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Sto rileggendo il libro del prof. Ottavio OTTAVI , che fu
direttore della cantina Sperimentale di Casalmonferrato e del Giornale
Vinicolo Italiano, intitolato “Enologia teorico-pratica” e stampato nel 1882
nella tipografia Carlo Cassone di casale Monferrato.
Ho trovato questo libro nella mia vecchia casa di campagna a Motta Camastra,
ove mio nonno mi diceva che all’epoca la casa era circondata da un vigneto
di circa 12 ettari e lui era ormai l’unico proprietario dell’enorme palmento
che si trovava sulla strada “carrozzabile” con annessa cantina ove mi
ricordo da bambino erano presenti otto enormi botti dove ci entrava una
persona intera in piedi.
Alla fine dell’800 la filossera distrusse praticamente tutte le piante di
vite.
Solo quest’anno ho cercato di riprendere uno degli ultimi ceppi di vite che
erano rimasti da allora e vedremo se riuscirò a riprovare le stesse
sensazioni olfattive e gustative ancora impresse nella mia memoria.
La vite è forse la pianta più antica della Sicilia, risalente all’Era
Terziaria, come testimoniano le viti “ampelidi” ritrovate alle falde
dell’Etna e nell’Agrigentino.
Poi, allorquando sull’isola sbarcano i Fenici, già profondi conoscitori
della vite, all’incirca nel 2.000 a.C., si iniziò l’uso di fare il vino.
Quindi, i greci, i Romani e via via tutte le dominazioni passate sulla
Sicilia, hanno sviluppato la viticoltura.
Nel 1773, grazie al commerciante inglese John Woodhouse e della sua
ingegnosa idea di commercializzare su scala industriale i vigorosi vini di
Marsala, il vino della Sicilia fu conosciuto in tutto il mondo.
Nonostante il dimezzamento delle coltivazioni causato alla fine dell’800
dalla filossera, lentamente la coltivazione della vite in Sicilia e
ritornata a livelli quantitativi notevoli, ma la produzione di vini è stata
fortemente limitata, se non per quel che riguarda quelli ad alta gradazione,
rivelatisi utilissimi ha sostenere la scarsa consistenza di vini prodotti
nel nord Italia e nella Francia.
Oggi in Sicilia, anche se si coltivano quasi tutti i vitigni, di quelli
autoctoni, rimangono, fra i bianchi: Albanello, Insolia o Ansonica,
Carricante, Cataratto bianco, Damaschino, Grecanico dorato, Grillo,
Malvasia, Minnella bianca, Moscato bianco, Zibibbo o Moscato di Alessandria;
e fra i rossi: Alicante, Corinto nero, Frappato, Nerello Cappuccio, Nerello
Mascalese, Nero d’Avola, Nocera, Perricone.
Da qualche decennio, alcuni temerari, quanto lungimiranti imprenditori del
vino, soprattutto affascinati dalla sensazionali bellezze della nostra
Sicilia, sono giunti per portare la loro sapienza del vino, la loro cultura
del vino e la loro fantasia del vino, quasi nello stesso momento in cui i
nostri anziani ancora innamorati delle loro terre del vino, per motivi
sopratutto anagrafici, se ne stavano separando.
Limitando il discorso alla zona dell’Etna, ad esempio, Mick Hucknall,
cantante leader dei Simply Red, possiede vigneti a Sant’Alfio.
A Solicchiata, una frazione di Castiglione di Sicilia, ha impiantato il suo
vigneto anche Rosario Messina, l’imprenditore siciliano, famoso in tutto il
mondo per la produzione di divani e poltrone marate “Flou”.
Sempre a Solicchiata Frank Cornelissen ha scoperto che il vino viene ben
affinato come facevano i nostri avi per evitare soprattutto le violenze
dell’alta temperatura climatica, facendolo riposare in anfore sotterrate a
fil di pavimento, e (secondo lui) in modo tale che “il vino assorba meglio
tutta l’energia che la terracotta emana” perché “il vino è figlio della
terra, del vigneto, della passione e del tempo”: poca ma ottima produzione.
Su questa onda, a Randazzo anche Alberto Tasca d’Almerita possiede 18 ettari
dei suoi vigneti, ritenendo che siano “un’oasi incantata ai piedi dell’Etna,
dove la sabbia nera vulcanica si fonde con il verde della vegetazione
prossima alle Gole dell’Alcantara. Questa è la Sicilia etnea, terra madre di
grandi vini e sicuri successi. Una zona che, insieme al Piemonte e alla
Borgogna, è da sempre ritenuta terra di massima vocazione per la viticoltura
e per la produzione di vini longevi”.
Ma il futuro dei vini dell’Etna (e dell’intera Sicilia) deve essere diverso.
Alla forza delle idee, deve essere abbinata la sostanza del prodotto: ciò
può essere ottenuto solo attraverso la individuazione di cru, alla
definizione di disciplinari di produzione condivisi da fare rispettare al
massimo, per garantire la costanza della migliore qualità definita nei
disciplinari di produzione. E ciò porterà i grandi nomi dell’enologia
internazionale, non solo ad avvicinarsi coraggiosamente ai vigneti
dell’Etna, ma probabilmente li “obbligherà” ad interessarsene e ad
intervenire sempre più numerosi, in una sana e leale competizione per il
miglioramento continuo della qualità e di quant’altro questa possa portare.
Un grazie quindi va al mio amico siracusano geometra Salvatore Scarso, che
dieci anni fa ha indirizzato il signor Andrea Franchetti (nella foto), ad
acquistare una cantina ormai abbandonata, che oggi è divenuta uno dei punti
di riferimento culturale per l’enologia etnea e che sta cercando di
concretizzare e sviluppare il suddetto imperativo.
Andrea Franchetti ama dire:«I viticultori sull’Etna nei loro minuscoli
appezzamenti facevano la migliore viticoltura d’Italia e il vino nemmeno lo
facevano: il contrario di quello che succede nel resto d’Italia».
Il suo nerello mascalese “Passopisciaro 2005” si è aggiudicato 95/100 sulla
rivista The Wine Advocate di Robert Parker, risultando tra i 50 migliori
vini dell'anno.
Questo disegno, questa volontà traspare dall’atmosfera che si vive ogni
volta che Andrea Franchetti nella sua cantina organizza (quest’anno è stata
la terza volta) “Contrade dell’Etna” una manifestazione annuale dei
produttori di vino dell’Etna (quest’anno erano in 38), con esposizione ed
assaggio delle loro produzioni di vino, che quest’anno ha avuto come tema il
nerello mascalese, con degustazione gastronomica finale di suino nero dei
Nebrodi e formaggi locali.
Il niuriddu mascalisi (in siciliano) è un vitigno che da tempo immemorabile
cresce nella zona dell'Etna in provincia di Catania, e, nella zona di Capo
Faro in provincia di Messina. Esso concorre per l'80% - 100% alla produzione
del vino Etna Doc; per il 45% - 60% alla produzione del vino Faro Doc.
Presumibilmente ha legami con gli antichi vini dell'Etna celebrati da Omero
e dagli storici latini.
Il nome del vitigno è legato al fatto che da secoli viene coltivato nella
zona della storica Contea di Mascali, un vastissimo territorio che, a
partire da alcune donazioni normanne del XII° secolo e fino ai primi
dell’‘800, comprendeva, oltre all’attuale comune di Mascali, parte della
zona di Acireale, gran parte delle falde orientali e nord–orientali
dell’Etna e persino molte vallate del messinese.
La grande vigoria del Nerello Mascalese è fortemente condizionata,
sull'Etna, dall'annata, dalla zona in cui viene coltivato, dal sistema
d'allevamento, dalla densità d'impianto e dalle pratiche colturali
impiegate. Questo comporta una notevole variabilità qualitativa delle uve a
maturazione, specie a carico d'alcuni costituenti polifenolici, ma determina
un ventaglio di soluzioni possibili, tutte molto interessanti quando ben
concepite.
Il Nerello Mascalese andrebbe abbinato a piatti succulenti ed aromatici:
ragù, spezzatini di carne, stoccafisso e tonno.
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