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La Sicilia, tocca constatare a Giorgio Caproni, è lontana; ancor di più lo è
una città interna come Caltanissetta ‘terribilmente lontana da Roma per chi
non ha abbastanza soldi da prendere l’aereo o il rapido’. Ciononostante lo
scrittore livornese, nel luglio del 1961 si avventura in treno verso la
città siciliana,
raccontando
del suo viaggio sulle pagine de La Giustizia, che in quegli anni era il
giornale del Psdi, cioè di quello che fu il partito dei socialdemocratici
italiani.
‘Caltanissetta’, scrive Caproni, ‘è una terra lontana, tanto lontana che
dopo diciannove ore e mezzo di treno stivato (che vuol dire sudore, vuol
dire panini asciutti, imbottiti di stoppa, di occhi raschiati dal sonno e di
piedi gonfi), ci si arriva disfatti e non certo incoraggiati alla
cordialità: specie se si pensa che di queste diciannove ore e mezza filate
(filate fino a Villa San Giovanni, che i guai seri cominciano da Messina;
finita l’ilare e fresca vacanza marinara della nave-traghetto) circa la metà
sono spese, via Catania, per penetrare nel cuore dell’isola’. In quest’ultimo
tratto di viaggio, tutto siciliano, la percezione della lentezza del
movimento sembra accentuarsi per la fissità monocromatica del
paesaggio, di
un giallore che induce lo scrittore a pensare che ‘i ragazzini che vanno a
scuola dalle loro povere case fatte di gesso abbacinante debbono cominciar
con l’imparare, insieme col due per due quattro, di che colore è il verde, e
cosa vuol dire la parola albero’. E questo è ancora niente. Messi i piedi a
terra, dopo l’estenuante percorso ferroviario, al poeta (già vincitore di
due edizioni del Premio Viareggio, nel ’52 con Stanze della funicolare e nel
’59 con Il passaggio di Enea) a cui sembrava di aver esagerato nelle sue
prime impressioni isolane, basterà la conoscenza dei dintorni di
Caltanissetta ad acuire il senso di solitudine e lontananza che aveva
inizialmente avvertito. Un giro nella zona delle miniere e Caproni, con
decisione, afferma: ‘c’è ne bastata una, quella di patron Testasecca, a
impressionarci; e non tanto per il paesaggio da bolgia dantesca ( i valloni
color verdone coi naturali fortilizi e le curiose e solenni dentiere di
roccia biancastra sulle cime e sui crinali) o il fetor d’ova sode che ti fa
lacrimare gli occhi anche in superficie, quanto e soprattutto per
l’apprendere, dalla prudente bocca degli stessi solfatari, che quello stesso
zolfo ch’essi cavano a più di duecentocinquanta metri di profondità,
dopotutto resta pressoché inutilizzato e non viene smerciato per via della
concorrenza d’oltre oceano, e che le miniere son tenute su solo a scopo
‘sociale’ e non ‘commerciale’, coi loro duecento e passa morti in un anno, e
che le paghe sono spesso arretrate di mesi, per cui intanto si vivacchia di
miseri anticipi e di ‘credito’, finché a furia di credito i negozi non
rimangono vuoti, ragione per cui il padrone è finalmente costretto, affinché
essi si riforniscano, a pagare un altro anticipo sugli arretrati’.
Poi, in città, il primo impatto è con la modestia delle case, umili e
popolari, per di più con ‘portoni che in un caso su tre sono fregiati d’un
manifesto rettangolare orlato a lutto (Per mio padre, Per il fratello, Per
la cognata, e giù giù verso le più remote parentele e conoscenze, fino a un
Per l’amico)’. Ma una più attenta perlustrazione fa prima intuire e poi
scorgere coscientemente, a Caproni, le forze e le risorse che la città
dell’entroterra siculo possiede. Sono queste le floride attività commerciali
e artigianali che sorgono nel complicato reticolo di ‘vie e viuzze e
scalette e piazze’ del centro storico, dove fervono gli affari di ‘bei
negozi moderni accanto a cantine arcaiche dove il vinaio tiene ancora nelle
giare l’acqua a lui doppiamente necessaria’; sono anche i beni e i servizi
culturali, come palazzo Beaufframount, con il suo prospetto barocco che lo
rende uno dei più insigni monumenti di Sicilia e la Libreria Sciascia
(‘centro vivo di cultura viva’). Insomma Caltanissetta ‘non è per nulla la
città malinconica e addormentata, e tantomeno morta, come lì lì ci sarebbe
da aspettarsi’, ma anzi ‘si ha l’impressione di trovarsi in una città ricca
di straordinaria energia e di straordinaria voglia di vivere’.
Solo che Caltanissetta, constata Caproni - e qui la cittadina diventa
emblematicamente simbolo di tutta la Sicilia - non riesce a far debordare le
sue energie, a portare all’esterno del proprio territorio le ottime
potenzialità possedute (‘altre città hanno sfogo e commercio, e te ne
accorgi la domenica quando le strade provinciali che da esse si dipartono a
raggiera verso gli altri centri son gremite di traffico, mentre qui tali
strade (ci sono e non ci sono: si tratta a volte di vecchie trazzere su cui
s’è passata qualche mano di asfalto) anche di domenica sono semideserte,
quasi a render più tangibile ancora come tutta l’energia della brulicante
città resti compressa, entro il perimetro urbano, facendone risaltare
l’isolamento’). A Caltanissetta, come è immagazzinato e non
venduto lo zolfo
che lì si produce così è compressa la forza e l’intelligenza della città e
dei cittadini, che esiste nonostante ‘l’analfabetismo e la miseria grande’.
Solo che, denuncia Caproni, la città ha bisogno di interventi che la
facciano uscire dall’isolamento, che la rendano meno distante dal resto
della nazione. Lo scrittore che amava viaggiare per il mondo, ma che
conosceva molto bene il meridione dove era stato spesso e a lungo, nel suo
reportage di viaggio, poetico e realistico al tempo stesso, reclamava per la
Sicilia quello che in quegli anni in molti auspicavano a gran forza: una
modernizzazione e un’ emancipazione in chiave industriale e produttiva
dell’arcaica e inefficace economia agricola, in sintonia con le proposte
politico-programmatiche del giornale per cui scriveva. Ma i suoi scritti per
il foglio mentore della socialdemocrazia erano profondamente intrisi di
poesia: anche quando il suo era un approccio a terre difficili e
problematiche come quelle siciliane. E tra i suoi scritti per La Giustizia
(raccolti e pubblicati in volume, nel 2000, dall’editore Manni) un altro
articolo, L’aeroporto delle rondini, che peraltro dà il titolo al libro
(Aeroporto delle rondini e altre cartoline di viaggio), offre un’ulteriore
pagina del diario siciliano di Caproni. In una calda giornata del luglio
‘62, all’aeroporto di Catania, a colpire lo scrittore, e a ispirargli parole
di affettuosa ironia, sono le rondini per le quali confessa di non avere mai
avuto molta simpatia ‘perchè tutto sommato sono uccelli aridi, legnosi,
stopposi, né commestibili né canori’; per di più, annota Caproni, ‘me le
han
rese antipatiche i poeti, che ne hanno fatto scempio’. Ma sono proprio
quelle rondini a ingentilire un orrido aeroporto (‘brutto come tutto il
‘moderno’ quando gli son passati addosso alcuni anni’) e a dare una patente
in più di civiltà ai siciliani, rispettosi dei lori nidi, costruiti sotto il
tetto di cemento del muro d’ingresso dell’aeroporto, che non osano abbattere
come probabilmente avrebbero fatto in qualsiasi altro posto d’Italia. Preso
il volo per Roma, la poetica immagine delle rondini lascia il posto al
ricordo del giorno prima a Catania e all’escursione all’Etna, con i suoi
‘zoccoloni di roccia nera che parevan di carbon fossile mentr’erano di lava.
Lava nera come il carbone fossile, colata fino al mare dov’ha formato nere e
stupende scogliere. Le nere scogliere di Catania’. E, mentre l’aereo è ormai
vicino all’arrivo a Fiumicino, viaggiando accanto ad una silenziosa e
impettita signora (‘una mammy terribile e odiosa’), al poeta i pensieri
fanno ritorno, ancora e nostalgicamente, all’isola lasciata, all’Etna ‘con i
suoi crateri dove il fuoco della terra ancora bolle’ e con i suoi
meravigliosi luoghi che ‘sembrano enormi depositi-locomotive, di quelle
vecchie a carbone e invece son paesi che sembran fatti come le scogliere, di
carbone’, dove ‘c’è un fresco, un’aria così fine…’.
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