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- Un millenario continuum storico (di Maria Laudani) L'arte e la storia nelle chiese e nei conventi di Licodia (di Carmelo Verdi) Geologia e natura del territorio (di Rosario Guastella) L' Almo Monterosso "Terra dei lupi" o della divinità acquatica Leucatía, o "Grande rupe di Ali" o ancora l'antica e misteriosa Ibla Galeatide? Ecco una breve storia di Lícodia Eubea. L' attuale cittadina di Licodia Eubea, già nel toponimo riecheggiante una probabile ascendenza greca, si sviluppa in un'area di particolare interesse archeologico. Il sito odierno, infatti, oltre ad insistere su di una zona che ha vissuto uno sviluppo millenario, snodantesi dalla preistoria ad oggi, rientra nell'orizzonte di un ampio territorio che va da Caltagirone a Grammichele, alla stessa Licodia, a Vizzini, al Monte Lauro, sino alla costa est della Sicilia, interessato dalla presenza di rilevantissimi siti del passato. Le prime tracce di frequentazione del settore Vizzini-Licodia-Monterosso Monte Lauro risalgono al Neolitico della cosiddetta cultura Stentinelliana; all'area dì nostro interesse è annoverabile, infatti, l'unica tomba sin ora nota di questa civiltà, rinvenuta nel feudo di Calaforno presso Monterosso. La presenza di notevoli insediamenti è poi ben attestata nell'età del rame che vede a Licodia Eubea lo sviluppo del villaggio sito in località S.Cono, esaminato e reso noto dai fratelli Cafici. Questo villaggio conserva, oltre a tracce piuttosto esigue di capanne, abbondanti frammenti ceramici, numerosissimi resti di manufatti litici, e due tombe di cui una a fossa rotonda attardantesi sul tipo chiaramente neolitico, l'altra a forno, dì tipo caratteristico dell'età dei metalli. L'industria litica copiosamente rappresentata a S.Cono è la manifestazione più rilevante della nuova tecnica di lavorazione della selce (tecnica campignana) che trova diffusione negli Iblei attraverso tutta l'età del rame e del bronzo. Anche la prima fase dell'età del bronzo, caratterizzata nella Sicilia orientale dalla cosiddetta fase Castellucciana, è attestata a Licodia Eubea dalla presenza di gruppi tombali a grotticella e da recenti rinvenimenti di ceramica effettuati durante gli scavi condotti nel 1985 in via S.Pietro dalla Sovr. di Catania. La media età del bronzo che trova notevoli manifestazioni nella cultura di Thapsos (Siracusa), non è fino ad oggi testimoniata da rinvenìmenti presso il territorio di Licodia, ma i significativi insediamenti di Paraspola, di Buscemi, di Lentini fanno supporre continuità di vita in tutta la zona relativamente a tale periodo. Nella tarda età del bronzo si assiste a profondi cambiamenti in tutta la Sicilia che, a partire dalle Eolie sino alle zone orientali, è soggetta all'afflusso di nuove popolazioni dal continente, quei popoli che la tradizione classica chiamò Ausoni, Morgeti, Siculi. Di questo momento storico proprio l'area compresa tra Siracusa e Gela, grazie soprattutto alle sistematiche ricerche avviate da Paolo Orsi alla fine del secolo scorso, ha offerto i siti ed i materiali più rilevanti di tutta l'isola. Importanti reperti in bronzo della Il fase della cultura cosiddetta di Pantalica sono stati rinvenuti inuna stazione presso Vizzini. Infine, Licodia Eubea caratterizza, per una autonoma facies culturale, l'ultimo momento di questa epoca, quello che segna il trapasso dall'età del bronzo al ferro. La cultura di Licodia è ormai permeata di influssi greci pur mantenendo numerosi caratteri peculiari come nei tipi tombali a cameretta ipogeica, nella ceramica, nei bronzi. L'evoluzione della cultura di Licodia Eubea si focalizza tra il VII ed il V sec. a.C., quando la grecizzazione di tutta la Sicilia orientale è compiuta. Sulla rifondazione ad opera dei coloni greci di una città nel luogo del centro siculo non si hanno, ad oggi, testimonianze dalle fonti letterarie. Il nome stesso di Licodia ha un etimo non certo, potrebbe risalire, infatti, alla fase culturale greca e dall'antichità essersi tramandato sino a noi: in questo caso già il toponimo ci indicherebbe l'influenza dei nuovi popoli. L'etimologia del nome rifletterebbe, una probabile discendenza greca: per alcuni studiosi Licodia deriverebbe da lycos che in greco vuol dire "lupo" quindi 'terra dei lupi' un'altra decodificazione fa derivare Licodia da 'Leucatia' e quindi da Leucatea, divinità greca delle acque . Questa interpretazione è stata adotta da alcuni storici per la cittadina di S.Maria di Licodia, o per la zona catanese della Leucatia: tali aree, come pure Licodia E., sono ricche di sorgenti e nell'antichità si collegavano al prezioso liquido divinità da venerare. Un altro etimo probabile del nome della cittadina e, tuttavia, ravvisabile nell'arabo "Al Kudy Ali" cioè 'grande rupe di Ali'. Attualmente, al di là del toponimo, alcuni storici locali vorrebbero identificare Licodia E. con l'antica e misteriosa Ibla Galeatide. Certo è comunque che la zona ebbe rilevanza in epoca classica, a questo momento sono ascrivibili una serie di notevoli testimonianze epigrafiche rinvenute in vari momenti nell'area di Licodia e in località circostanti. Tutte queste iscrizioni sono in caratteri greci anche se si collocano in un arco cronologico assai ampio: nel periodo greco-arcaico, in quello classico, nella tarda antichità. Continuità di vita la cittadina presenta durante l'impero romano e in epoca bizantina.. Un'importante arteria che nella rete viaria greca doveva lambire Licodia E., partendo da Siracusa per ricongiungersi con Agrigento, fu riabilitata certamente in epoca romana e rappresentò il collegamento interno della zona iblea. L'abitato antico doveva estendersi nelle località S. Cono, S. Venera, Calvario, Serpellizza. In tutte queste aree sono state individuate numerose sepolture e materiali ceramici romano-imperiali. Inoltre una chiesetta tricora paleo-cristiana è stata recentemente scavata a Licodia dalla Sovraintendenza di Catania. Numerose pure le testimonianze relative a monumenti rupestri come gli ipogei cristiani della contrada Chiusazza o le sepolture individuate dall'Orsi nel Colle Castello. Licodia E. sopravvisse, quindi, durante tutto l'Alto-Medioevo sino a giungere all'epoca della conquista araba. La riconquista normanna, l'epoca sveva, le succesive dominazioni Angioina ed Aragonese hanno travagliato la cittadina iblea con alterne vicende. Il centro che con la dominazione di Achi da Vizzini nell'XI sec. ha potuto godere di un proprio territorio, dal XIV sec. passato alla famiglia catalana dei Santapau, ha visto un crescente incremento demografico. L'attuale sito è, quindi, un interessantissimo sovrapporsi di culture e dei resti che di esse si sono conservati. Il territorio su cui si eleva è suggestivo e vario, vale la pena, quindi, rivolgere l'interesse sia a Licodia Eubea sia alla zona degli Iblei. e nei conventi di Licodia Per tanti secoli molte attività della vita locale furono legate alle chiese e ai monasteri che avevano giurisdizione su larga parte del territorio, davano lavoro ai contadini e agli artigiani, cedevano fabbricati e terre in enfiteusi, avevavo la guida spirituale della comunità. Le comunità religiose dei vari ordini, non avevano di solito problemi di carattere economico, sicchè parroci e priori si preoccupavano di ingrandire le fabbriche e di abbellire le chiese con opere molto belle e, non di rado, di particolare pregio artistico. Altre volte ciò accadeva per il mecenatismo dei ricchi signori locali o per merito di benefattori che elargivano cospisue somme. Anche a Licodia fu così; ma il terremoto del 1693 che distrusse anche l'antico e famoso castello, ci tolse per sempre la possibilità di ammirare non solo le strutture architettoniche ma anche le opere d'arte che vi si trovavano all'intemo. Unsolo esempio per tutti: lascosse distrussero lachiesadi S.Antonio Abate e il sepolcro di Ambrogio Santapau, marchese di Licodia, fatto principe da Filippo II, Presidente del Regno di Sicilia. Sola superstite la bella statua del Santo. Chiese e monasteri furono spesso il perno intorno al quale ruotavano gli avvenimenti della vita locale; e furono altresì i custodi di un consistente patrimonio artistico che purtroppo, come nel nostro caso, le calamità naturali, l'incuria e l'avidità degli uomini, hanno ridotto a ben poca cosa. Ma a noi oggi interessa accennare, là dove è possibile, alle opere d'arte, all'origine e ai fatti salienti delle chiese, dalle più antiche, delle quali non è più traccia, a quelle che attualmente abbelliscono Licodia. Guardandole più da vicino avremo modo di conoscerle; e potremo conoscere meglio alcuni momenti della nostra storia locale, così frammentaria e incompleta. Le chiese delle quali fu certa l'esistenza sono: quella di S.Antonio Abate, di S.Giovanni (sulle quali torneremo diffusamente), del S.S. Salvatore che sorgeva nella contrada omonima, di S.Pietro lo Vecchio e la chiesa dello Spirito Santo, demolita nel 1970. Tra le chiese ormai sconsacrate, ricorderemo quella della Batia. Inoltre fuori dall'attuale centro abitato c'erano: la chiesa della Trinità in contrada Colombello, quella di Pirrone, quella di Donna Puma dedicata a S.Anna, di cui restano alcuni ruderi tra cui un arco in muratura ancora in piedi. E la Chiesa del Bianchetto, nell'ex feudo Boschitello, anch'essa in piedi, per quanto tempo ancora non sappiamo, se c'impediranno di intervenire. A Licodia, tra il 1500 e il 1600, vi furono: un convento di Domenicani, uno di Cappuccini, uno di Carmelitani e un quarto di Francescani Conventuali. Due erano ì monasteri: uno apparteneva alle Monache Benedettine, l'altro alle Monache francescane. Secondo un'antica relazione manoscritta, riportata dal Mongitore e perciò attendibile, anche i monaci di S.Benedetto, della Congregazione Cassinese, avevano un loro convento vicino al castello. Qui sarebbe avvenuto il miracolo del fulmine che, penetrando nella chiesa, avrebbe attraversato gli abiti di un religioso raccolto in preghiera, lasciandolo illeso. Cominciamo con la chiesa del Bianchetto. E' una costruzione di una estrema semplicità architettonica, con un'unica porta d'accesso e tre aperture circolari in alto: una sulla porta, le altre due ai lati. La pianta è di forma ottagonale, uguale a quella della chiesa del Calvario che però nella parte posteriore differisce alquanto nella struttura. Infatti tutta la sezione absidale di quest'ultima, manca nella chiesa del Bianchetto. Probabilmente le due costruzioni sono coeve e uno studio approfondito potrebbe confermare la nostra supposizione secondo la quale l'una e l'altra chiesa risalgono, se non al periodo bizantino, per lo meno ad epoca anteriore al periodo normanno. Nessun documento o iscrizione conforta purtroppo questa ipotesi. Si noti però che le due chiese non hanno il campanile, che in Italia fece la sua apparizione non prima del VII sec. Qualche altra chiesa, come quella di contrada Donna Puma, che risale al '500, aveva il suo piccolo campanile con scala a chiocciola. In ogni caso la chiesetta dei Bianchetto è la testimonianza più antica di architettura religiosa oggi esistente a Licodia; e come tale deve essere conservata ad ogni costo. CHIESA MADRE: Distrutta nel 1693 dal terremoto, fu ricostruita intorno all'unica ala rimasta in piedi, che corrisponde all'odierna cappella di S.Antonio Abate, allora di S.Margherita. La magnifica facciata rimase incompleta, come si può osservare, nella parte più alta. Gli elementi decorativi, dai capitelli ai fregi, ai mascheroni, sono tipici del tardo Barocco siciliano. Pur con le dovute cautele, io credo che si possa fare un accostamento con la facciata della chiesa di S.Pietro, in Modica, che risale pure ai primi decenni del XVIII sec. La possente torre campanaria conserva ancora il campanone fuso nel 1628 dal tortoriciano Francesco Garbati, col nome di S.Margarita. La chiesa fu consacrata e aperta al culto nel 1738. Per accedervi bisognava arrampicarsi per la colfinetta. Impresa poco agevole, com'è facile immaginare, specialmente nel periodo invernale. La situazione peggiorò quando, in seguito alla costruzione della strada per Pantaleo-Chiaramonte, in quel tratto fu fatto uno spianamento per ridurre il corso allo stesso livello della nuova strada. I fedeli dovevano inerpicarsi per andare in chiesa, essendo questa rimasta parecchi metri al di sopra del livello stradale; cosicchè in più occasioni ebbero a lamentarsi morti e feriti. Nel 1893, su progetto redatto dall'ingegnere Antonino Astuto da Licodia, si provvide a sistemare la piazza e a costruire la gradinata. All'intemo della chiesa, tra le tele che stanno attaccate alla pareti, spicca a destra i I dipinto con l'effigie della Reverenda Suor Sapienza Santapau, dell'ordine dei Benedettini, racchiuso in una cornice riccamente lavorata. In fondo alla navata sinistra, accanto all'altare fa bella mostra di sè un'antica immagine della Patrona Santa Margherita, che si vuole sia stata recuperata intatta tra le macerie, dopo il terremoto. In fondo alla navata destra si può ammirare l'antico altare sul quale domina la statua di S.Antonio Abate, scolpita in legno, riccamente decorata e col maialetto accanto. Vero gioiello della scultura lignea secentesca, fu scolpita nel 1617 dallo scultore Giovanni Battista Galone, come ci dice la scritta in latino, scolpita sulla base. Sul lato destro, in una cappella affrescata con episodi della vita del Battista, sta la statua di S.Giovanni. Opera di un certo pregio artistico, è particolarmente cara ai licodicsi perchè fu modellata da un nostro concittadino. Sulla base si legge testualmente: 'Tatta con le sue proprie mani da Sebastiano Busacca". Devoto del Santo fin quasi al fanatismo, pare che si sia ispirato all'antica statua della chiesa omonima di Vizzini. I più vecchi lo ricordano come un vero artista. E tale egli si dimostrò quando plasmò l'effige del suo santo prediletto di cui per molti anni organizzò la festa. La tela che chiude alla vista la cappella di San Giovanni, fu eseguita nel 1933 dal prof. Albertella, a spese di Sebastiano Busacca. L'Albertella dipinse anche i due quadri della cappella accanto. Il Busacca volle che per il suo S.Giovanni anche il fercolo ('a vara) fosse opera di un licodiese; e la costruzione venne affidata ad uno dei più bravi artigiani del tempo: il falegname Giovanni Mannuzza che aveva la sua bottega sul Corso Umberto, all'angolo con via Galilei. Nella Matrice, in una nicchia ricavata nella parete sinistra, sopra un reliquario, sta il Cristo nell'uma. Questa magnifica bara, da noi chiamata 'a cascia, è opera di un valente artigiano vizzinese, nato verso la fine del 1700, e apprezzato per il talento artistico con cui si dedicava alla lavorazione del legno. Appartenne ad una famiglia di ebanisti che si tramandavano l'arte di padre in figlio. Il suo nome fu Matteo Cutraro e lavorò alla costruzione della bara dal 1836 al 1840. Nel grande scaffale della sacrestia si trovano un grande ostensorio, alto circa 60 centimetri; e una pisside. Ambedue portano il marchio del consolato di Catania, formato da un elefante con sopra la lettera A, che significa Agata. L'archivio comprende in prevalenza i registri di nascita e di morte, ad iniziare credo, dal 1633. Rare le annotazioni. C'è anche un foglio manoscritto del 1705, molto importante, del quale parleremo tra poco. Infine, nella Matrice si conserva la famosa tela che il sabato santo cadeva con fragore, facendo apparire Cristo Risuscitato. Fu dipinta nel 1865 da Giuseppe Tanasi di Palazzolo. CHIESA DEL ROSARIO: La chiesa, i locali del Municipio e la clinica del Dottor Falcone, formavano l'antico convento di S.Domenico. Sorto in epoca imprecisata, l'undici gennaio del 1693 fu distrutto dal terremoto e occorsero 54 anni prima che ne fosse ultimata la ricostruzione. Sul frontespizio leggiamo: TEMPIO DEMOLITO NEL 1693 E RIFATTO NEL 1747. All'interno si trova un unico dipinto che ha come soggetto S.Domenico. Sempre a sinistra s'innalza il pulpito in legno dorato. Osserviamo ancora la statua della Madonna del Rosario, restaurata nel 1954, e la statua in legno del Salvatore. Sull'ingresso sono scolpite le insegne vescovili e il cane con la fiaccola, simbolo dell'ordine dei Domenicani. Spicca l'altare in legno, artisticamente molto bello, che forma corpo unico con le due porte laterali, su ciascuna delle quali poggia un angelo alato. Nella sacrestia si trovano due ritratti di religiosi dell'ordine dei Predicatori: uno di Caccamo, datato 1763; l'altro di Palermo, della stessa epoca. In ripostiglio si conserva la statuetta della Bammina che voglio ricordare non per motivi artistici, ma perchè ad essa è legata un'altra tradizione locale, ormai scomparsa: il giro della piazza Rosario ch'essa faceva nel giorno dell'Epifania, rinnovando l'antica tradizione della presentazione di Gesù Bambino al Tempio. CHIESA DEL CARMINE: E' la chiesa dell'antico convento carmelitano sorto nell'odierno quartiere Carmine, già Carcarella, per volontà di Donna Antonia Del Balzo, moglie di Ambrogio Santapau, la quale nel 1575, ultimati i lavori, vi fece trasferire i Carmelitani dalla sede di S.Pietro il Vecchio. Trascorso poco più di un secolo, il convento rimase danneggiato dal terremoto. 1 danni però non dovettero essere molto gravi e nel 1713 i restauri ebbero termine. Nel 1866 questo convento subì, insieme agli altri, un terremoto politico: le corporazioni religiose furono soppresse e i nostri conventi e i monasteri cessarono di esistere, mentre i locali furono consegnati al Comune. Nel 1908 l'edificio subì gravi danni a causa del sisma che distrusse Messina. Crollò una parte notevole del campanile, dal quale si staccarono grossi massi che lesionarono le volte dell'edificio scolastico maschile che fu dichiarato inagibile. In seguito il campanile fu ricostruito nella sua forma originaria. Verso la fine degli anni venti l'edificio fu completamente trasformato, con l'aggiunta di un secondo piano. Nel vecchio convento si conservava una serie di ritratti di religiosi licodiesi, vissuti tra il '500 e il '700, i quali avevano ricoperto la carica di Visitatore Apostolíco, Maestro di Sacra Teologia, Provinciale o Priore; ed erano sepolti nella cripta. Quei ritratti sono andati tutti perduti. Il campanone è del 1800; l'altra campana porta scolpito il nome di don Angelo Scordino, priore carmelitano di Licodia nel 1824. Nell'intemo della chiesa si osservano due magnifici monumenti funebri in marmo della famiglia Interlandi: uno del XVI sec., l'altro del XVII. Sulla provenienza del primo vorrei avanzare un'ipotesi. Datato 1554, è anteriore all'epoca del trasferimento del convento. Secondo me, quando il figlio Raimondo lo fece erigere, per la morte del padre Don Pietro, lo fece sistemare nella chiesa dell'omonimo santo, di cui il padre era probabilmente devoto. Se così fosse, allora questo sepolcro proviene da S.Pietro lo Vecchio; mentre l'altro di stile identico, fu poi eretto nella chiesa del Carmine. Tra i dipinti, tutti senza cornice, qualcuno è di buona fattura. Per esempio, la "Deposizione" sulla parete a destra dell'altare maggiore, è attribuibile ad artista di scuola siciliana secentesca. Tra le statue, la più degna di essere citata è senz'altro quella di S.Leo, di fine stile. Ma la cosa più interessante, meritevole di un pronto restauro, è, a mio giudizio, il pulpito, genuina espressione dell'iconografia religíosa, ricoperto da sette pannelli rettangolari, ciascuno dei quali reca il ritratto di un papa o di un martire o di un vescovo dell'ordine. In alto nel cartiglio, la pianta dell'isola di Cipro e, sotto, INSULA CIPRUS. In un quadro incorniciato, qualche religioso non privo di talento riprodusse fedelmente l'immagine del martire carmelitano S. Spiridione, con qualche lieve modifica alle mani e al cartiglio che riporta un disegno diverso da quello del pannello. CHIESA DELL'OSPEDALE: All'interno, vi sono quattro tele della stessa dimensione. Nella prima a sinistra campeggia un nastro, tenuto da angeli sul quale è scritto: INFANTES CHRISTO INFANTULO CORONA - 1673. Di fronte, a destra, sta una gigantesca ed espressiva figura di S. Cristoforo. In basso si nota un rettangolo di pochi centimetri quadrati, sul quale stava scritto probabilmente il nome dell'autore. La data, riscritta in epoca posteriore, porta il millesimo 1677. Negli altri due dipinti, aventi per soggetto la Madonna, non si rileva alcuna data. Sopra le prime due tele, il alto sulla parete, si legge: CAPPELLA FATTA A SPESE DEL DEVOTO FRAT'ANTONIO DI CATANIA 1614. Sulla terza c'è la stessa scritta ma con data 1671. Inoltre manca la T di frate. Ne deduco che la scritta ebbe a subire dei ritocchi che alterarono la data originale, forse 1611. Mi sembra strano infatti che quel devoto catanese abbia fatto costruire la terza cappella a ben 57 anni di distanza dalle prime due. C'è poi la statua di S. Francesco di Paola, in legno, ben conservata se si eccettuano tracce di tarlo alle spalle. C'è però un'opera d'arte nella chiesa, che non è esagerato definire un capolavoro: il magnifico Crocifisso in legno, a grandezza naturale, il cui volto ha un'espressione di rassegnata sofferenza così intensa che solo un grande artista poteva modellare. La sua bellezza fece fiorire una leggenda secondo la quale l'anonimo artista, dopo aver modellato tutto il corpo, si diede a completare il Crocifisso modellando il capo, senza però riuscirvi. Dopo reiterati tentativi, un giorno, con comprensibile stupore, si trovò davanti i 1 Cristo con la testa meravigliosamente scolpita! Sulla croce vi è la triplice scritta in ebraico, in greco e in latino. In questa cappella,dove si ammira anche il volto sofferente dell'Addolorata, si intravedono antichi affreschi in parte nascosti dal Crocifisso e dal grande reliquiario, che meritano di essere studiati. Sull'aspetto esterno della chiesa si può dire che la struttura è quella originaria in quanto non subì danni dal terremoto. La costruzione risale al 1607, durante il regno di Filippo III di Spagna e sotto il marchesato di Vincenzo Santapau. La chiesa fu eretta da Don Ascensio De Pisanis, il cui sepolcro troviamo all'interno. Sul frontespizio è scolpito a chiare lettere, in latino, quello che potremmo definire l'atto di nascita della chiesa stessa. Nei locali annessi, detti dell' Ospedale, furono ospitate le suore benedettine della Batia sino al 1705, come vedremo più avanti. Qualcosa vorrei dire sulla torre: Nel 1889 fu deciso di sistemare un nuovo orologio sulla sommità della chiesa dello Spirito Santo. Pertanto si provvide alla costruzione di un casotto necessario per sistemarvi la macchina con tutti gli annessi. Quattordici anni dopo, esattamente nel mese di dicembre del 1903, a causa del violento maltempo, il casotto crollo insieme con l'orologio provocando molto panico. Il problema si ripropose con urgenza, giacchè i rintocchi che scandivano le ore erano di somma importanza per la vita della comunità. La questione si trascinò, per ragioni politiche sino alla primavera del 1905. Subentrata la gestione commissariale, il Regio Commissario stabilì che fosse conveniente rimettere l'orologio nell'antico sito della Chiesa dell' Ospedale, facendo però alzare la torre di otto metri e mettendo un doppio quadrante. L'antica torre perciò era molto più bassa di quella attuale. La campana si può considerare un pezzo da museo essendo stata fusa circa mezzo millennio fa, nel 1489. L'epigrafe, un misto di latino e di siciliano, è la seguente: MILLESSIMO CCCCLXXXVIIII (quadringentesìmo octogesimo nono) MASTRU PETRU VINUTU DE T (e)RATORTORICIME FECIT. ILLUSTRI E POTENTI S.(endu?) LU S. (ignuri) DON RAMUNDU SANTAPAU FRATER BERNARDINUS 0 PRIOLUS SOI DONA - 1 caratteri sono gotici. In basso, sul bordo si legge ancora: DEVOTA SCICONI LOKINMA. Cosa significa questa espressione? Non è molto chiaro. Cercherò tuttavia di dare una mia interpretazione. Il millesirno 1489 è anteriore di 118 anni alla costruzione della chiesa. Per chi venne fusa allora la campana? Quale fu in origine la sua sede? Si da per certo che in contrada Santo Cono sorgesse un convento, più o meno nel luogo in cui si trova il caseggiato dei Lo Greco Tramontana. L'iscrizione perciò potrebbe intendersi così : Devota Sancti Coni Lokinma = Lokinma (nome dell'epoca) devota di San Cono. Oppure, altra ipotesi, in questa parola al posto della prima A si troverebbe erroneamente la N. Ma nell'epigrafe si riscontrano altri errori oltre alle lettere fuori posto o in posizione sbagliata. Del resto parliamo di una fusione di 500 anni fa, fatta con ogni probabilità in loco. In quanto alla K giova ricordare che questa lettera era largamente usata nell'antico dialetto siciliano. Altro particolare: San Cono Navacita, di Naso, vissuto tra il XII e il XIII secolo, per parte materna discendeva dai Santapau. E' perciò verosimile che costoro lo onorassero particolarmente. Infatti il Comune di San Cono fu loro feudo; e anche il convento sorto nella contrada, fu intitolato al Santo. Se queste supposizioni hanno un fondamento, si deve dedurre che la campana della Chiesa Ospedale proviene dal convento di San Cono. CHIESA SPIRITO SANTO: Su questa chiesa non ci sono elementi particolari, prima ancora di essere demolita, era già chiusa al culto da molti anni, sicchè ne era vietato, o sconsigliato, l'accesso. Nel XVII secolo esisteva già e a Pasqua vi faceva tappa la processione del Cristo. Il disegno della facciata, che tutti ricordiamo, era molto simile a quello della Batia, dimensioni a parte. Sull'architrave della porta minore, sul Corso, era scolpito lo stemma municipale di Lícodia: un lupo rampante con il vessillo. Fortunatamente questo pezzo molto interessante si è salvato in alto, sui due spigoli della facciata, erano collocate due statue che nel 1907 furono demolite perchè cadenti. Furono sostituite con altre due che sino agli anni trenta erano ancora al loro posto. L'unica testimonianza dell'intemo ci è data da due statue di santi, in cartapesta. Il nome della chiesa è legato a uno dei momenti della cronaca politica locale. Nel 1860, subentrata ai Borboni la dinastia dei Savoia, dovendosi convocare i Colleggi elettorali per l'elezione del Deputato che doveva rappresentare il Comune, il Magistrato Municipale (oggi diremmo la Giunta) presieduto da Don Luigi Scordino, destinò per la riunione dei lettori la Chiesa dello Spirito Santo, "come sito centrale e vasto". CHIESA DEI CAPPUCCINI: L'origine di questo convento risale al 1568. La sua primitiva fisionomia fu profondamente modificata dal crollo avvenuto in seguito alle scosse telluriche del 1693. Rimase in piedi l'ala sinistra dove ancora si conservano le celle cinquecentesche e parte del chiostro. Sul frontone c'era a destra la sola nicchia del campanile, verso il 1954 se ne costruì una uguale sullo spigolo opposto, e vi furono sistemate le due statue di San Francesco e dell'Assunta. Sino allo scorso secolo, nel piano di fronte alla chiesa era infissa un'antichissima croce di pietra. A causa dei lavori di sistemazione delle strade, essa venne scioccamente abbattuta. All'interno, di notevole pregio artistico è l'altare maggiore secentesco, in legno intarsiato, con statuine in avorio, una delle quali è coeva all'altare. Sulla parete di fondo, si osservano ai lati due modesti dipinti, datati 1802 e 1817. Un altro dipinto con la figura di San Francesco fu eseguito a spese di Alfonso Santapau dei Principi di Palazzolo. In basso si legge: ANNO 14' - Se ciò sta a significare nel 14' anno da quando i Santapau - Ruffo si infeudarono Palazzolo (nel 1622), allora il quadro è del Seicento. Ma questa non vuole essere che una semplice ipotesi. Tra le tele di piccole dimensioni, la "Madonna col Bambino" posta sulla parete di fondo accanto all'ingresso, a tinte forti e con forti contrasti di chiaro scuro, tipica espressione della cultura siciliana del XVII secolo, mi sembra la più antica e la più pregevole. Insieme con le altre di stile analogo, potrebbe attribuirsi ad artisti di scuola caravaggesca. Molto espressiva è la statua di San Francesco, posta in una delle cappelle a sinistra. Sulla parete, accanto al fonte battesimale, stanno le lapidi marmoree di Camilla Santapau e del marito Muzio Ruffo, con i rispettivi stemmi araldici; e del figlio di secondo letto, sacerdote Giuseppe. Altre cose belle e antiche sono conservate nel convento, in partìcolare la biblioteca. In sacrestia è custodito il ritratto su tela di Frate Francesco Cascio da Licodia, morto missionario nel Congo il 18 aprile 1682, in odore di santità. Il convento dei Frati Cappuccini è il solo che, dopo la soppressione delle case religiose, sia stato restituito successivamente all'Ordine. CHIESA DI SANTA LUCIA AL BORGO: Divenuta parrocchia nel 1945, l'architettura esterna subì profonde trasformazioni. E' l'unica chiesa del quartiere più antico di Licodia, quando il paese era un modesto casale abbarbicato sulle pendici del castello. Detta oggi di Santa Lucia e prima ancora di San Nicolò, nei secoli passati portò il nome glorioso di San Giovanni. Con quella di Sant'Antonio, furono le sole due chiese dell'antico casale esistenti all'inizio del 1300. Dai documenti ufficiali si legge che: la chiesa di Sant'Antonio dello stesso luogo once I e mezza: paga per la prima (decima?) tarì 4 e mezzo e per la seconda tarì 4 e mezzo; e per la reintegrazione di ambedue, tarì 6 e tarì 15. La chiesa di San Giovanni vale once 2 e paga per la prima tarì 6. Una terza notizia dice che: nel casale con castello di Licodia, della diocesi siracusana, fu rimosso l'interdetto. Nel quale (casale) subitamente le case capaci di pagare furono 90, che ammontano secondo l'indulgenza regia a once 5, tarì 7, grana 10, ridotti i quali a peso buono, la perdita fu tarì 22 e grana 10. Restano sicuramente per la camera (fisco) once 4 e tarì 15. Questi dati testimoniano la presenza certa delle due chiese nel nostro casale. La chiesa di S. Giovanni doveva essere più grande o più importante o più ricca. Era valutata infatti mezza oncia in più e pagava una decima superiore a quella di S. Antonio. MONASTERO DI SAN BENDETTO E SANTA CHIARA (BATIA): Costruzione imponente, che si estendeva dall'odierna via Goito sino al 'Valatizzu', questo monastero fu ricostruito dopo essere stato distrutto dal terremoto del 1693. Nel 1867, dopo la soppressione delle case religiose, le suore superstiti furono trasferite nel convento di S.Sebastiano a Vizzini, a spese del Comune. Nel 1849, durante la dominazione borbonica, quelle stesse suore, finissime ricamatrici, furono incaricate dal Magistrato Municipale di eseguire l'iscrizione in oro, con fregio, sulla bandiera che il Comune aveva acquistato per 4 onze e che doveva essere consegnata alla Guardia Nazionale per una spedizione militare. Quando i locali passarono in proprietà al Comune, furono dati in affitto o utilizzati per scopi diversi, cosicchè subirono profonde trasformazioni. Della vecchia Badia rimase solamente la chiesa, dove ancora si conservano i busti in gesso di 6 Santi e Martiri: S.Agnese, S.Agata, S.Caterina, S.Lucia, S.Rosalia e S.Ursula. Il soffitto era abbellito da un grande affresco rettangolare con episodi della vita di S.Benedetto e S.Chiara. L'incuria e un incendio che anni or sono si sviluppo nel locale, hanno rovinato in modo irreparabile questa testimonianza d'arte settecentesca. In origine il monastero era stato fondato nel 1595 col nome di S.Chiara, con il contributo di Alfio Vassallo. Ma non era il solo: un monastero di monache dell'Ordine benedettino esisteva già dal 1575. Don Rocco Pirro, nella sua "Sicilia Sacra" è esplicito. Uno francescano, dunque, e uno benedettino. Ma a togliere ogni residuo dubbio ci viene in aiuto il documento manoscritto del 1705, di cui ho fatto cenno, che trovasi nell'archivio della Matrice nel quale è detto che le due feste di S.Chiara e S. Benedetto dovevano svolgersi con uguale pompa, e che anche le suore clarisse potevano essere elette abbadesse. Dal punto di vista geologico il territorio di Licodia è importante per la presenza delle più antiche formazioni rocciose di tutta l'area Iblea. Otto milioni di anni fa circa, all'inizio di quel periodo che i geologi chiamano "MESSINIANO", il bacino del Mediterraneo è stato interessato da movimenti che hanno determinato la chiusura dell'unica via di comunicazione con l'oceano Atlantico, localizzata nell'attuale Stretto di Gilbiterra. Questa chiusura ha trasformato il Mediterraneo in un bacino chiuso, senza, cioè, possibilità di scambi con i grandi oceani; per essere più chiari esso si trasformò in un immenso lago in cui l'apporto di acque era soltanto quello proveniente dalle piogge. Ma queste piogge non riuscirono a bilanciare le perdite di acqua per evaporazione; conseguentemente lo spessore dell'acqua cominciò a diminuire, e i sali minerali in essa disciolti iniziarono a depositarsi. Parecchi sono i sali disciolti nelle acque marine, sia quantitativamente che qualitativamente e nelle aree con piccoli spessori d'acqua si formarono grandi distese di rocce contenenti questi sali, alcuni dei quali noi oggi usiamo comunemente. Il primo sedimento a formarsi è stato quello che i geologi chiamano Tripoli; si tratta di una roccia silicea formatasi in seguito alla morte, per eccesso di salinità, di alghe microscopiche dette Diatomee, le quali depositandosi sul fondo marino hanno spesso intrappolato altri organismi maggiori, come i pesci conservandone perfettamente lo stampo. Successivamente cominciò a precipitare il meno solubile dei sali il carbonato di calcio (CaC03), seguito dal gesso (CaS04.2H20) e dal salgemma (NaCI), oltre ad altri sali minori. Queste formazioni rocciose vengono denominate "evaporiti", per la loro genesi da evaporazione di acqua di mare. Il periodo in questione si conclude con la riapertura dello stretto di Gilbiterra, segnata da un'ingresso di acque provenienti dall'Oceano e quindi da una notevole ripresa della normale sedimentazìone che origina calcari bianchi ricchi di microrganismi , detti "Trubi". Il territorio circostante Licodia Eubea è stato interessato da questi eventi; conseguentemente esso è ricco delle rocce di cui abbiamo parlato. In particolare, quello che più colpisce il visitatore è il luccichio dei cristalli di gesso, molto comune in tutto il territorio; in particolare il gesso occupa tutto l'edificio di M. Colombrello a Nord-Ovest dell'abitato da cui è stata anche ricavata una cava. Ma, geologicamente parlando, il territorio di Licodia è importante per la presenza delle più antiche formazioni rocciose di tutta l'area iblea: la cosiddetta formazione Hybla, ricca di fossili di età Cretacica (da 120 a 100 milioni di anni fa circa), che affiora a Monte Boschitello a sud-est dell'abitato, a cui seguono la formazione Amerillo, calcari stratificati il cui top presenta strati notevolmente piegati e accartocciati (in gergo geologico SLUMPING), dovuti a scivolamenti quasi contemporaneì alla deposizione, interessanti da osservare nei pressi del lago Dirillo e in c.da S. Venera ad est del paese. Varia la grana del sedimento e il tipo di stratificazione nella successiva formazione denominata formazione Ragusa, pur restando sempre nel campo delle rocce calcaree; si passa poi ad argille color avana che occupano in genere tutte le zone vallive a morfologia blanda, riconoscibili perchè sono un ottimo terreno agrario. Si arriva infine alle "evaporitì" e ai "trubi" di cui si è già dato cenno. Ma un altro infausto evento geologico ha interessato l'area, nel periodo chiamato pliocene superiore (25 milioni di anni fa circa), subito dopo i Trubi; manifestazioni vulcaniche in parte sottomarine, in parte subaeree hanno cosparso l'area di rocce nere spesso alternate a bianchissimi calcari: non è un evento straordinario, perchè già in epoche geologiche precedenti, in aree attigue (M. Lauro,Vizzini, Carlentini), si erano avute almeno altre tre manifestazioni vulcaniche. L'abitato di Licodia sorge in parte sopra un placcone di vulcaniti. Chi si accinge a fare una passegiata per il territorio comunale di Licodia, si accorgerà che esso è in prevalenza collinare, composto da una serie di dolci rilievi arrotondati. Al visitatore, anche profano, possiamo fornire una chiave di lettura del territorio per una immediata individuazione delle aree di affioramento; la morfologia e il tipo di vegetazione sono, infatti, indicatori associabili facilmente alla tipologia rocciosa. 1 calcari più antichi hanno generalmente una morfologia accidentata; le argille occupano le incisioni e sono utilizzate come terreno agrario. Il sedimento siliceo detto Tripoli costituisce una fascia di 1 - 2 metri di spessore più o meno continua, in corrispondenza delle quali cresce la "Disa" o tagliamani (Ampelodesma Mauritianica), cespuglio tipico della Gariga siciliana; i gessi sono facilmente riconoscibili dal loro aspetto cristallino e dal fatto che difficilmente vi si riesce ad insidiare una buona vegetazione; i Trubi sono quei calcari che riescono a farsi colonizzare dalla rara vegetazione arborea della zona, costituita da boscaglie di Pino D'Aleppo; le vulcanti, infine, per il loro colore nero, possono essere facilmente individuate. Percorrendo in auto la strada che da Licodia conduce a Vittoria, si possono fare brevissime escursioni alla scoperta dell'ambiente naturale e rurale del territorio. Superata a sinistra la sorgente detta Acquamolla si prosegue fino ad incontrare l'unica stradella asfaltata sulla sinistra; si posteggia e aggirando il colle a sinistra si arriva ad una pista che in breve raggiunge una piccola cappella esagonale, ìn rovina, superata la quale è possibile osservare le pareti del colle (M. Sarpellizza in carta), in cui è visibile una alternanza di colori, bianco abbagliante e nero-rossastro, attribuibile ai Trubi e alle vulcanti. Tornando indietro per la stessa strada si prosegue con la macchina, attraversando un'incisione su gessi, ben visibile dalla strada. Una bella parete sulla destra mostra anche il gesso cristallizzato nella sua forma tipica a coda di rondine; tutt'attorno boscaglie di Pino d' Aleppo, unica essenza arborea presente. Proseguendo si arriva ad uno spiazzo in cui finisce la strada, lasciata la macchina si prosegue a piedi per arrivare sulle sponde del lago Dirillo, invaso artificiale, ricco di pesci e nel quale è possibile osservare oltre alle comunissime cornacchie, anche specie dì uccelli più rare che qui trovano ristoro nel periodo delle migrazioni. I comune di Monterosso Almo, poco più di 3700 abitanti, si estende per circa 56 chilometri quadrati nella zona centrale dello zoccolo sud-orientale dell'Isola, alle pendici dei Monti Iblei; confina con il comune di Licodia Eubea, in provincia di Catania, e con i comuni di Ragusa, Giarratana e Chiaramonte Gulfi. Sotto il profilo geo-politico, il comune risulta inserito in un comprensorio montano, posto alla confluenza delle provincie di Ragusa, Siracusa e Catania, costituito dai comuni dell'ex comunità montana degli Iblei e risulta classificato zona agricola svantaggiata ai sensi della direttiva CEE n.75/268 per la presenza di condizioni non favorevoli allo sviluppo. Nell'ambito di tale comprensorio, è da evidenziare l'estrema vicinanza dei centri di Giarratana, Monterosso Almo e Chiaramonte Gulfi e di questi con Ragusa che, oltre ad essere sede dei principali servizi tecnico-amministrativi, costituisce il polo verso cui gravitano gli interessi culturali e commerciali. Il territorio, posto fra un'altitudine minima di 502 metri ed una massima di 849, è attraversato da corsi d'acqua a carattere torrentizio; esso risulta destinato in massima parte per l'agricoltura e, in particolare, per il 40% a colture estensive, per il 20% a pascolo e per ben il 35% a bosco. L'esame dei dati sull'andamento demografico rivela che dal 1961 la popolazione manifesta un calo continuo che negli ultimi anni appare, tuttavia, più contenuto. Lo stato delle infrastrutture primarie del territorio appare complessivamente insoddisfacente; sia le reti viarie che le reti idrica e fognante, sono considerate mediocri; l'approvigionamento idrico è insufficiente e la captazione di nuove sorgenti problematica, data la loro ubicazione a valle; la rete elettrica risulta insufficiente specialmente nelle campagne. Soddisfacente invece il settore delle infrastrutture socio-culturali: la boblioteca comunale, cui è annessa una sala conferenza in via di ultimazione, è stata recentemente realizzata secondo moderni criteri; le infrastrutture sportive risultano insufficienti e inadeguate ma si rilevano interventi in corso per il completamento del campo di calcio, per la costruzione di due palestre, di cui una annessa alla scuola media, e per la costruzione di una piscina. Positivo, infine, il giudizio relativo ai servizi assistenziali che si esplicano sia in favore della prima infanzia (un asilo nido ed un asilo infantile per i quali sono in programma opere di completamento), sia in favore degli anzianí (assistenza domiciliare ed attività ricreative). Per quanto riguarda le risorse ambientali, viene segnalata una zona di interesse archeologico (località Casasia), costituita da insediamenti greci e romani, che tuttavia non risulta valorizzata. Da rilevare, comunque, che il territorio di Monterosso, grazie soprattutto alla massiccia presenza di boschi, offre notevoli risorse di tipo naturalistico tra le quali vengono evidenziate la tenuta di Canalazzi e la contrada Serrarossa. In particolare, a Canalazzi l'ispettorato forestale sta provvedendo alla ristrutturazione di un pregevole caseggiato e al ripopolamento faunistíco, anche se attualmente non si prevede lo sfruttamento turistico della zona per la mancanza di una strada di collegamento. Rilevante anche il patrimonio architettonico, costituito principalmente dal palazzo Cocuzza (stile liberty), già acquistato dal comune per adibirlo a sede municipale, dal palazzo Ferraro (stile barocco), per il quale è previsto l'acquisto e la destinazione a museo polivalente, e dalla Chiesa Madre (stile gotico), che custodisce, oltre a pregevoli pitture, una preziosa acquasantiera del '400; lo stato di tale patrimonio è ritenuto mediocre. Per quanto concerne l'economia, emerge su tutto il dato dell'agricoltura estensiva che rappresenta la principale attività dei Monterossani i quali la esercitano in proprietà molto frazionate, ubicate non solo nel territorio comunale, invero poco esteso, ma anche nel territorio dei comuni limitrofi (Giarratana e Nicosia). In altri termini, si tratta di redditi conseguiti fuori del comune di Monterosso ma che a Monterosso, almeno parzialmente, ritornano, dando linfa a un'economia certamente modesta. In ogni caso si tratta di un'agricoltura poco remunerativa perchè ancora arretrata tecnologicamente e mal supportata dalla struttura pubblica di assistenza tecnica, anche a cusa dell'inadeguata specializzazione della stessa nel campo dell'agricoltura di montagna. Un discreto sviluppo ha la pastorizia con buona produzione di formaggio pecorino. Il territorio, oltre a quella dei cereali, ha una buona produzìone dì mandorle, nocì, fichi olìve e discreti vigneti, ma soprattutto delle buone e grosse ciliege (raffiuni). Per quanto riguarda le altre attività economiche si rileva una modesta attività zootecnica e un ancor più modesto artigianato, legato essenzialmente alle esigenge della comunità. del tutto assente, invece la componente turistica (nessuna struttura ricettiva), nonostante le potenzialità del territorio. Solo recentemente il Comune, di concerto con l'azienda forestale, ha programmato un intervento nelle già citate contrade Canalazzi e Casasia per la realizzazione di una struttura di agriturismo che dovrebbe avere il suo nucleo principale nell'ex scuola di campagna. |