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Lungo la Valle del fiume "Saracena"
Bronte: la terra del Ciclope
Per le vie di Bronte
Due chiese, una stroria
Maniace: nell'ex regno dei Nelson
Maletto
Musica dal passato
Un viaggio
attraverso i territori di Bronte, Maniace e Maletto in quella che fu la
Ducea dell'eroe di Trafalgar, tra impareggiabili scenari naturali, vita
rurale e storia
Lungo la Valle del fiume "Saracena"
di Giovanni Carbone
Il Simeto, massimo fiume della Sicilia con
i suoi 113 km, nasce dalla confluenza di tre torrenti, il Cutò,
proveniente dalle pendici del Monte Soro, nei Nebrodi, il Saraceno, che
dà il nome alla valle di cui è parte il territorio dei comuni di Bronte,
Maniace e Maletto, e che nasce dal lago Cartolari, e il Martello
emissario del lago Biviere. Il fiume, nel suo corso più alto, scava, tra
le rocce dei Nebrodi e, successivamente, tra le lave di antiche eruzioni
dell'Etna, splendide, gole che gareggiano per bellezza e fascino con le
più note gole dell'Alcantara. Le rive del fiume sono ricoperte da una
variegata flora, tra cui spiccano il platano orientale, roverelle,
lecci, faggi, frassini, che offre ospitalità a volpi, donnole, martore,
ghiri, ricci e istrici e sicuro riparo, per i propri nidi, a beccacce,
gufi, cornacchie, gazze, pernici e coturnici. Le acque sono popolate
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La rocca Calanna
da
carpe, trote, tinche, da tartarughe e, negli stagni nelle vicinanze del
fiume, dimorano la gallinella d'acqua e l'airone. Nella Valle del fiume
"Saracena" una particolare suggestione è data dalle sfumature cromatiche
del verde dei pascoli e dei boschi cui fanno contrasto i colori delle
nude rocce dei Nebrodi e delle antiche lave dell'Etna. Le asperità del
suolo hanno fatto si che sopravvivessero qui antiche metodiche agricole
fondate su seminativi e seminativi arborali, ma, dove è stato possibile
creare invasi e piccoli laghetti, sono nati fertili e verdi orti e
vigneti.
Nella sua lunga corsa verso lo Jonio, il
Simeto, attraversa nel suo primo tratto un territorio carico di storia
spesso non scritta ma di cui non è raro trovare le vestigia. Questi
luoghi hanno rappresentato per secoli uno straordinario sito strategico
nel quale, numerose e cruenti, si sono combattute battaglie come quella
tra i Sicani e i Siculi, tra i Siracusani e i Romani, tra i Saraceni e i
Normanni. Il popolamento della Valle è stato un continuo susseguirsi di
dominatori e dominati, con Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi,
Ferdinando II il Cattolico, sino a giungere all'attribuzione della Ducea
di Bronte al vincitore della battaglia di Trafalgar, quell'ammiraglio
Nelson i cui eredi fissarono qui la loro dimora in quella che fu
l'abbazia di S.Maria di Maniace.
Le acque del fiume servivano un tempo a
mantenere l'eterno movimento dei mulini degli insediamenti monastici di
contrada Gullia, legati all'Abbazia benedettina di S. Maria di Maniace,
e alimentati da un vecchio acquedotto, i
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Torre di guardia medievale
cui resti, insieme alle antiche
macine conservate all'interno di alcuni casolari, rappresentano le
ultime testimonianze delle intense attività che si svolgevano un tempo
lontano nella Valle. Attività successive di secoli ai primi insediamenti
del sito, di cui vi è traccia nei ritrovamenti megalitici tra cui le
grotte come quelle che si affacciano sul fiume Saraceno e quelle site
nei pressi di Maniace. Altre testimonianze di remote frequentazioni del
sito sono sparse per tutta l'area di influenza dei tre comuni
continuamente minacciate dalle frane e dall'abbandono quando non
soggette all'opera devastatrice dell'uomo.
Il territorio è costellato di antiche
masserie nelle quali si possono riscoprire le costumanze del vivere
contadino o leggere l'impassibile incedere del tempo, abile, insieme
all'incuria dell'uomo, nel cancellare ogni traccia della storia di
questi luoghi. Alcune di queste masserie, delle quali esistono
testimonianze sin
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Sentiero in basolato lavico
dal XII secolo e che ricadevano sotto la potente
giurisdizione dell'Abbazia di S. Maria di Maniace, costituivano veri e
propri villaggi di cui si è completamente persa traccia, così come non è
assolutamente chiaro cosa condusse i contadini che le abitavano ad
abbandonarle.
La Valle del fiume Saraceno, per chi la
percorre, nei territori di Bronte, Maletto e Maniace, rivela
innumerevoli e misteriose sorprese come, sospesa tra i pistacchi, ai
margini della vecchia strada che collega Bronte ad Adrano, una
costruzione che ha l'apparente aspetto di una grangia, probabilmente un
piccolo monastero basiliano. Stupisce alquanto il quasi perfetto stato
in cui si trova la costruzione vittima anch'essa di un abbandono
secolare. Essa presenta una piccola chiesetta adiacente ad una sorta di
chiostro chiuso da una costruzione più grande. Ed ancora il suggestivo
ponte Serravalle, che vive la sua condizione di degrado scavalcando il
torrente Troina nel tratto di proseguimento della riserva dell'ingrottato
lavico dello stesso fiume.
Interessanti per l'accurata metodologia di
fabbricazione, le stradine in basolato lavico che si inerpicano numerose
su per il vulcano.
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Particolare pianta pistacchio
Sul Monte Maletto (oltre 1.700 metri), per
chi ama gli itinerari montani, il Rifugio omonimo. Chi attraversa le
campagne di Bronte non può non notare le coltivazioni di pistacchio.
Questa pianta vive abbarbicata sulla lava del vulcano, producendo i
propri frutti con ritmo biennale. Il pistacchio di Bronte copre da solo
l'80% dell'intera produzione nazionale con i suoi 4.000 ettari di
terreno coltivato. Dal prodotto della pianta si ricava un ingrediente
principe per squisiti dolci di marca brontese ma la cattiva
commercializzazione del pistacchio unita ad una scarsa pubblicizzazione
e alla mancanza di ricerche specifiche pongono in serio pericolo le
coltivazioni che attraversano un grave periodo di crisi, gravate come
sono dagli elevatissimi costi di gestione.
La Valle del fiume "Saracena" rappresenta
uno dei tanti esempi di una Sicilia con un potenziale di sviluppo
straordinario ma che, come spesso accade in questi casi, troppo
fiduciosa, attende un'improbabile iniziativa dall'alto che ne valorizzi
le peculiari prerogative.
su
Bronte: la
terra del Ciclope
di Vincenzo Sciacca
Tentare qui una narrazione filata della
storia della città non è possibile. Troppe le vicende e troppo
intricate. Faremo dunque una rapida corsa isolando, in circa mezzo
millennio di storia, alcuni episodi che spiccano per la loro rilevanza.
Mentre divampava la lite tormentosa con
l'Ospedale Grande di Palermo, i Brontesi ai quali premeva dimostrare che
la loro città era la più antica del monastero di Maniaci, ne inventarono
di curiose. Gli eruditi locali per comprovare l'antichità del sito
ricorsero alla filologia e all'archeologia citarono Virgilio:
"Ferrum excerbat Cyclopes in antro
Brontesque, Steropesque et nudus membra
Piracmon";
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Veduta di Bronte
tirarono fuori una canzone in lingua
caldaica che dissero ritrovata ai piedi dell'Etna e "come saputi di
lingue orientali, la tradussero in ottava siciliana' (B. Radice, Memorie
storiche di Bronte, riedizione del 1984, pag. 35).
In realtà le radici di Bronte erano
recenti e ignare di ciclopi e di caldei. Il grosso borgo così denominato
si era formato solo nel 1525, per decreto di Carlo V, che volle così
riunire i casali (24, secondo la tradizione) soggetti all'abbazia di
Maniaci, ed era feudo dell'Ospedale Grande e nuovo di Palermo. La storia
successiva avrebbe visto l'università brontese combattere contro il
potere feudale, la cui gestione significava soprattutto patibolo e fame.
Sin dagli esordi la storia di Bronte è
comunque storia di una piccola comunità che cerca di scrollarsi di dosso
un potere oppressivo, impegnata in una lotta quotidiana contro la
miseria e l'espropriazione.
Tra il 1774 e il 1778, ad opera del
sacerdote Ignazio Capizzi si completa il Real Collegio Capizzi,
destinato a divenire un centro di formazione di grande rinomanza.
Si accorreva al collegio di Bronte da
mezza Sicilia e l'esservi stati era di per sé un titolo di distinzione.
Nel collegio si impartiva l'insegnamento del latino, del greco, della
religione e della teologia. Niente discipline tecniche, niente
matematica e poca letteratura italiana. Gli studenti che nei primi
decenni vi furono convittori venivano allevati come vecchi umanisti,
abilissimi a voltare il "Furiosd' in latino ma privi di qualsiasi
contatto con la cultura illuminista. Per essi le alternative erano
poche: la carriera forense, il sacerdozio, l'impiego nella burocrazia
borbonica. L'istituto, insomma, contribuiva a formare una classe
dirigente attardata e, nella sostanza, reazionaria.
I Brontesi vanno comunque fieri di questa
istituzione ed amano rappresentarsi un passato glorioso costellato da
"eletti ingegni" partoriti dal Collegio. Innocua illusione, questa, che
sopravvive al disfacimento dell'edificio, ormai privo di qualsiasi
funzione che non sia l'affitto dei locali a scuole pubbliche e private,
negozietti, panifici, bar e banche.
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Biblioteca del Real Collegio Capizzi
Il Risorgimento italiano ha vissuto a
Bronte una delle sue pagine più tragiche e famose: nel 1860 i popolani
brontesi sull'onda del diffuso entusiasmo per la spedizione garibaldina,
insorgono e fanno strage di numerosi esponenti della borghesia locale.
La scanna dei borbonici, si pensava ingenuamente, sarebbe stata gradita
al generale Garibaldi e avrebbe affrettato gli eventi. Illusione. Il
luogotenente di Garibaldi, Nino Bixio, piomba a Bronte e spegne la
rivolta nel sangue. Sul piazzale antistante la chiesa di S. Vito vengono
fucilate sei persone, ritenute a vario titolo responsabili del tumulto.
Fra esse erano Cola Lombardo (liberale), il solo che si fosse impegnato
per evitare gli eccessi che poi furono commessi, e Nunzio Ciraldo
Frajunco, povero folle senza coscienza. Morivano innocenti: alla strage
Bixio rispondeva con la strage.
La vicenda insurrezionale, costellata di
fatti di inaudita violenza, è stata più volte fonte d'ispirazione per
registi e scrittori. Florestano Vancini la racconta, utilizzando
personaggi assai credibili, nel film "Bronte: cronaca di un massacró';
Giovanni Verga ne dà un indimenticabile resoconto nella novella "Libertà'';
Federico De Roberto ne "I vecchî', fornisce una descrizione della
rivolta antitetica a quella verghiana, dando voce alla diffidenza dei
conservatori nei confronti di qualsiasi movimento di popolo. Il
resoconto che di quelle vicende dà il maggiore storico della città
(Benedetto Radice), gareggia in bellezza con le pagine verghiane. La
storia di Bronte di questo secolo è ancora da scrivere. Dai ricordi
degli anziani sembrerebbe che il '900 si sia tenuto lontano dal comune:
niente fascismo e niente antifascismo. Tali ricordi sono però smentiti
dalle tracce che il regime ha lasciato: scritte sui muri intonate alla
retorica fascista, qualche traccia nell'edilizia e soprattutto un ricco
repertorio fotografico che mostra come la "fascistizzazione" della vita
brontese fosse capillare e partecipata.
Del resto quanti a Bronte ebbero arte e
parte furono senz'altro fascisti ed il brontese Eduardo Cimbali è stato
il fascista di maggior rilievo nella provincia di Catania; fu attorno
alla cattedra di diritto internazionale di quest'ultimo che il fascismo
mosse i primi passi nella Sicilia orientale.
E insomma, la storia di questo secolo non
può più essere affidata alla memoria degli anziani, urgono ricerche
d'archivio ed una paziente ed "onesta" riflessione sul materiale
documentario di cui già si dispone.
su
Un itinerario per le vie
di Bronte, tra angoli da scoprire e fantasmi di un passato tragicamente vissuto
Per le vie di
Bronte
Il paese cresciuto disordinatamente,
mostra, nonostante la dissennatezza di qualche intervento umano, alcuni
luoghi che sono riusciti a mantenere parte, almeno, della loro "aura".
Si può dunque visitare il quartiere S. Vito, con la chiesa abbarbicata
sul punto più alto e il labirintico succedersi di vicoli e viuzze che
riesce ad essere frastornante anche per gli stessi brontesi. Il luogo è
ricco di memoria e di fantasmi, qui Bixio fucilò sei rivoltosi, da qui
venne il suono della campana a martello che annunciava la strage.
Da S. Vito si può passare alla passeggiata
lungo il corso Umberto che ormai
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Catoio della "Madonna Oriti"
spacca in due il paese. D'obbligo una
visita nei bar per assaggiare i dolci al pistacchio e le "filette".
Lungo il corso Umberto ci si imbatte nel Collegio Capizzi. L'edificio è
piuttosto anonimo, gravato di insegne luminescenti e rappezzato alla
meglio da discutibili lavori di restauro esterno, ma al suo interno è
senz'altro da visitare lo splendido fondo antico della biblioteca, oltre
ventimila volumi più un prezioso archivio storico ricchissimo di
importanti documenti. Il colpo d'occhio della biblioteca, con i libri
antichi e polverosi negli scaffali bruni, giustifica da solo la visita.
A chi amasse i tuffi in dimensioni
anacronistiche si potrebbe consigliare una visita alla cantina del
"Gambero". Vi si accede passando per un suggestivo "catoio" di
derivazione araba detto "della Madonna Oriti", all'interno si trovano
autentiche sopravvivenze antropologiche: i contadini che sprofondano nel
vino, che vanno litaniando in coro i canti del venerdì santo, che
mangiano "tacchia", che litigano per un nonnulla.
Ma, credeteci, appena vi vedranno entrare
e capiranno che siete "foresti" vi offriranno un quarto e una gazzosa e
vi inviteranno all'antica bisboccia del
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Immagine d'epoca del Santuario dell'Annunciazione
contadino, sempre percorsa,
anche nel momento dell'allegria più fragorosa, da un funesto
trasalimento, da una nota tragica di dolore e rassegnazione. Solo
cultura e vino in questa Bronte da dove è così facile partire? Ma no,
anche pistacchio. I"lochi" (terreno a coltura privilegiato) meritano
senz'altro un'escursione. Da maggio a settembre i pistacchi si riempiono
di foglie e, fitti come sono, formano una coltre uniforme e
lussureggiante che segue docilmente le asperità del terreno sciaroso.
In inverno i pistacchi restano, secchi e
scheletriti, a ricoprire le lave come un intrico di dita appassite.
Suggestivo? Qualcosa di più. Non c'è posto che possa insegnare il
silenzio, l'attesa, la stagnazione e le lotte contro un ambiente ostile
meglio dei "lochi' d'inverno, grigi e neri, coi pistacchi che si
aggrappano alle sciare nel tentativo, disperato e vano, di vincerle.
su
Due
chiese, una storia
di Antonino Di Gaetano
La Chiesa Madre della SS. Trinità
in Bronte sorge a Sud-Ovest dell'attuale
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Chiesa SS. Trinità in Bronte
centro (Chiesa del Rosario)
spostatosi dall'antico per la costruzione della rotabile occidentale
etnea che da Catania raggiunge Taormina. Il vecchio centro, lungiforme e
detto lo stesso "Piazza", lambiva a sud la Chiesa Madre intitolata alla
SS. Trinità, anche quando, nel sec. XVI, furono riunite le due Chiese
della Trinità e di S. Maria più antica e più grande. La striscia di
colata lavica del 1651, che investì e coprì Bronte con una striscia
est-ovest di poco più di un chilometro, lasciò intatta la Chiesa,
essendo scesa a sinistra alla distanza di un centinaio di metri. (...)
Della facciata Sud è immaginabile l'antica parete di arenaria tenuamente
calda, con le monofore e con gli archetti di coronamento. Chiesa di
architettura sobria, almeno all'esterno, ma linda e composta nei volumi,
misurata nei rapporti di pieno e vuoto. Il risveglio architettonico
anteriore al Mille del periodo di transizione o preromanico, espresso
nella riedificazione di edifici specie religiosi, non poteva non
influire sulla prima formazione di questa Chiesa il cui titolo più
antico conosciuto è quello di S. Maria. Per i caratteri dei particolari
negli elementi d'architettura oggi a vista, è da tener presente che, nel
periodo di transizione, sulle forme nostrane se ne inserirono arabe
(...). Questa Chiesa potrebbe essere attribuita a Carlo Magno, cui molte
chiese italiane vengono attribuite. Tenuto conto della sua vita, il
Radice (Storia di Bronte, pag. 47), lo fa presente a Messina, parlando
di colate laviche nel territorio di Bronte e riporta che "quella del 882
atterrì Carlo Magno". (...) La Chiesa, nella sua primitiva espressione è
paragonabile, per la nuda e potente eleganza architettonica, all'interno
del Duomo di Cefalù. La monofora sul fianco ha particolari di
modulazione plastica, di taglio e di rapporti vuoto-pieno che sentiti
nella più intima espressività dei piani moderatamente alternati e negli
strombi, preannunciano la sveltezza delle dodici colonne all'interno, le
linee e le forme aggraziate dei rispettivi capitelli, il tutto racchiuso
tuttora nei massicci pilastri di consolidamento. Prova che un tempo, si
crede nel sec. XVI, parve imprudente continuare a far gravare su quegli
esili e snelli sostegni le agili arcate sovrastanti. Una causa, la più
attendibile, quella dei terremoti frequenti nella zona etnea, avrà
determinato il provvedimento che ora ci vieta, ma ci consea, la visione
delle originarie strutture. Alcuni particolari decorativi di un portale
o di un vuoto sulle pareti della Chiesa, si vedono ornare l'ingresso di
una casa di via Parrinello, posta a
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Il Campanile della chiesa SS. Trinità
pochi metri dallo spigolo nord della
Chiesa. Dette decorazioni sono racchiuse in quattro mezzi archi perlati
a tutto sesto. Nei pezzi di arenaria, oggi protetti da spessi e
protettivi strati di calce, sono raffigurati in rilievo animali di
significato religioso e rosoni, il più grande di forme classiche. Tutto
è rappresentato con un senso di ampiezza e spazialità. Gli elementi
della parte nord, lasciati a vista nonostante il processo di
ingrandimento della fabbrica compiuto nel sec. XVI, sono i soli
generalmente noti, ma non riconosciuti nel loro effettivo valore
storico.
La chiesa è ora costituita dalle tre
navate appartenenti a S. Maria, da un transetto, con una cappella
maggiore e due altre laterali, appartenenti alla zona o all'area prima
occupata dalla vecchia SS. Trinità. Questa denominazione è quella
prevalsa sui due titoli delle due chiese riunite. Il transetto è chiuso
nei lati corti da due altari barocchi (1655). Due cappelle per parte,
sec. XVI, fiancheggiano le due navate minori. Le arcate su le antiche 12
colonne presentano l'intradosso a tutto sesto. Avevo iniziato i saggi
per il ritrovamento delle arcate. Riuscii, dato il breve tempo a mia
disposizione, ad accertare la loro presenza, in pietra arenaria,
all'imposta. Delle altezze delle singole navate e della posizione del
coronamento ad archetti nulla posso dire. Sarà possibile ritrovare le
prime. I secondi, penso, siano esistiti fino al tempo in cui fu decisa
la trasformazione consecutiva alla riunione delle due Chiese. Quelli che
oggi si vedono coronare la navata maggiore, sono una riproduzione, nel
loro tempo, degli altri originari scomparsi. Anche le monofore del
campanile e quella ritrovata a fianco del portale sud, ripetono nella
schema quelle di cinque o sei secoli prima. Saggi opportuni dovrebbero
permettere di trovare almeno le tracce degli archetti scomparsi.
Egualmente non ho potuto accertare l'esistenza di alcuna monofora al di
sopra delle arcate. Del loro ritrovamento, mi fa sperare la posizione
delle ampie finestre del sec. XVIII aperte sulla navata principale. Se
le antiche monofore avessero avuto la loro
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Particolare del cortile dell'abbazia di S. Maria di Maniace
posizione in corrispondenza
dei vuoti delle arcate, le attuali avrebbero inghiottito le più piccole
e delusa prematuramente la speranza del ritrovamento nei pieni di muro
lasciati fra le grandi finestre. In breve, come mi è consentito, ho
accennato agli elementi a vista ed esposto alcuni giudizi e ipotesi.
Secondo una premessa ed un cenno iniziale,
occorre ora porre e fare un confronto. E se la mia tesi di una chiesa di
S. Maria in Bronte più antica o almeno precedente a quella di Maniace,
darà risultati positivi, la storia dell'architettura, consentendo il
recupero, criticamente scientifico e praticamente concreto, di una parte
almeno del monumento, avrà contribuito a risolvere delle questioni di
storia civile, dando la possibilità di una chiara e definitiva
interpretazione di documenti scritti.
S. Maria di Maniace è la Chiesa
dell'Abbazia omonima. Dista otto chilometri da Bronte e sorge nel suo
territorio comunale avendo una vasta e fertile zona posta nel versante
sud dei Nebrodi. Questa tenuta costituisce la Ducea Nelson. Giorgio
Maniace, il generale bizantino vincitore dei
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Cortile interno dell'abbazia di S. Maria di Maniace
Saraceni in tale località,
avendo avuto con sé una immagine della Madonna, che la tradizione vuole
dipinta da allievi di S. Luca Evangelista, desidera che resti sul posto
a memoria della sua vittoria. A tale scopo, accanto al fiume Simeto, ad
un chilometro dal Casale Maniace, costruisce una Cappella con la Sacra
immagine che viene affidata alle cure del monastero di S. Filippo di
Fragalà. Tale immagine aveva molti fedeli ed in continuo aumento. Nel
1173 il re Guglielmo e la sua sposa Margherita determinano di costruire
in Maniace una più grande chiesa intitolata a S. Maria ed un annesso
Monastero Benedettino. Nel 1174 lo stesso re consacrava il Chiostro di
Monreale, anch'esso dell'ordine Benedettino; Bronte e Maniace
appartenevano alla stessa diocesi dell'Arcivescovo di Monreale (Radice,
Storia di Bronte, pag. 398). Il primo Abate di S. M. di Maniace fu il
Beato Guglielmo di Blois, fratello di Pietro vescovo di Londra: un altro
fu Rodrigo Borgia poi Papa Alessandro VI. La Chiesa lambita dal torrente
Saraceno è a tre navate con archi ad ogiva poggianti su otto colonne a
testata sagomata più che capitello. Esse sono alternativamente a sezione
circolare ed esagonale ed in pietra basaltica. Un terremoto del 1693
distrusse l'abside con la quale terminava a levante quindi orientata. La
sua sistemazione è successiva. Molto interessante e ben conservato è il
portale principale, a gruppi di colonne di
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Interno della chiesa di S. Maria di Maniace
cinque per parte, ornate di
ricchi capitelli con personaggi e simboli biblici. La Chiesa ha inoltre
dieci grandi finestre ogivali, una per arcata, ora murate. Esse non
presentano dettagli rimarchevoli. L'interno è illuminato da tre finestre
alte della navata maggiore. A tutte le navate manca il coronamento nè se
ne scorgono le tracce. La copertura in legname è sostenuta da
cavalletti, correnti e travi. E' discretamente conservata ed è stata
restaurata nel 1862. Ed ora alcuni confronti, fra elementi a vista, con
la Chiesa di Bronte. Le monofore di questa hanno il davanzale e l'arco a
monoblocco, due pezzi per parte come stipiti della stessa finestra,
proporzioni geometriche frontali e modulazione della sezione di un "preromanico"
garbato e semplice, e tali che le finestre di S. Maria di Maniace
appaiano costruite distanti nel tempo e marcatamente evolute nello
sviluppo. Delle arcate d'ambedue le Chiese quelle di una sono
documentabili; dell'altra, pur coperte da stucchi e ingrossate dai
rivestimenti di consolidamento, se ne intravedono le forme geometriche.
Più raccolte, più classiche, non meno svelte delle ogivali di Maniace.
Basta osservare le proporzioni al collarino o alla base del capitello di
S. Maria in Bronte, oggi nell'orto del prof. Sac. Biagio Calanna, per
avere conferma dell'agile sviluppo del fusto delle dodici colonne che
ritengo tutte a sezione circolare. S. Maria di Maniace non ha veri e
propri capitelli. Le caratteristiche decorative del portale riadoperato
in via Parrinello in Bronte, non sono ritrovabili in nessun elemento
decorativo in Maniace, neanche fra la ricchezza di motivi dei capitelli
del portale. Nell'attesa fiduciosa di altri risultati, credo che quelli
noti possano bastare per riconoscere a S. Maria di Bronte il vantaggio
della dovuta priorità.
su
Maniace:
nell'ex regno dei Nelson
Anche se nella zona, insediamenti umani
sono conosciuti fin dal XII secolo, la
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Veduta del Castello Nelson
cittadina di Maniace si è formata
assai di recente, nel corso del nostro secolo. Divenuta frazione di
Bronte, Maniace ha raggiunto l'autonomia amministrativa solo nel 1981.
Oggi il paese è un tipico agglomerato contadino: poche e modeste case
ma, di tanto in tanto, ecco spuntare nelle piacevolissime campagne
discreti villini, testimonianza di un benessere economico finalmente
raggiunto. Le donne maniacesi sono conosciute, meritatamente, come
instancabili lavoratrici e ancora oggi la loro manodopera è preziosa per
qualsiasi tipo di lavoro agricolo si faccia nei dintorni; queste donne
vanno a Bronte per la raccolta del pistacchio, a Tortorici per la
raccolta delle nocciole, ad Adrano a lavorare negli orti e nei giardini
per la raccolta della frutta; l'Ente forestale ha in esse operaie
attente ed esperte; ovunque, insomma, ci sia lavoro bracciantile, ecco
le donne maniacesi presentarsi, col loro volto sanguigno e deciso, cotto
dal sole, con improbabili e bellissimi occhi azzurri.
Questa laboriosa umanità femminile, nella
cui memoria genetica è impressa un'eco incancellabile di sofferenza, è
la più rilevante caratteristica antropologica di Maniace.
Il territorio del comune si estende per
una superficie di 36 kmq e racchiude tre
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Casa rurale nelle campagne di Maniace
corsi d'acqua: Martello,
Saraceno e Cutò, i quali, scorrendo a valle, confluiscono nel Simeto. Il
sito è isolato dalle principali vie di comunicazione e la stradina che
lo collega a Bronte è sconnessa e tortuosa. Ma chi si sobbarca il lieve
disagio di un tale percorso viene abbondantemente ripagato da una natura
sorprendentemente incontaminata: boschetti, rigagnoli, pioppi svettanti,
mucche pigre e tardive che portano indolentemente in giro i loro
campanacci.
Il territorio di Maniace venne, da
Ferdinando IV, regalato insieme alla città di Bronte, all'ammiraglio
Orazio Nelson, per avere questi contribuito a reprimere la cosiddetta
"repubblica partenopea".
Era il 1799 e una tale donazione,
all'indomani della Rivoluzione francese e alla vigilia del nostro
Risorgimento, era un vero e proprio anacronismo feudale, che doveva
rivelarsi particolarmente sciagurato per i contadini del posto.
L'antica abbazia benedettina con annessa
la chiesa "Santa Maria del valorosissimo Maniace" diventava così
Castello Nelson, austero maniero oggi ingentilito dalla bucolica levità
del paesaggio circostante.
Il castello, nonostante sia
geograficamente e culturalmente legato alla comunità di Maniace, è
proprietà del comune di Bronte che spesso lo utilizza per manifestazioni
anche di dubbio gusto, stonate rispetto alla naturale vocazione del
luogo. Architettonicamente la parte più rilevante dell'edificio è
l'antica chiesa normanna col bellissimo portale a sesto acuto, il doppio
ordine di finestre ogivali e la trabeazione in legno. Al suo interno si
respira un'atmosfera raccolta e silenziosa che invita alla meditazione.
Per i maniacesi, il Castello Nelson
nonostante la sua indubbia rilevanza estetica
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Veduta del Castello Nelson dalla riva del fiume Saraceno
e storica, continua ad
essere (e come disapprovare?) un simbolo odioso. Si legga questo
stralcio di una testimonianza rilasciata nel 1954 dal bracciante
Parasiliti Parracello Franco, divenuto sindaco nel 1981: "Io sono un
analfabeta ma voglio solo dire qualcosa. Uno dei punti più neri della
Sicilia è la Ducea di Nelson, quella vasta zona di quel duca di Nelson,
di quei Borboni che nel 1860 i siciliani tutti uniti hanno lottato per
cacciare via, quella stirpe maledetta che portava il disastro, il
disordine e la miseria al popolo siciliano. Ancora in Sicilia è rimasto
quell'unico rampollo, l'erede della Ducea e dei padroni borbonici.
I contadini che lavorano nella Ducea sono
2.500 famiglie che vivono nella più oscura miseria, nella fame, senza
scarpe e senza vestiti. Lavorano appena svezzati dal latte materno fino
a 75, 80 anni, per 20 ore su 24 mentre il frutto del loro lavoro va a
finire nei grandi magazzini della Ducea (...). Nella Ducea di Nelson
sono pochi i contadini che vivono in una casa, sia pure modesta (...).
Ma la maggior parte delle famiglie abitano oggi in vani oscuri,
ammassati padre, madre e figli nello stesso letto (...). La mia voce
cammina da anni e anni; queste mie parole debbono essere portate in ogni
angolo della Sicilia in modo che tutti i "ani conoscano la vita
che conducono i contadini di questa zona. Si, la mia voce cammini. E'
tempo di mobilitarci come nel 1860 per scacciare i Nelson dalla Ducea
come allora furono scacciati i Borboni". Ci piace chiudere così questa
breve nota su Maniace, non sottolineando l'amenità del castello, ma
riportando queste appassionate parole del sindaco Parasiliti.
su
Maletto
Singolarmente il territorio del comune di
Maletto (40,88 Kmq) è interamente circondato dal territorio di Bronte,
caratteristica che ha le sue origini nel 1537, quando Carlo V riunì i
casali soggetti all'abbazia di Maniace, Maletto sfuggì a questo destino
grazie alla posizione privilegiata dei suoi feudatari (la famiglia
Spadafora), divenendo una sorta di "isola" all'interno del più vasto
territorio del comune di Bronte.
Una antica tradizione vuole che Maletto
sia un borgo fondato da una banda di
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Veduta di Maletto
"tagliasacchetti", briganti
capeggiati da una romantica principessa di nome Maretta. "La leggenda
non è solo tale, ma trova un riscontro storico, seppure in parte
traviato. Nel 1263 il nobile Manfredi Maletta (...) su un ampio ed
impervio sperone roccioso, in mezzo a fitte foreste, costruisce una
torre di avvistamento, di comunicazione e di difesa (...). Da quel
momento, dal nome del suo costruttore e possessore, il luogo viene
chiamato Maletto e nasce l'omonimo feudo" (A.A.VV, Un itinerario lungo
la valle del fiume Saracena, Biancavilla 1988). Attorno alla torre di
difesa detta "del Faro" perchè serviva come punto di avvistamento in
difesa dell'importante centro di Randazzo, in seguito denominata
"castello" (oggi è diroccata ma qualcosa se ne vede ancora dal
cosiddetto "tondo", punto del centro storico di Maletto che è la meta
preferita dei malettesi a passeggio), si raccolse il primo nucleo di
abitanti che costruirono un agglomerato di case di legname e fango. Agli
inizi del 1300, venuta meno la funzione militare del Castello, il sito
fu abbandonato e il territorio, costituito in feudo, passò alla famiglia
Omodei da Randazzo. Successivamente nel 1358 il castello venne concesso
a Ruggero Spadafora che lo donò al fratello Rinaldo il quale nel
frattempo aveva acquistato anche il feudo. Da quell'anno e fino al 1812,
la famiglia Spadafora sarà feudataria di Maletto. In questi 465 anni,
gli Spadafora, signori e padroni di Maletto furono 17 e sotto di loro
Maletto fu abitato ed abbandonato per tre volte; fu costruito il paese,
attraverso le vicende storiche che lo portarono ad essere il paese
dell'800 quale lo hanno ereditato i malettesi del secolo scorso. Intorno
alla metà del '400 gli Spadafora iniziarono la costruzione del primo
centro urbano stabile, corrispondente agli attuali quartieri attorno al
Castello. Nel 1502 Giovanni Michele Spadafora ottenne dal vescovo di
Messina l'autorizzazione a costruire la prima chiesa intitolata a
S.Michele Arcangelo, accanto furono costruiti i primi fabbricati ad uso
del feudo, cioè il palazzo baronale con le carceri (l'ex comune), i
magazzini lungo la via S.Antonio e il vecchio loggiato di via Umberto.
La popolazione però non assunse ancora un
carattere di stabilità, in quanto per
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Centro storico di Maletto
le precarie condizioni economiche
fu soggetta ad alterne emigrazioni che ne determinarono la quasi
scomparsa alla fine del 1500. Soltanto nel 1619 il potente Michele
Spadafora Bologna, ottenuto il titolo di Principe di Maletto, iniziò
un'opera di colonizzazione del suo feudo al fine di aumentare la
produzione di grano i cui prezzi erano molto cresciuti per l'aumento
internazionale della domanda. Attraverso la concessione di esenzioni e
cessioni gratuite di piccole porzioni di terreno ottenne una rapida
ripopolazione del borgo, la popolazione infatti segnò una costante
crescita a partire dal 1600: dai 224 abitanti nel 1646, a circa 1500 nel
1812 anno di abolizione del feudalesimo in Sicilia. Ma l'incremento
della popolazione va anche attribuito alla franchigia di cui godeva il
feudo, che consentì ai fuggiaschi ed ai ricercati dalla giustizia, di
trovare sicuro asilo in questo territorio. Sembra questa una parziale
conferma della leggenda che vuole Maletto rifugio di briganti e
fuorilegge, ma anche di bisognosi ed affamati, così come si può rilevare
da un antico proverbio locale che dice "Cu è veru bisugnusu e campa
affrittu, si voli ajuto ricurri a Marettu ".
Oggi il comune ha la sua caratteristica
più notevole nella bellezza, ancora
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Ruderi del Castello di Manfredi a Maletto
incontaminata, del suo territorio e
dei paesaggi etnei che da esso vi si godono. In territorio di Maletto
ricadono molti crateri spenti dell'Etna: M.Maletto (mt. 1773), M.Scavo (mt.
1785), M.Pomarazzo (1254), M.Guardirazzi (mt. 1973). Il paesaggio è
molto vario: le lave danno connotazioni rudi ed impervie, i boschetti
invitano alle passeggiate ed alla cerca dei funghi; dolce e fertilissima
è la zona coltivata a vigneti e fragoleti. La "fragolina di Maletto" è
una vera specialità del luogo che in estate attira golosi da tutta la
provincia di Catania.
L'economia di Maletto si fonda
prevalentemente, oltre che sulla già citata fragola, anche sulla
coltivazione di cereali, legumi, piante da frutto, vigneti e ortaggi.
Discreto è anche il contributo all'economia derivato dall'allevamento di
bovini, animali da cortile, ovini e suini. Connesso a questo la
produzione di prodotti lattiero-caseari come formaggi e ricotta. La
produzione di queste specialità gastronomiche locali, unita ad una
discreta attività artigianale e alla presenza di luoghi di ristoro dove
è possibile gustare il castrato, i funghi di ferla, i maccheroni e il
pane fatto in casa e un buon vino locale, pongono le basi per l'avvio di
un'economia fondata sull'agriturismo e il turismo rurale, attività
favorite dall’istituzione del Parco dell'Etna, sul cui territorio
Maletto ricade.
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Musica dal
passato
Non capita di rado di vedere, per le
strade delle affollatissime città nel periodo delle feste natalizie,
questi strani personaggi armati della loro "ciaramella" che attirano i
passanti per nome e per conto di qualche commerciante del centro o che
raggiungono le abitazioni di qualche signore di città che in questi
giorni di festa ama le note propiziatorie di questi musicisti
sopravvissuti al tempo. Sono gli ultimi ciaramellari, che giungono da
Maletto per allietarci con la loro musica, avvertendoci che è già
Natale. Vivono da sempre il loro rapporto simbiotico con la terra per
quasi tutto l'anno praticando la pastorizia e un'agricoltura povera ma,
durante il Natale, proprio come i loro avi, trasformano il proprio
status
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Zampognaro in costume tipico
divenendo musicisti e testimoni di una tradizione secolare. Ormai
da anni hanno abbandonato il classico costume, ma lo strumento è
immutabilmente lo stesso, probabilmente ereditato dai propri padri così
come la tecnica del suo utilizzo. La musica che ci propongono, a tratti
sofferta, riecheggia le note di un tempo antico ed anche se risente
talvolta delle influenze di note estranee alla loro cultura, la trama
sonora continua ad essere nel suo complesso originale, appresa dai
propri padri che a loro volta l'appresero dai loro, divenendo quasi
codificata nel codice genetico di questi straordinari rappresentanti
della vita rurale delle campagne di Maletto.
Eseguono, nelle città a valle, il loro
tappeto sonoro che è fatto di suggestioni ataviche che, purtroppo,
rischiano di perdersi a causa dell'aumentata disaffezione per le
tradizioni di un tempo. E così a richiedere la loro presenza sono sempre
gli stessi, normalmente i più anziani, che rimangono legati a questo
rito natalizio. Le note della musica dei ciaramellari non sono scritte
nei pentagrammi, ma racchiuse solo nella memoria di chi le esegue, e
questo, unito al costante abbandono delle tradizioni rurali, potrebbe
determinare la scomparsa, insieme ai ciaramellari, che non sembrano
avere da tempo il necessario ricambio generazionale, anche delle loro
musiche.
Occorrerebbe l'intervento di qualche
musicologo illuminato per evitare che queste melodie vengano
irrimediabilmente perdute.
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