A NICOLOSI
Storia, Leggenda, Mistero
di Fabio Cardile

Storia: Il Monastero di San Nicolò l’Arena
Dipinto del Monastero di San Nicolò l'Arena situato a Nicolosi
In inverno, quando il cielo è limpido, libero dalle nuvole, gli abitanti di Nicolosi volgendo lo sguardo verso nord diventano testimoni di uno spettacolo meraviglioso, l’Etna come una signora sembra agghindata con uno scialle, uno scialle scintillante effetto del sole che ama specchiarsi nelle abbondanti nevi che ricoprono il vulcano. La montagna nasconde, infatti, un cuore caldo, il magma che attinge dalle viscere della Terra, che ha un calore di intensità inferiore solo al calore che i nicolositi, ma del resto tutti i siciliani, sanno trasmettere a chiunque venga in contatto con loro. Per raggiungere l’Etna bisogna attraversare tanti paesini, ricchi di monumenti (a volte dimenticati), di tradizioni e di affascinati spazi naturali. Prima di salire sul vulcano, consigliamo al turista di fare una visitina alla sede dell’Ente Parco dell’Etna, non solo per ottenere preziose informazioni sugli itinerari e su tutto quello che riguarda la flora e la fauna del parco, ma anche per ammirare un edificio permeato di storia e mistero. Pochi sanno, infatti, che la sede attuale dell’Ente Parco dell’Etna è una struttura tra le più antiche e importanti di
Monastero di San Nicolò l'Arena situato a Nicolosi
Nicolosi. In questo luogo esistevano già nel XII sec. un’antichissima cappella rupestre di formazione spontanea arenosa, un ospizio per monaci malati, qualche casolare e qualche stalla di proprietà di un certo Letho, alla morte del quale passarono per volontà del conte Simone di Policastro, nel 1156, sotto la custodia del monastero benedettino di San Leone di Pannachio (fondato nel 1136 da Enrico del Vasto e distante circa due miglia da detto ospizio). Più tardi nel 1205 il priorato di San Leone con le sue dipendenze (cioè con l’ospizio di San Nicolò la Rena perché sorse su un terreno ricco di “rena” cioè terra sabbiosa) venne unito al monastero di S. Maria di Licodia costruito nel 1143 e divenuto sede abbaziale. Questa situazione rimase tale fino al 1359 quando per volontà di Federico II d’Aragona si iniziò la costruzione del monastero di San Nicolò presso quell’ospizio per raccogliere i monaci infermi della casa madre. Dopo la sua costruzione divenne a poco a poco prospero, ricco, importante tanto da superare quello da cui dipendeva e diventare esso stesso sede abbaziale. Il prestigio raggiunto dal monastero ci è testimoniato dalle frequenti visite della regina Eleonora, moglie di Federico II d’Aragona, e più tardi della regina Bianca di Navarra, moglie di re Martino il Giovane. L’elevazione a sede abbaziale richiese una concentrazione stabile di personale addetto alla regola, oltre a contadini, pastori che lavoravano le terre dei monaci e finirono per formare una colonia detta di San Nicolò, i cui componenti con l’andar del tempo furono chiamati “I Nicolosi”. Nelle eruzioni del 1536 e del 1537 la lava seppellì il monastero di San Leone, mentre il Monastero
Monastero di San Nicolò l'Arena situato a Nicolosi
di San Nicolò l’Arena fu danneggiato. Il salvamento del monastero fu salutato come un vero e proprio miracolo infatti i Padri Benedettini ricorsero alla processione della Reliquia del Sacrissimo Chiodo che trafisse Gesù Cristo in croce: l’Abate, del monastero di San Nicolò, Gerolamo Sardo accompagnato da un pio Monaco di Mompileri per nome Barnaba, prese la Sacra Reliquia e andò incontro all’invadente torrente di lava. A causa delle eruzioni, del terremoto del 1542, del desiderio espresso dal popolo catanese di avere in città la reliquia del Sacro Chiodo, delle angherie che “i bravi” arrecavano al monastero, i monaci decisero di costruire un nuovo monastero a Catania e qui vi si trasferirono definitivamente nel 1580. Da quel momento il vecchio convento di San Nicolò l’Arena di Nicolosi si avviò verso un costante decadimento. Solo oggi è stato restaurato e dal 20 giugno 2005 adibito a sede dell’Ente Parco dell’Etna. Nel 1393 il Re Martino aveva regalato ai monaci di San Nicolò una reliquia (quella che aveva portato sempre al collo): uno dei chiodi con un pezzetto del legno della croce sulla quale avevano suppliziato Gesù.
Monastero di San Nicolò l'Arena dopo il restauro
Il Sacro Chiodo è stato conservato dai Benedettini del monastero di Catania fino al 1866 data della soppressione delle corporazioni religiose. Nel 1989 una comunità di Benedettini è tornata nel Monastero di Catania e vi è rimasta fino al 1995, ed ecco riapparire la Sacra Reliquia con la festa il 14 settembre. Successivamente la Reliquia è passata alle Benedettine di clausura, più tardi al museo diocesano. Oggi sembra che sia conservata nella Cattedrale di Catania insieme al tesoro di S. Agata, purtroppo non è possibile vederla.
La Leggenda della “Vera Croce”
La leggenda comincia da Adamo che, vecchio e ormai prossimo a morire, chiede al figlio Seth di recarsi al Paradiso per ottenere dall'Arcangelo Michele l'olio della misericordia come viatico di morte serena. L'Arcangelo, in cambio gli dà un
Monastero di San Nicolò l'Arena situato a Catania
ramoscello dell'albero della vita per collocarlo nella bocca di Adamo al momento della sua sepoltura (o tre semi: cedro, cipresso e pino secondo un'altra versione): ne nascerà un grande albero che riscatterà Adamo dalla sua colpa. Quando il Re Salomone decise la costruzione del Tempio di Gerusalemme, ordinò cha l'albero cresciuto sulla tomba di Adamo fosse tagliato ed utilizzato allo scopo. Invano fu il tentativo, infatti, scrive Iacopo Varazze : "...non c'era posto in cui potesse essere sistemato: o era troppo lungo o era troppo corto, e quando lo si tagliava della misura giusta sembrava così corto da non servire più. Per la rabbia gli operai lo presero e lo buttarono su di uno specchio d'acqua, perché servisse da passerella..." La Regina di Saba, in visita a Salomone per ascoltare la sua sapienza, al momento di attraversare la passerella costituita dal legno inutilizzato, ha una folgorazione: quel legno servirà un giorno per la costruzione della Croce di Gesù e il regno degli Ebrei sarebbe stato distrutto. Il Re Salomone lo fa sotterrare nella piscina probatica (quella dove si lavavano gli animali destinati al sacrificio). Durante i giorni del processo di Gesù la trave riaffiora dalla terra e il legno verrà utilizzato per la costruzione della Croce. Dopo duecento anni l'imperatore Costantino, mentre combatte contro Massenzio, ha una visione: una croce luminosa con la scritta: "In hoc signo vinces". Pone il suo esercito sotto l'insegna della Croce ed esce vittorioso nella battaglia di Ponte Milvio. Sarà lui a dare piena libertà ai cristiani ponendo fine alle
Monastero di San Nicolò l'Arena situato a Catania
persecuzioni. Volendo continuare nelle iniziative a favore dei cristiani, invia sua madre Elena a Gerusalemme per ricercare il legno della Croce. Costei, saputo che un ebreo di nome Giuda conosce il luogo dove si trova la Croce, sottopone l'individuo a supplizio per indurlo a parlare calandolo in un pozzo senza pane e acqua. Dopo sette giorni l'ebreo decide di parlare. Elena scava in una cisterna ai piedi del monte Calvario, ne smuove il terriccio e trova tre patiboli, messi alla rinfusa, quello mediano ha l'iscrizione: “Gesù Nazareno, il re dei Giudei". Secondo un'altra versione, invece, il cartello con il motivo della condanna giaceva confuso tra i vari legni, ma la Vera Croce poté comunque essere identificata grazie alla guarigione istantanea, al suo contatto, di una donna gravemente ammalata, o per l'immediata resurrezione di un defunto. Tornata a Roma, Elena deposita nel proprio oratorio privato del palazzo Sessoriano, poi trasformato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, una parte del patibolo di Cristo, il titolo che lo contrassegnò, uno o due chiodi, una parte della Santa Corona di spine e il braccio trasversale della croce di Disma, il Buon ladrone. L'imperatrice inviò un'altra parte del Santo Legno a suo figlio, a Costantinopoli, mentre la maggior parte fu lasciata a Gerusalemme, in un astuccio d'oro, d'argento e pietre preziose. La prima a segnalarne la presenza, avendolo personalmente venerato durante le funzioni del Venerdì Santo, fu alla fine del IV secolo la pellegrina Egeria, aggiungendo che esso veniva fatto baciare ai fedeli sotto stretta sorveglianza, nel timore che, come già era avvenuto, qualcuno tentasse di staccarne delle parti con i denti. Nel 625 il re Cosroe II, in lotta con gli imperatori bizantini, espugnò Gerusalemme e trasportò in Persia tutti i suoi tesori, tra cui la Vera Croce. Eraclio parti immediatamente al suo recupero, e debellate con una rapida avanzata le armate nemiche chiese ed ottenne, come prima condizione di pace, l'immediata riconsegna della reliquia. Nel 628 essa fu trionfalmente traslata a Costantinopoli e reinsediata a Gerusalemme l'anno successivo, dove rimase per
Ostensorio che reggeva la Reliquia del Sacro Chiodo
tutto l'alto medioevo, a parte qualche sporadico nuovo trasferimento nella capitale bizantina, imposto da motivi di sicurezza. Secondo Sant'Ambrogio, contestualmente alla Croce, Sant'Elena "cercò i chiodi con i quali fu crocifisso il Signore, e li trovò. Da uno di essi fece ricavare un morso, l'altro lo inserì in un diadema; uno lo fece servire a scopo di ornamento, l'altro a scopo di pietà (...). Mandò pertanto al figlio Costantino il diadema tempestato di gemme, tenute insieme dalla gemma ben più preziosa della Croce della divina redenzione, legata al metallo, e gli mandò anche il morso. Costantino li usò entrambi, e trasmise la propria fede ai successori". Il Santo Chiodo adattato a diadema, secondo la tradizione, sarebbe quello oggi conservato a Monza, nella Corona Ferrea, ma la piatta e sottile verga metallica circolare cui sono legate le varie placche in oro, da recenti analisi, è risultata essere d'argento brunito. Il chiodo trasformato in morso per il cavallo di Costantino, invece, sarebbe stato donato dall'imperatore Teodosio a Sant'Ambrogio, che lo depose nella chiesa milanese di Santa Tecla. Di qui, nel 1461, esso fu solennemente traslato nel nuovo Duomo e chiuso in una nicchia sopra l'arcata absidale, ad oltre trenta metri d'altezza, raggiungibile tramite un apposito congegno elevatore detto nivola. Proprio la presenza di una reliquia tanto insigne avrebbe indotto Ambrogio, nel pronunciare il discorso funebre per Teodosio, a quella lunga digressione sulle reliquie gerosolimitane scoperte da Elena, ma si tratta di un'ipotesi molto contestata dagli storici. Un altro chiodo fu invece lasciato nel suo aspetto originale e si conserva oggi nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme, a Roma, dopo che l'imperatrice, nel viaggio di ritorno dai Luoghi Santi, lo ebbe immerso nel mare legato a una corda, per far cessare una terribile tempesta. Anche numerose altre chiese vantano il possesso di qualche Santo Chiodo, ma quando non si tratti di semplici falsi, il più delle volte tali presunte reliquie risultano essere semplici copie di quella venerata a Roma, santificate ex contactu, secondo una prassi che rimonta ai primi secoli della Chiesa, o al massimo forgiate aggiungendovi della limatura del chiodo autentico, mancante della punta anche per questo motivo.
Mistero: Chiesa della “Vera Croce”
Nel libro “Mompileri” del sacerdote Giuseppe Padalino si accenna all’esistenza a Mompileri di un’importante chiesa chiamata la “Vera Croce” che venne seppellita dalla lava. Attualmente non esistono documenti storici che ci forniscano dettagli su quando la chiesa fu costruita o distrutta e dove era posizionata. Sappiamo solo che Mompileri nel XIV sec. non era frazione di Mascalucia, nè Nicolosi era comune a se stante bensì entrambi facevano parte del territorio di Paternò. I confini tra Mompileri e Nicolosi dall’altro canto non erano nettamente delineati. Nicolosi si presentava come un grande bosco e le sue chiese fino al 1600 dipendevano dalla Chiesa Maggiore di Mompileri, inoltre i monaci di Mompileri e quelli di San Nicolò erano in contatto. Forse tutto questo nei secoli ha generato confusione? Forse la chiesa della “Vera Croce” faceva parte del monastero di San Nicolò? Chissà…!!! L’unica cosa certa è che la sacra reliquia della Croce esistente a Nicolosi era l’unica in tutta la provincia di Catania.