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In questo piccolo borgo alle pendici dell’Etna, troviamo il ristorante “U Conzu” un gioiello d’altri tempi incastonato in una cintura di nuove costruzioni. Il contrasto è netto, ma non c’è da stupirsi perché, come ben si sa, la Sicilia oltre ad essere terra di sole è anche terra di contrasti. In questa meravigliosa isola dove il sole insaporisce ogni cosa, la cucina non è solo sopravvivenza, ma tutto l’opposto. L’esplosione di colori e di forme geometriche delle pietanze si amalgama perfettamente ai paesaggi naturali, ai mercati, ai famosissimi Carretti Siciliani ed insieme a questi è l’espressione del calore intrinseco del popolo siciliano. Il nome “U Conzu” nasconde in sé qualcosa di affascinante, suscita i ricordi degli anziani e contemporaneamente la curiosità dei giovani. Nessun altro nome poteva essere così azzeccato per denominare questo locale.
Viagrande è sempre stato un paesino a vocazione agricola soprattutto, tra ‘700 e ‘800, quando l’introduzione del torchio a vite facilitò il procedimento di pressatura dell’uva. Questo accelerò la graduale trasformazione dei terreni collinari etnei in stupendi vigneti. Ogni vigneto veniva dotato di costruzione rurale comprendente la casa del “massaru” ed un edificio per la trasformazione dell’uva, il palmento appunto. Pian piano il paesaggio agrario venne contraddistinto da centinaia di questi manufatti.
Le “ciurme” cioè le squadre di operai, durante la vendemmia, raccoglievano l’uva nei “panari” e a spalla la trasportavano al palmento, dove attraverso una finestra la scaricavano in una vasca larga e bassa. Qui entravano in scena i “pistaturi”, altri operai che si occupavano di pestarla a piedi nudi o calzando degli scarponi pesanti. Attraverso stretti canali di pietra lavica il mosto prodotto defluiva in una vasca sottostante detta “tina”, qui avveniva la prima fermentazione a contatto con le bucce ed i raspi che durava 48 ore. Attraverso un ulteriore circuito di canali il mosto in fermentazione veniva convogliato in un’altra vasca sottostante detta “ricevitori” (nella bocca di cane collocata sopra questo tino è incisa la data 1831), mentre la rimanente vinaccia detta “aspa” veniva fatta confluire in un'altra vasca più piccola dove vi era il torchio detto “conzu”. Il “conzu” è costituito da una trave in legno detta “lignu i conzu”, da un sistema di fissaggio centrale e posteriore della trave e da un contrappeso anteriore in pietra lavica detto “petra i conzu” su cui si trova innestata una lunga vite in legno. Questa ha due fori dove si inseriva un palo (oggi opportunamente smontato) che girando su di essa permetteva di sollevare la pietra che serviva per la pressatura della vinaccia.
È passato un anno e mezzo dall’inaugurazione e ogni mese una ricetta, un antico sapore, una novità in più incrementa il menù. Solitamente vengono proposti dei menù stagionali, quello invernale (già da pochi giorni adottato) e quello estivo che si differenzia dal precedente soprattutto per l’abbondanza di pesce. I piatti più richiesti in questa stagione sono: - “gli antipasti do conzu” che raggruppano: la caponata, la parmigiana, i crostini di funghi, le verdure grigliate, la grigliata di funghi porcini dell’Etna, gli “arancinetti” (anche al pistacchio), le verdure pastellate, le polpette di ricotta, le polpette di “cannatedda” (è un’erba spontanea che cresce sull’Etna), “u’ maccu frittu”, la “sarda a baccaficu” ecc. Gli antipasti, in realtà non fanno parte della tradizione, questi esposti non sono altro che il companatico o il secondo piatto - se non l'unico - della cucina povera;
- secondi: coniglio in agrodolce, agnello, arista di maiale al pistacchio, polpette con foglie di limone; - frutta: quella tipica di stagione, da notare come anche qui c’è un recupero di antichi sapori vengono proposti infatti i “puma gelati cola” e i “puma diliziusi” (rispettivamente le piccole mele bianche dell’Etna e quelle rosse), le sorbe, i “pira spineddu” (sono delle piccole pere allungate confezionate non singolarmente, ma a “pennula” cioè a treccia legata con spago; sono servite bollite o al forno), il melograno, il fico d’india, gli agrumi ecc. - dolci: le “peparelle”, la “cassata”, la “cassatela”, i cannoli, i “mustazzoli”, le paste di mandorla e di pistacchio, il semifreddo alle mandorle, i fichi secchi, la mostarda, la frutta martorana ecc.
Le origini della cucina siciliana risalgono ai tempi delle colonie greche in Sicilia (IV secolo a. C.). In quell’epoca la cucina non era molto elaborata: la base era costituita da verdure crude o cotte, da pesci e carni varie (lepri, conigli, agnelli, capretti) cucinate alla brace e insaporite con aglio ed erbe aromatiche. Il vino prodotto dai vigneti siciliani e la pasticceria raffinata, a base di mandorle e miele, erano già allora celebri..
Accanto alla
tradizione colta bisogna ricordare quella popolare, non meno interessante
dell’altra: vi si annoverano soprattutto sane e saporite minestre di verdure
selvatiche che, insieme a poco formaggio di pecora, olive e cipolle, e al
pane, costituivano fino alla metà di questo secolo la base
dell’alimentazione del contadino e del pastore. Eredità della cucina
popolare è “u’ maccu”, un passato di fave secche, condito in modo diverso a
seconda delle zone dell'isola e usato a sua volta per condire ricche
minestre di pasta.
L'uso dell'olio d'oliva è generalizzato, preferito ad ogni altro grasso, mentre la sugna è destinata alla preparazione di speciali impasti per focacce o dolciumi. Si preferisce l'uso del sale marino al salgemma. Senza pane in Sicilia non si va a tavola, sarebbe inconcepibile. Ogni paese, ogni città vanta decine di qualità di pane, diverse per l'impasto, la forma, il tempo di lievitazione o di cottura: ed infiniti sono i nomi che si danno ai pani per distinguerli gli uni dagli altri.
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