Fra qualche giorno, ufficialmente l’indomani dell’ epifania, inizia il Carnevale e si conclude il giorno precedente al mercoledì delle ceneri, che segna l’inizio della quaresima. Non esistono moltissimi studi sul Carnevale, essendo stato relegato a fenomeno locale e di poca rilevanza ed essendo stato letteralmente schiacciato dalle fantasmagoriche immagini brasiliane o veneziane.

Hanno scritto: il granitico Serafino Amabile Guastella sul Carnevale nella contea di Modica, il basilare Apollo Lumini sulle Farse di Carnevale in Sicilia, il colorito Mario Sarica sul Carnevale di Saponara e la fantastica Fatima Giallombardo, che si dilunga sul Carnevale ed il Majorchino di Novara.

Anche la tradizione gastronomica, rimane quasi sempre ridotta ad alcuni dolci più o meno carnascialeschi ed al solito maiale di san’antonio (il 17 gennaio), utilizzato per le ultime feste prima della “digiunosa” quaresima, da cui, tramite il latino carnem levare, qualcuno fa derivare il nome stesso della festa in questione: infatti, la sera è dedicata alle danze, alle sbornie, alle scorpacciate: si mangia a crepapelle e si beve fino alla nausea, perchè si pensa alla quaresima che subentra, tempo di penitenza e di digiuno.
È quasi scomparso l'uso di bruciare il carnevale, raffigurato da un grosso fantoccio di paglia vestito bizzarramente.

Dopo averlo fatto girare per tutto il paese e aver letto il suo testamento, col quale si denunziano tutte le malefatte compiute durante l'anno da varie persone, viene arso o distrutto tra la gioia e il chiasso dei presenti. In fatto di balli, un tempo, era di prammatica "la quadriglia" comandata in un francese barbaro e in un dialetto ingentilito che nessuno comprendeva sicchè la quadriglia si ballava per imitazione, dando luogo a grosse risate e a scene comiche: essa è entrata in uso in Italia agli inizi dell"800, di importazione francese, infatti il caposala impartisce gli ordini in francese.

Secondo l'etnografo Paolo loschi la quadriglia si è sviluppata in controdanza: questa è più antica avendosene ricordo fino dal secolo XVI. Controdanza viene dall'inglese country-dance (danza campestre). L'aspetto più caratteristico del carnevale sono le maschere. La parola maschera, secondo l'etimologia più comune, viene dal longobardo "masca", che significa anima di morto. Infatti il carnevale durante il paganesimo era ritenuto la prima festa di Capodanno più importante, quando si credeva che gli inferi o i demoni comparissero sulla terra.

E proprio in ciò la spiegazione che la maggior parte delle maschere sono di colore nero, perché rappresentano diavoli. Arlecchino prima di essere quello scolaro povero che ebbe dai suoi compagni di scuola pezzetti di stoffa per il suo vivace vestito, in origine fu un personaggio diabolico. Il suo nome deriva da Hellequin, termine che a sua volta viene da Holle, che vuoi dire inferno, e nel XXI canto dell'Inferno Dante ci presenta Alichino nel suo duplice aspetto di demonio e di buffone: non è difficile ancor oggi vedere chi veste l'abito del diavolo tutto rosso, con le corna in testa, coda lunga, chi indossa un camice bianco e si tinge la faccia di color nero, oppure la copre di densi veli neri e con in mano la frusta che fa schioccare mentre butta pugni di cenere.

Ogni sabato sera fra il giovedì “di lu lardarolu” (e cioè grasso) e il martedì “dei poveri” (perché i più abbienti cucinavano per tutti i meno abbienti del quartiere ed il massaro per i “curatoli”), io ho l’abitudine di cucinare (preceduti da una marea di lardo a fettine e pane caldo), i maccheroni grandi (usanza siciliana derivata dalle borboniche lagane o paccheri) al sugo di cotica e salsicce di maiale pepato, facendo così:

Un giorno prima, faccio il ragù lasciandolo al fresco, ma non nel frigorifero per non far perdere parte del suo profumo. Trito molto finemente 5 cipolle rosa (non di Tropea) e mezza testa d’aglio rosso e li metto in una coddara (calderone) messo sul fuoco, insieme a 200 gr di olio di oliva, 100 gr di sugna, sale e moltissimo pepe nero, dopo un paio di minuti, aggiungo 99 rocchi (caddozzi) di salsiccia di maiale selvatico (me lo fa scegliere la signora Filippa a 1000 metri s.l.m.) e tutta la pancetta dello stesso maiale selvatico, rigirandola di tanto in tanto ed incoperchiando; quando le cipolle cominciano a colorirsi, tolgo il coperchio ed unisco mezzo litro di vino rosso di nerello mascalese e lascio evaporare a fiamma vivace, mescolando spesso e scoperchiato.

Dopo che il vino è evaporato, aggiungo, poco alla volta, passato di pomodoro diluito con un poco di acqua, finchè tutta la carne sarà ricoperta dal fluido e, aggiunto altro pepe nero a volontà (per me molta) e rimesso il coperchio, abbasso la fiamma al minimo evitando assolutamente che il ragù bolla: così lascio cuocere per circa quattro ore, alimentando la legna poco alla volta e sorvegliando la salsa perché non si riduca troppo, ed aggiungendo se occorre acqua calda. Alla fine si potrà godere della magnifica vista (ma soprattutto aroma) di un mare quasi marroncino da cui spiccano come degli isolotti di pezzi di maiale. Pronti per inondare i maccheroni gia cotti e cosparsi di abbondante ricotta salata (quella di pecora), posti in brevissima attesa nella madia di legno che mi ha lasciato mia nonna.