Nella ricostruzione ottocentesca dei Pitrè Proviamo ad immaginare la festa di S.Agata in una città senza autoveicoli posteggiati ovunque, senza venditori di musicassette che a volume altissimo diffondono musica da discoteca, senza la moltiplicazione vertiginosa di venditori di qualcosa, di documentaristi dilettanti. ecc.. Il Pitrè (Feste patronali in Sicilia, 1899) ci offre un modello di riferimento dalla lunga durata e codificato, quello relativo ad una realtà cittadina dove il mitico e il sacrale si sposano perfettamente con la ritualità popolare e il folklore non era sentito come un elemento di sovrapposizione "culturale" ma stava all'interno del "vissuto" individuale e sociale del "cittadino-fedele ". Non v'è leggendario di santi che non s'intrattenga di Sant'Agata. Apriamone uno purchessia, e vi troveremo press'a poco questo racconto: Agata, vergine siciliana, verso la metà del terzo secolo dopo Cristo fu perseguitata da Quinziano, prefetto per l'Imperatore Decio in Sicilia. Il triste uomo voleva far sua la nobile ragazza, e quando l'ebbe in potere e non riuscì a trarla alle sue insane voglie, la consegnò ad una mala femmina, perchè con le sue arti infami la persuadesse a cedere al Governatore. Agata resistette, e quando questo aspramente la rimproverò che, nobile e libera, si fosse lasciata sedurre ad abbracciare la religione cristiana, essa protestò senz'altro non conoscere più illustra nobiltà, nè più vera libertà che quella d'esser serva di G.C. Schiaffeggiata per queste coraggiose confessioni ed altre ardite ripulse, fu dapprima condotta in prigione, poi messa alla tortura, la quale ella sostenne con forza superiore al sesso ed all'età sua. Indispettito ancora più, Quinziano le fece recidere le mammelle e senza medicatura di sorta e senza cibo ricondurre in carcere. Nella notte una luce abbagliante illuminò il carcere: i custodi, spaventati, fuggirono; le porte rimasero aperte: Agata si trovò guarita per opera di S.Pietro; e, pur potendolo agevolmente, non volle mettersi in salvo per non perdere il beneficio che il Cielo le preparava. Nuove stragi le inflisse Quinziano: il fuoco sulle carni nude, ond'ella uscì trionfante riaffermando la sua fede nella religione cristiana, finchè, recitata un'ultima orazione, cessò di vivere. Presto i catanesi la presero a loro patrona non cedendo a nessuna città della Sicilia il vanto di averle dato la nascita. Ben lo contrastarono loro i Palermitani: e a dozzine furono i libri e gli opuscoli scritti dai corifei degli uni degli altri per sostenere che la patria di lei fosse stata Palermo o Catania. Ora che Palermo ha la sua patrona in S.Rosalia, una gara di questo genere non si comprende più; ed è appena curiosità di eruditi: ma il ricordo della invitta vergine rimane in vari paesi dell'isola. I piedi le ginocchia di lei lasciarono impronte indelebili quando in un sito e quando in un altro. Agata si trovava a Palermo quando Quinziano la chiamò a Catania: ossequente, si partì, ma a certo punto le si sciolse il laccio d'una scarpa, e, per legarselo, posò il piede su d'un sasso, dove ne rimase la traccia. A quel sasso è dedicata oggidì la chiesa fuori le antiche mura di Palermo detta "Sant'Agata la pedata". A Vicari, molestata dalla sete, si avvicinò a una fontana per bere. Delle tante persone che vi erano nessuna gliene volle dare; "ma una donna, impietositasi di quella poveretta, le offrì la sua anfora. Sant'Agata si dissetò; e sentendo che la sua benefattrice non era del paese, nel ringraziarla poggiato un ginocchio su di una grossa pietra la benedisse e con lei tutti gli estranei del paese; e seguitò la sua via. Sulla pietra restò l'impronta del ginocchio della Santa". In Catania tre chiese, una vicina all'altra, ricordano per varie ragioni la Santa; quella della cosi detta Carcarella, che serba gli avanzi della carcara (caldaia), entro la quale ella venne bruciata; dietro, quella del santo carcere, ov'ella fu chiusa; su di un pezzo di lava che vi si conserva sono le impronte dei piedi di lei quando uno sgherro la spinse nella prigione; la terza, Sant'Agata la Vetere, a pochi passi guardando ponente. L'antico carro trionfale: Non è guari i giornali di Sicilia parlarono di ripristinamento di feste di S. Agata in Agosto: ed infatti "sino a parecchi anni a dietro si solennizzava sfarzosamente anche dal 17 al 22 di agosto, e, prima ancora solo dal 18 al 21; poichè il giorno innanzi ave a luogo al Borgo. Un carro immenso e bellamente adorno, con un simulacro della Santa sulla specie di torricella con cui quello finiva in alto. La forma del carro era mutata ogni quinquennio, rimanendo però intatte le linee generali; c'era sempre uno sperone o proboscide sul dinnanzi, con un angelo sopra che suonava la tromba e due altri ai lati; una piattaforma, più in alto, per la banda municipale e gli angioletti, e poi una pancia immensa o gistra, sulla quale s' ergeva sveltissima una torricella che portava a un'altezza alquanto superiore a quella de' più alti palazzi della Via Etnea, in mezzo a un ammasso di nubi, il simulcaro della Santa; spesso però, questa era rappresentata in piedi. Festoni, poi, e angeli e drappi da per tutto. Il carro prima era trascinato da buoi: ma essendosi poi deplorati vari casi cattivi, per l'infuriarsi di quegli animali, i quali tiravano con tanto disordine da far sbattere contro i muri il carro e fargli trascinare qualche terrazzino sporgente sulla via; si sostituivano ai buoi i cavalli. Ciò fu verso il 1843. Questo carro, che fu eseguito per l'ultima volta nel 1864, era rifatto quasi intieramente ogni anno, essendo malagevole, anzi impossibile, conservarlo in alcun luogo. Anticamente, i giro di esso avveniva nella festa di febbraio; più recentemente, in quella di agosto: il primo giorno, alcune ore prima d'imbrunire; il terzo, di sera. Un poeta illetterato catanese ci ha serbato un ricordo del carro nella seguente canzone: lu carru ppi Catania è 'na 'rannizza, Massimamenti quannu non si strazza; A caminari ppi lu chianu addrizza: Benchè camina a tempu e 'un si strapazza; Apoi si vidi 'n 'autra biddizza: Quannu fa la vutata di la chiazza: Sant , Aita ddassupra e 'n tanta autizza:Pari ca ccu li manu a Cristu abbrazza. Se fosse luogo opportuno questo, direi che gli ultimi due versi racchiudono una imagine veramente grande. Ora nulla più dei carro. La festa di agosto è una reminiscenza o una fredda riproduzione parziale: e si limita a quella soltanto dei primi cinque giorni di febbraio, due dei quali consumati da oltre mezza dozzina di bande musicali percorrenti le vie ed i vicoli e da non so quanti panegirici al Duomo. Le Candelore. I "Partiti.... veniamo ai costumi attuali. Al 3 febbraio si è già nel cuore della festa. Le Candelore dalla prime ore del mattino portate per le vie principali e secondarie della città. Son dette candelore (da non confondersi con quelle della Purificazione) certi colossali ceri, lunghi parecchi metri, aggruppati in un fascio ed infilati in un monumentino di legno a vari ordini formante una specie di torricella, in ogni scompartimento della quale tu vedi scolpiti gli episodi dei martirio di S.Agata, alternati con statue di santi e di angioli. Tutto il monumentino è dorato, ornato di festoni, banderuole, fanaletti e ceri. La pesante macchina fa il giro dei vari membri dei ceto che concorre alla sua manutenzione, e dinanzi ai quali, ricevuta con fuochi di gioia, mortaretti e maschetteria, balla a suon di musica che l'accompagna. Non su carri o altri veicoli è portata, ma a braccia e con istanghe, da otto o dieci robusti uomini della confratria, costretti a procedere un po' trottando in cadenza: e, senz'ordine, si dilungano di molto dalla processione, per fermarsi poi ove il capriccio o il bisogno esiga, ed ove si possa o debba ripetere una delle tante refezioni che fanno parte del programma di questi uomini in quella ricorrenza, refezioni che sono il protesto per bere allegramente. Le Candelore, per antica e costante tradizione, procedono a un modo sempre, e per il quale sento che sono si fatte per fino delle liti: perchè ci sono i diritti di preminenza. La gara tra le diverse Candelore consiste annualmente nel cercare di offrire i cerei della maggiore grossezza e bellezza possibile, perchè ogni ceto, o Congregazione, tiene più che mai all'ammirazione ed all'applauso del popolo, che si affolla allo sfilare delle Candelore. Le quali procedono appaiate. A solo ed innanzi a tutte va quella del Municipio, che però è fornita da questo come esecutore di un lascito del benemerito vescovo Ventimiglia. Come ben si capisce, questa Candelora è sempre la stessa, non ha adomi, e fa ben meschina figura di fronte a quelle che la seguono. Sul davanti porta la scritta : Cereo del vescovo Ventimiglia". Così il Salomone-Marino in alcune sue pagine sulla festa, il quale conferma che le coppie, che a breve e uguale distanza tra loro vengono dopo, furono una volta più numerose delle cinque di ora: I', Cereo dei giardinieri e primo cereo Rinati; 2°, Cereo pescivendoli e Cereo de' fruttaioli; 3° Ceto di pizzicagnoli e ceto dei fabbricanti di pasta; 4° Ceto macellai e Ceto dei bettolieri; 5° Cereo dei fornai e Circolo Sant'Agata. Questi titoli vanno attaccati a ciascuna candelora, e tutte le candelore, oltre che la sera della processione, il popolo le esamina a suo bell'agio prima e dopo entro il Duomo, lungo i pilastri, ai due lati della navata centrale. Tra processi di cerei, condotte di candelore e corso di gara nella via Etnea ed al giardino Bellini è giunta la sera. Lungamente preparato e ansiosamente atteso è il canto dei partiti. Partiti o canturi sono alcune schiere di centinaia di giovani per lo più del popolino, le quali con paziente studio sono riuscite ad imparare, ciascuna schiera per sè, un inno che esse devono cantare sulla piazza del Duomo. Iversi sono di poeti per lo più mezzani: la musica, di mestri più o meno noti: musica e versi, chiamati con denominazione certamente moderna "canti popolari", forse perchè cantati da persone del popolo ed in mezzo al popolo, son tanti quanti ne contano i diversi partiti e tanti sono i partiti quanti i rioni e sobborghi; ed i versi corrono lì per lì a stampa tra la folla. E già vengono avanti, codesti artisti del momento, preceduti da fiaccole ed accolti da grida festose al suono delle musiche che irrompono dalle quattro grandi vie nella grandiosa piazza. Salgono palchi, e appena finito lo sparo dei fuochi, eseguono, lun partito dopo l'altro, la proprìa cantata. Il citato poeta dice che sorgono agli Stadi, cioè nella Piazza dell'Università: A li Sturii cc'è gran sonu e cantu: Ognunu accorda ccu lu sò strumentu. E qui si comprende il perchè della qualificazione di partito: perchè tra le differenti schiere è una gran gara di parte per superarsi tra loro e quindi riscuoter i maggiori applausi. Questi, per altro, non mancano, anzi sono prodigati o bízzeffe, e tutta la piazza risuona di battimani e di evviva fragorosissimi. 1 trionfi del partito sono trionfi del rione. Mari mano che compiono la cantata i partiti scendono avviandosi dal capo del Governo, dal capo della Chiesa, dal capo della Città (Prefetto, Arcivescovo, Sindaco), e da altri personaggi illustri per censo, casato, benemerenze, ripetendo una seconda, una terza, una quarta, una ventesima volta la propria cantata. Chi si piace di paragoni potrebbe vedere una lontana Piedigrotta sacra nelle cantate annuali e sempre nuove e qualche richiamo alle gare dalle contrade di Siena pel palio di Mezz'Agosto. Le reliquie di S. Agata. I "Nudi" e le "Ntupateddi". Siamo al quarto giorno e, pertempissimo, i devoti a ciò designati, coi tradizionale camíce, del quale verrò presto a parlare, e con la papalina di velluto sul capo, intervenuta l'autorità municipale e la ecclesiastica, si recano al Duomo per aprire la cella ov'è chiuso il corpo di S. Agata. Dopo la messa vescovile, i chierici dei Seminario sopra due barelle trasportano sul maestoso fercolo, dentro un ricchissimo scrigno d'argento, le reliquie ed il mezzo busto pure d'argento, (contenente le gambe e la testa), opera magistrale dei secolo XIV. Non è credibile la ricchezza delle gioie e dei monili onde è esso cosparso; e basta soltanto ricordare che tra quelli di reale valore storico sono notevoli la corona di Riccardo Cuor di Leone, l'anello di Gregorio Magno, la croce pettorale di Leone XIII qund'era arcivescovo di Perugia, un anello con superba margherita della Regina d'Italia: parecchi milioni insomma di lire in pietre preziose rappresentati da quasi ottanta chilogrammi di peso. Questa cella è il vero saneta sanctorum di Catania, e mai persona avrà sognato di entrarvi con sinistri intendimenti. Tradizioni locali della Sicilia parlano di furti perpetrati o tentatí in chiese, in tabernacoli; ma la tradizioni catanese non è ha uno in proposito. E come sognare un delitto in quella cella se nel compierlo si precipita, dice la tradizione, subito in un pozzo, al cui fondo rumoreggiano le onde del mare? Ed anche sognandolo e volendolo, come tradurre ad atto il pravo disegno con la solidissima inferiata che chiude la cappella di S. Agata, entro la quale è appunto la cella delle reliquie e delle gioie? Su qull'inferiata, in alto, è il motto di S. Agata ripetuto qua e là in immagini, in libercoli e in instampe divote: Per me civitas Catanensiurn sublimatur a Christo. Dalla volta di quella cappella pendono ricchi lampadari d'argento, dono di Re di Spagna. A quello altare i devoti portano ogni mercoledì candele di cera legativi dei nastri: un nodo, con la figura della Santa e striscioline che pendono, scarlatte, verdi, bianche. Al primo sollevarsi delle reliquie un grido poderoso di: Citatini, viva Sant'Aita! echegia per le volte, e si ripercuote fuori del tempio; ed a quel grido, cento, mille, diecimila pezzuole si agitano convulse, incessanti. Il costume della sopravveste bianca detto sacco e stretta alla vita con un cordoncino, è di rito per tutti i devoti, e così il berrettino di velluto nero, i guanti bianchi a maglia e la caratteristica pezzuola bianca, pezzuola continuamente mossa e sempre destinata a rafforzare mimicamente il cennato grido: Citatini viva Sant'Aita! Ma vi è anche un'al tra particolarità per molti di codesti devoti: i piedi scalzi, pei quali essi ricevono il nome di nudi, che fuori Catania, per altre feste, ha significato più letterale. Per comprendere e spiegare siffatto costume bisogna aver presente quello che nel 1641 scriveva lo storico catanese Pietro Carrera, e che io tomo a riferire, come già altra volta feci: " I condottieri della bara di S.Agata si chiamano gli Ignudi perchè vanno coi piedi scalzi e gambe ignude, bavendo su le vesti una camicia, lor livrea speciale. Ciò provenne dal ritorno delle sacre reliquie fatto dal Castel di Jaci in Catania l'anno 1126, imperocchè allora gran parte dei cittadini (intendo dei maschi) andò ignuda a ricevere il Santo corpo, fasciato nel mezzo della persona solamente d'una avvolta tovaglia, al che ciascuno si mosse dall'esempio del vescovo Mauritio; che vi handò a pìedí scalzi, e cìò fu fatto per volontaria affitione e penitenza presa per puro affetto e devotione della Santa. Questo uso da poi si frequentò per ogni mese di febbraio, ma per cagion de' freddi con acconcio dell'abito, rimanendo ignudi solo i piedi e le gambe, e '1 resto del corpo delle comuni vesti coperto e d'una camicia di sopra, come si disse. Le donne bramose ancora di andare all'incontro della Santa, per non essere vedute o conosciute in campagna ritrovarono l'ínvenzion degli occhiali; così diciamo quel bianco fazzoletto di tela che legato su 'I capo e pendente copre il volto della donna, nel quale, dove gli occhi debbono rimirare, vi si formano due spiragli a finestrette. Da quel tempo insino al presente s'è continuato questo uso nelle donne ma specialmente della Santa a febbraio e agosto: il che per le donne povere a gran commodità risulta, e per esse, e per tutte l'altre a cautela di onestà, togliendosi l'occasione d'esser vagheggiate da' giovani". Questa citazione mi richiama ad una usanza oramai dismessa, quella delle 'ntuppateddi', che passo a ricordare brevemente. Diconsi e si dicevano 'ntuppateddi' certe donne, le quali frammischiandosi, per non farsi conoscere, alla folla, coprivano il capo, dal collo in su al davanti e dalla testa alle spalle al di dietro, con una specie di sacco di seta nera completamente chiuso; e con un solo foro onde potessero guardare con l'occhio destro. La eleganza delle vesti le rivelava persone non volgari; e tali erano difatti, se facevasi attenzione alle braccia nude, bianche e ben tornite, alle mani fine, e all'andatura composta. Gironzolavano accompagnate da parenti o da amici o sole o a due o anche a tre per i luoghi più popolati della festa e con una certa libertà insolita e per Catania e per le donne; e, camuffate com'erano, s'accostavano a qualche amico o conoscente e prendendolo sotto il braccio lo conducevano o si lasciavano da esso condurre da un dolciere per aver comperati confetti o altre ghiottonerie che loro ingrandissero. Non occorre dire che il conoscente o l'amico faceva il dover suo con perfetta cavalleria. ve ne erano però delle imprudenti, le quali, non sapendosi contentare di dolci, menavano l'amico in una gioielleria e quivi sceglievano qualche oggetto di personale ornamento. Allora il giuoco si faceva serio, ed il malcapitato si trovava nella dura condizione di fare uno strappo alla sua borsa o di mostrarsi scortese. Se non che, se ne togli qualche moglie o qualche figliuola che non riusciva nell'anno ad ottenere quel che desiderava dal marito o dal padre, e che vi riusciva con questa occasione, adocchiandolo tra la folla e conducendolo senza tanti complimenti nella bottega desiderata; l'usanza non trasmodava mai, e la spesa rimaneva nei limiti di poche lire, o, per dirla col linguaggio della moneta di allora, di pochi tarì. In una tavola annessa alle Osservazioni dello storico catanese Cordaro Clarenza, è rappresentata nella piazza Stesicorea di Catania la processione con sei ceri, l'urna delle reliquie tirata da migliaia di nudi attaccati alla famosa fune e, documento oramai curioso, parecchie 'ntuppateddi' sole o a gruppi attorno a bancherozzoli nell'istante in cui scelgono dei dolci od altri oggetti da comprare. Questa tavola è del 1834. li grido di "Viva Sant'Aita" L'applauso dei Seminaristi. La processione dell'urna. E tomo a' costumi attuali fermandomi per poco al tradizonale grido: citatini, viva Sant'Aita! al quale si dà un significato storico. Un agiologo catanese scrive che " mentre la bella giovinetta, dopo gli altri cimenti, era provata col fuoco delle brage e de' rottami, il popolo catanese, tocco a quello strazio indegno, rompesse in alti clamori, imponendo ai camefici di cessare, e gridasse : Viiva, viva Agata e non muoia!.... Spirata quell'anima beata e riposto il corpo nel sepolcro, i Catanesi sono certificati dell'angelo, che Agata per loro non era morta, ma che siccome col lo spirito era andata accanto allo Sposo Divino, colla sua protezione, si farebbe viva in mezzo a loro e a' loro discendenti, fino a che Catania restasse in piede. E però, sepolta la giovinetta, la gente se ne andava ripetendo: E pur viva Agata, viva S. Agata! li qual grido, che fu poi seguitato per tutte l'età future, si rinnova da noi e si manterrà quanto il tempo lontano". Io non intervengo nella interpretazione, perchè l'autore ne rileva il carattere tradizionale. Però appunto perchè tale io potrei ricordare gridi simili nella provincia di Catania e fuori per altre feste, come quella di S.Venera in Acireale, di S.Lucia in Siracusa, di S.Paolo in S.Paolo Solarino e per altri santi patroni. Ma lasciamo a chi se ne piace queste disquisizioni, poi i devoti, nudi o non nudi, (e v'è tra essi nache qualche sacerdote), rumoreggiano, attendendo l'uscita delle reliquie. Cinquanta forti giovani si sottopongono al pesantissimo fercolo, un paio di centinaia si adattano al grosso e solido cavo che deve concorrere a trascinarlo, e tutto è pronto. Manca solo la consegna della preziosa reliquia; ed il Tesoriere la fa dopo un breve discorso di circostanza, il quale finisce col grido che sentiremo ripetere sempre: Citatini, viva Sant'Aita! Una volta un capitano a cavallo con la sua comitiva andava innanzi alla bara; e dietro gli veniva una lunga tratta di signore e giovinette, altre in sacco bianco di tela, terraiuolo e cappello, altre col cennato velo di tela detto occhiali o babalucchi, che copriva il viso; altre in costumi di vergini o martiri; in figura di sibille, di ninfe, di zingare. Ora non più. Tra gli evviva e la maschettaria, la bara si mette in movimento, circondata da centinaia di torce. Tra tutte le campane quella di "Sant'Agata" tradizionale pel suo tocco e pel suo autore, si distingue pei gravi e lieti rintocchi. Non avendo ruote di sotto, ma semplici mezze lune di ferro, la macchina striscia sulle vie che percorre, uscendo da porta Uzeda e rientrando poi nel Duomo, cominciando dalla contrada di levante e finendo a quella di ponente. Ma, sorpassata di poco la porta Uzeda, perla via Dusmet, ecco un singolare spettacolo: l'applauso dei Seminaristi. Dal Seminario dei Chierici vengon lanciate miriadi di striscioline multicolori, di carte tagliuzzate, di fogliettini tutti stampati, con sonetti, laudi e poesie diverse composte per la occasione dai seminaristi. Quel getto fatto a piene mani dalle finestre ad un tempo, è d'una vista veramente gaia, dalla quale entusiasta e commossa pende la immensa folla, raccoltasi prima, specialmente per non perdere nulla. Ma l'occhio più mobile si perde dietro a quella pioggia di cartellini, che per la loro estrema leggerezza ora si alzano, ora si abbassano o mollemente si dondolano sensibili alla impercettibile auretta, finchè non vadano ad adagiarsi sugli alberi infiorandoli, sui nudi, sul fercolo splendente sull'immane tappeto di teste, al di sopra delle quali bruscamente, energicamente si agitano mille mani pronte ad impadronirsene. E la solita voce grida: Citatini, viva Sant'Aita! ed il popolo a coro potente: Viva Sant'Aita!! Il fercolo si muove per tornarsi a fermare poco più in là, innanzi il Palazzo Arcivescovile. La folla si apre e l'Arcivescovo s'avanza "in mezzo ai suoi Canonici preceduto da due servitori in livrea che reggono un gran vassoio con sei grosse torce, fregiate di nastri e fiori artificiali. E' la prima offerta che la Santa riceve, ed apre la serie delle altre che cittadini, confraternite e devoti d'altri paesi presenteranno lungo tutto il percorso della processione. Il "Mastro di bara" che, pur esso in camice, sta ritto sopra il fercolo su la sinistra (su la destra parte vi sta il canonico torciere in cappa e stola), è quello che riceve le offerte, le quali son tutte in torce e candele di cera più o men grosse, più o men belle ed ornate. Il giro dell'uma è un continuo trionfo, che si ripete anche il giorno 5 pei rioni interni, mentre il 4 fu tutto per gli esterni: quasi cinque chilometri, con due fermate, alla chiesa del Carmine e a quella di S.Agata la Vetere, l'antica Cattedrale di Catania, ove fu il sepolcro della Santa. Quivi, verso le 2 p.m., viene celebrata una messa e recitati solenni Vespri. Son trascorse di molte ore e la Santa è a malincuore dei devoti riportata al Duomo. Il giro dell'ultimo giorno è quello, diremo così, aristocratico. La Santa è condotta pei monasteri della città, preceduta sempre dalle Candelore, accompagnata da un popolo festante, per vie fantasticamente addobbate ed illuminate. Dalla strada VE., è già al piano del monastero S.Placido. La via Etnea è stata tutta percorsa; attraversata la piazza Università; e, in mezzo a pertinace maschetteria, fuochi di bengala, scampanate ed evviva, si è già alla piazza Stesicorea. Quivi gli occhi delle devote si affissano forti sul simulacro; una grande agitazione le domina tutte. In quella piazza fu bruciata la Santa, e proprio in quella piazza il simulacro della Santa impallidisce al ricordo degli strazi sofferti. e le femminucce si commuovono, piangono e pregano con tutte le forze dell' anima. E si torna indietro fino a' Quattro Cantoni, dove si vuole assistere alla ripidissima salita di via Lincoln. Un minuto, un solo minuto, e la bara strisciando, con stridentissimo attrito, è lassù in via Crociferi, percorrendo una stradaccia che i carrettieri non sognano di tentare. Come spettacolo questa salita è sublime, ma come ragione di pericolofapaura. Presso la mezzanotte la bara in mezzo al delirio, un vero delirio, dei Catanesi, rientra nel Duomo. Al fiume Simeto tutto il giorno i devoti han sentito un nitrire pauroso; è il lamento del cavallo di Quinziano, annegato col suo cavaliere: punizione di Dio al tiranno che dopo aver inflitto tanti tormenti alla innocente Agata, si disponeva ad andarsi ad impadronirsi dei beni di lei a Palermo. |