, in mezzo ad un bosco di aranci ed ulivi. Poi, a volte, attraverso gli alberi, si scorge nuovamente una larga ondata nera che ha resistito al tempo, che ha conservato la forma di tutti i ribollimenti, contorni straordinari, sagome di animali allacciati, di membra contorte. Ecco Catania, vasta e bella città, interamente costruita sulla lava. Dalle finestre del Grand-Hotel, scopriamo tutta la vetta dell’Etna. ...Grazie alla straordinaria gentilezza del sig. Ragusa, socio del Club Alpino e proprietario del Grand-Hotel, effettuammo con estrema facilità l’ascensione del vulcano, ascensione un po’ faticosa, ma per nulla pericolosa. Una vettura ci condusse dapprima a Nicolosi, attraverso campi e giardini pieni di alberi cresciuti nella lava polverizzata. Di tanto in tanto, si attraversano enormi colate interrotte dal taglio della strada, mentre ovunque il suolo è nero. Dopo tre ore di marcia in salita moderata, si giunge all’ultimo villaggio ai piedi dell’Etna, Nicolosi, situato a ben 700 metri di altitudine ed a 14 chilometri da Catania. Lì, si lascia la vettura per prendere guide, muli, coperte, calzettoni e guanti di lana, poi si riparte.

Sono le quattro del pomeriggio. L’ardente sole dei paesi orientali picchia su questa terra strana, la riscalda rendendola infuocata. Gli animali procedono lentamente, con passo spossato, nella polvere che si innalza tutt’attorno come una nuvola. L’ultimo, che porta i pacchi e le provviste, si ferma continuamente, sembra desolato dalla necessità di rifare, ancora una volta, l’inutile e penoso viaggio. Attorno a noi, vediamo adesso dei vigneti, vigneti piantati nella lava, alcuni giovani, altri vecchi. Poi, ecco una landa, una landa di lava coperta di ginestre fiorite, una landa dorata; quindi, attraversiamo l’enorme colata del 1882; e rimaniamo senza fiato di fronte a questo fiume immenso, nero ed immobile, ribollente e pietrificato, venuto da lassù, dalla cima fumante, così lontana, lontanissima, a circa 20 chilometri. Questo fiume ha seguito delle valli, contornato dei picchi, attraverso pianure; ed eccolo ora accanto a noi, arrestato di colpo nella sua marcia quando si è esaurita la sorgente di fuoco. Saliamo, lasciando a sinistra i monti Rossi e scoprendo continuamente altri monti, innumerevoli, chiamati dalle guide i figli dell’Etna, spuntati attorno al mostro, che porta così una collana di vulcani. Sono circa 350, i neri figli dell’avo, e molti di essi raggiungono le dimensioni del Vesuvio. Attraversiamo un magro bosco, cresciuto pure sulla lava, e ad un tratto si alza il vento. Prima è un soffio brusco e violento seguito da un momento di calma, poi una raffica furiosa, appena interrotta, che solleva e trascina via un nuvolone di polvere. Ci fermiamo dietro una muraglia di lava per attendere, nonostante il perdurare della tempesta. E, a poco a poco, il freddo ci prende, quel freddo penetrante delle montagne, che gela il sangue e paralizza le membra. Sembra nascosto, in agguato nel vento; punge gli occhi e morde la pelle col suo morso di ghiaccio. Andiamo avanti, avvolti nelle nostre coperte, interamente bianchi come Arabi, con i guanti alle mani, con la testa coperta, lasciando camminare in fila i nostri muli che inciampano nel sentiero aspro ed oscuro. Ecco finalmente la Casa del Bosco, specie di capanna abitata da cinque o sei boscaioli. La guida dichiara che è impossibile procedere oltre sotto un simile uragano e chiediamo l’ospitalità per la notte. Gli uomini si alzano, accendono il fuoco e ci offrono due scarsi pagliericci che paiono contenere soltanto pulci. Tutta la capanna freme e trema sotto l’infuriare della tempesta, mentre l’aria gelida filtra dalle tegole sconnesse del tetto. Non vedremo lo spuntare del sole dalla cima della montagna. Dopo alcune ore di riposo insonne, ripartiamo. Il giorno è sorto e si placa il vento. Attorno a noi si estende ora una regione nera e ondulata, che sale dolcemente verso la zona delle nevi che brillano, accecanti, ai piedi dell’ultimo cono, alto 300 metri. Benchè il sole si alzi in un cielo interamente azzurro, il freddo, l’implacabile freddo delle grandi cime, ci intorpidisce le dita e ci brucia la pelle. I nostri muli seguono lentamente, uno dietro l’altro, il sentiero tortuoso che aggira tutte le fantasie della lava. Eccoci al primo pianoro di neve. Lo evitiamo con una deviazione. Ma eccone subito un altro che dobbiamo attraversare in linea retta. Gli animali esitano, lo saggiano col piede, avanzano con precauzione. All’improvviso, ho la brusca sensazione di essere inghiottito dal suolo. Le due zampe anteriori del mio mulo, bucando la crosta sulla qual procediamo, sono affondate fino al pettorale. L’animale si dibatte, impaurito, si rialza, sprofonda nuovamente con le quattro zampe, si rialza ancora per ricadere sempre. Gli altri fanno altrettanto. Dobbiamo saltare a terra, calmarli, aiutarli, trascinarli. Ad ogni momento, affondando così fino al ventre in quella spuma bianca e fredda in cui anche le nostre gambe penetrano a volte fino alle ginocchia. Tra questi passaggi di neve che colmano le vallate, ritroviamo la lava, grandi spiazzi di lava simili ad immensi campi di velluto nero, che brillano al sole con lo stesso splendore della neve. E’ la "regione desertica", la regione morta, che pare a lutto, bianchissima e nerissima, accecante, orrenda e superba, indimenticabile. Dopo quattro ore di marcia e di fatica, raggiungiamo la Casa Inglese, casetta di pietra, circondata dal ghiaccio, quasi sepolta sotto la neve ai piedi dell’ultimo cono che spunta lì dietro, enorme e ripido, coronato di fumo. Normalmente, si trascorre qui la notte, sulla paglia, per andare a vedere sorgere il sole dall’orlo del cratere. Lasciamo i muli e cominciamo a scalare la parete spaventosa di cenere indurita che cede sotto i passi, in cui non si può trovare una presa, trattenersi a nulla, in cui si ridiscende di un passo ogni tre. Si avanza sbuffando, ansimando, affondando nel suolo molle il bastone ferrato, fermandosi di continuo. Si deve allora puntare il bastone tra le gambe per non scivolare giù, perchè la pendenza è così ripida che non si può neanche rimanere seduti. Occorre circa un’ora per superare questi trecento metri. Già da qualche tempo, dei vapori di zolfo ci irritano la gola. Abbiamo visto, sia a destra che a sinistra, grandi sbuffi di fumo che escono dalle spaccature del terreno; abbiamo poggiato le mani su grosse pietre brucianti. Finalmente, raggiungiamo una stretta piattaforma. Davanti a noi, una spessa nube si solleva lentamente come un sipario bianco che si innalza, che esce dal suolo. Avanziamo ancora di qualche passo, col naso e la bocca protetti per non essere soffocati dallo zolfo, e, improvvisamente, si apre davanti a noi un abisso prodigioso, spaventoso, di circa cinque chilometri di circonferenza. Si stenta a distinguere, attraverso i vapori soffocanti, l’altro lato della mostruosa voragine, larga 1500 metri, la cui parete verticale sprofonda verso il misterioso e terribile paese del fuoco. La bestia è calma. Dorme là in fondo, proprio in fondo. Solo il denso fumo esce dal prodigioso camino, alto 3.312 metri. Attorno a noi, lo scenario è ancora più strano. Tutta la Sicilia è nascosta da brume che si fermano vicino alla costa e velano unicamente la terra, di modo che ci sentiamo in pieno cielo, in mezzo ai mari, al di sopra delle nuvole, così in alto, talmente in alto che pure il Mediterraneo, che si estende ovunque a perdita d’occhio, sembra essere il cielo azzurro. L’azzurro quindi ci avvolge da tutte le parti. Siamo in piedi su un monte sorprendente, uscito dalle nuvole ed annegato nel cielo che si stende sulle nostre teste, sotto i nostri piedi, dappertutto. A poco a poco, tuttavia, le nubi diffuse sull’isola si innalzano attorno a noi, chiudendo ben presto l’immenso vulcano in un cerchio, in un abisso di nuvole. Adesso, siamo, a nostra volta, in fondo ad un cratere tutto bianco, da cui si scorge il firmamento azzurro solo lassù, guardando in alto. Mi dicono che, in altri giorni, lo spettacolo è completamente diverso. Aspettiamo lo spuntar del sole che appare dietro le coste della Calabria. Esse proiettano la loro ombra lontano sul mare, fino ai piedi dell’Etna, il cui profilo scuro e smisurato copre l’intera Sicilia col suo immenso triangolo, che svanisce man mano che si alza l’astro. Si ammira allora un panorama di più di 400 chilometri di diametro e 1.300 di circonferenza, con a Nord Italia e le isole Lipari, i cui due vulcani sembrano salutare il proprio padre; poi esattamente a Sud, Malta, appena visibile. Nei porti della Sicilia, le navi sembrano insetti sul mare. Di questo spettacolo, Alessandro Dumas padre ha fornito una descrizione felice quanto entusiasta. Ridiscendiamo, parte scivolando, parte a piedi, il cono ripido del cratere, ed entriamo presto nella densa corona delle nubi che avvolgono la cima del monte. Dopo un’ora di marcia attraverso le brume, l’abbiamo finalmente valicata; scopriamo sotto di noi l’isola frastagliata e verde, con i golfi, i promontori, le città e il gran mare azzurro che la abbraccia."