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Sostiene Franco Cardini: "Comunque la si
affronti la storia è sempre, in un modo o nell'altro, storie di cose da
mangiare o della loro mancanza".
Soffermarsi solo su questo concetto sarebbe limitativo. Il cibo è senza
alcun dubbio qualcosa di più. E’ innegabile il legame tra il divino e il
cibo, definibile come "sacralità del cibo", che risulta ampiamente provato
da uno studio comparato delle varie religioni e riconosciuto dagli studiosi
di tutto il mondo come un dato incontestabile. Il legame è dovuto al fatto
che il cibo ha come prerogativa l’essere considerato dono di Dio…
“santificazione del lavoro umano”.
Lo si ricerca attraverso l’ausilio
dell’implorazione della preghiera, con cui lo si riconosce come bisogno
umano, dono di Dio che ne è il bene-factor, il bene-fattore.
Molte usanze alimentari delle società arcaiche e che ancora oggi ci portiamo
appresso, hanno elementi simbolici strettamente legati alle credenze sul
mondo degli dei. Spesso si trattava di privazioni, digiuni ed astinenze. Ed
ancora, offerte alimentari a santi, dei o spiriti. Si arrivava al paradosso,
in certi riti funerari il cibo fungeva da elemento di mediazione fra i vivi
e i morti.
Tutte le religioni, da sempre, hanno sentito la necessità di elaborare delle
regole alimentari, una sorta di “teologia culinaria” senza la quale il
rapporto con il divino era impossibile. Culture che in maniera diversa, più
o meno elaborate, sono arrivate fino a noi. Cibo e religione, appunto, come
espressione delle diverse culture appaiono sempre uniti partendo dal rito
più quotidiano: il nutrirsi.
Il cibo è visto come dono di Dio soprattutto come tradizione del culto dei
santi. Ne sono testimonianza varie tradizioni gastronomiche legate al
calendario stagionale prima e liturgico poi, ed a numerose usanze popolari
della nostra isola. Alcuni piatti o prodotti sono rimasti integri, nella
tradizione cultural- gastronomica, legati a quello di un santo particolare
(S. Giuseppe, S. Lucia, ecc).
Il concetto di sacralità del cibo è tutt’oggi radicato nella società
contadina, ne sono riprova alcuni usi passati, rimasti indenni attraverso il
tempo, come la benedizione del pane, il pane segnato con la croce, l’ungere
l’aratro con l’olio prima di iniziare i lavori, l’invocazione dei santi
protettori dei raccolti, ecc.
La riprova forte di questa sacralità è messa in evidenza nella tradizione
cristiana che del "pane" e del "vino" ha fatto e fa i simboli fondanti della
propria fede, collegando Gesù il memoriale della sua morte e della sua
risurrezione al "pane" e "vino" della cena ebraica.
Il cibo richiama anche la festa. Lo è nella quotidianità, quando ci si siede
a tavola, dopo avere ringraziato Dio, si festeggia e si ringrazia per il
“pane quotidiano”.
Ma anche cibo per la festa sancito da ogni avvenimento della nostra isola:
dalla nascita alla morte. Cortei nuziali o di battezzandi venivano
festeggiati con lanci di frumento o di “fave e ciciri caliati” (fave e ceci
abbrustoliti), confetti, monetine e anche sale, per augurare al neonato un
avvenire di prosperità e di
abbondanza. Non erano di meno i banchetti
nuziali augurati da maccarruna ri ziti (maccheroni grossi fatti a mano) con
stufato, un secondo di carne e un accattivante artigianale dolcetto. Il cibo
non mancava mai, anche alla fine delle famose “staggliate” (lavori a
cottimo) o durante le raccolte agricole.
A dirla con Cristiano Grottanelli “Il cibo è legato al momento festivo della
commensalità fra gli uomini”.
Ma c’è di più. E’ ancora vivo il conforto alla famiglia del morto sotto
forma di colazioni, pranzi, cene: “‘u consulu”. Un rito dove confluiscono
mille sfaccettature della vita. Affetti, amicizia, gratitudine, compassione,
ecc. E poiché l’immagine di chi offre non può essere offuscata, “ u consulu”
, così come per le altre presentazioni in pubblico, “non si può sfigurare”,
pertanto, il tutto diventava una sorta di ostentazione di affettuosità e di
ricchezza. Brodo di gallina, “falso magro”, caffé e latte, accompagnati da
biscotti “Umberto” o “Rizzi”.” Tra le pietanze del “consulu” mancavano i
dolci, che facevano parte della ritualità della festa. Scrive opportunamente
Bactin che “il trionfo del banchetto è universale: è il trionfo della vita
sulla morte”.
La festa era anche esaltata dalla presenza dei dolci e del vino che non
potevano assolutamente mancare mai. Il detto “finiu tuttu a tarallucci e
vino” è l’esempio più eclatante dell’acronimo di festa. Pasticceria sacra e
profana. Una variegata rappresentazione di dolci esaltati da una eccellente
ricchezza figurativa e simbolica che affonda le proprie radici nella
preistoria ed impregnata di tradizione pagana e rivoluzione cristiana.
Dolci e feste per rifarsi il palato, da contrapporsi, o/e per ricordare che
la vita è amara, ragion per cui, bisogna addolcirla con un dolce. Cubbaita,
pupu cu l’ovu, confetti, cannoli, nucatuli, ecc., insomma, immaginabili
guantiere colmi di dolcetti vari per festeggiare i vari momenti che il ciclo
della vita ci propone.
A dirla con Pino Caruso:”Il cibo a saperlo leggere, è un libro di memoria e,
se ci si viene dalla terra in cui siamo nati, è anche un pezzo della nostra
infanzia e della nostra storia”. Il cibo, innegabilmente è la
caratterizzazione di un territorio, in cui le varie popolazioni hanno
affermato la propria identità e il diritto all’esistenza.
Quindi storia del cibo, ma anche la storia nel cibo. Ed in quella “triade
mediterranea” di cui nei Salmi biblici è dato leggere: “ Il vino che allieta
il cuore degli uomini; l’olio che fa brillare il suo volto e il pane che
sostiene il suo vigore”, si annida la nostra storia dell’alimentazione.
Sintesi che è esaltata dall’antico proverbio: ”Si c’è ogghiui, vinu e farina
la casa è china” (Se c’è olio, vino e farina la casa è ricca).
Ma attenti a non abbondare! Del “Cibo e sacralità” c’è anche l’altra faccia
della medaglia. Si può stare a tavola con Dio con l’approvazione anche dei
dietologi. I menù dei testi sacri di tutte le religioni, che per millenni
hanno raccomandato ai propri fedeli cibi prescritti, divieti, dinieghi,
digiuni e tanti altri moniti, sembrano che facciano parte di un interessante
capitolo di un moderno volume sulle “Buone norme di nutrizione”.
Dal divieto coranico che vieta la carne di maiale, riccamente presente di
grassi saturi - altamente dannosi alla salute - alla saggia precauzione
ebraica della “Torah” , (legge ebraica) che obbliga i macellai a dissanguare
le carni degli animali di grossa taglia habitat ideale per lo sviluppo di
micidiali microrganismi. Alimenti Kascer, cibi adatti, buoni, conformi ai
precetti che accompagnano la vita nel percorso verso la santità. Diventano
toccasana i digiuni primaverili quaresimali che in passato i religiosi
raccomandavano per l’anima, e che oggi i dietologi, raccomandano per il
corpo per prepararlo all’esposizione delle nostre spiagge assolate.
Per Claudio Mencacci, psichiatra e psicanalista l’anoressia e la bulimia
sono l’esigenza “di un rapporto diretto con la spiritualità perché negando
la necessità del corpo lo vuole senza bisogni e quindi eterno”.
Cibo e sacralità, cibo e festa, cibo e gioco, cibo come identità, cibo e
tradizione, cibo e cultura, insomma, da qualunque sfaccettatura lo si guarda
il cibo nel “Villaggio globale”, giorno dopo giorno, va perdendo quelle
conclamate connotazioni che per millenni hanno caratterizzato la nostra
storia e che Giuseppe Pitrè, qualche secolo addietro, nell’Avvertenza
all’ultimo suo volume della sua monumentale “Biblioteca delle tradizioni
popolari siciliane” raccomandava: ”il progresso ogni dì incalzante spazza
istituzioni e costumi”.
Per questo e per tante altre mille ragioni dobbiamo a tutti i costi
difendere e salvaguardare il nostro patrimonio enogastronomico.
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