San Cataldo , ripartire dalla periferia

In principio era Casale Calinuri

Chiese, ovvero arte e tesori

Un insolito artista dalla tecnica insolita

Una Cassa per lo sviluppo

Boschi, fiumi e archeologia la sfida della riserva del Mimiani

Le memorie dí Vassallaggi

I sampaoloni e le feste religiose

 

Incremento demografico e nuove costruzioni hanno cambiato in questi anni il volto della città. Ma le energie per uno sviluppo diverso ci sono. A partire dalla valorizzazione delle strutture socío-culturali.

L' abitat è del tutto simile a quello delle zone semiperiferiche urbane. Spingendosi verso le vie del centro, l'impressione è ancor di più confermata: gli elementi urbanistici che possono fornirei un segno di identità storica sono dispersi e inghiottiti dalle costruzioni in cemento e bisogna rincorrerli con attenzione. A San Cataldo l'edilizia è stata sicuramente la direttrice principale lungo la quale è passata l'idea di modernizzazione e sviluppo, in considerazione certamente della sua vicinanza con Caltanissetta, della quale sembra essere diventata un'appendice suburbana. Non a caso la popolazione residente ha registrato un aumento del 5 per cento nel decennio 1971/81 e addirittura del 7 nei periodi successivi.

Il territorio comunale, attraversato dal fiume Salito, ha un andamento prevalentemente collinare (da 212 a 717 metri) ed è destinato per il 47 percento a colture estensive, per l'8 a colture intensive e per il 40 a bosco. Il ruolo dell'agricoltura è diventato sempre più marginale per la debolezza delle strutture produttive ed i comune è classificato " zona agricola svantaggiata dalla Comunità europea. Infatti solo un terzo della superficie agricola complessiva è utilizzata in maniera produttiva principalmente attraverso la coltivazione dei cereali e, in misura modesta, della vite e dell'olivo e degli alberi da frutto.

Sotto il profilo geo-politico, il comune si colloca in una zona di antica tradizione mineraria, interessata in particolare da miniere di sali (salgemma, sali potassici e alcalini vari) che hanno alimentato un'attività estrattiva di rilievo oggi in gran parte scomparsa o in crisi. Mentre le infrastrutture territoriali risentono del degrado di un'urbanizzazione selvaggia, le infrastrutture socio-culturali sono abbastanza sviluppate; esistono infatti moltissime associazioni di base che svolgono attività culturali e rappresentano un valido collante dei tessuto sociale.

Un discorso a parte meritano le consistenti risorse ambientali. Esiste infatti un notevole patrimonio boschivo e zone di interesse naturalistico da proteggere e ripristinare che possono costituire un punto di partenza per l'ovvio di strutture agrituristiche e di turismo rurale su cui è possibile puntare per mirati progetti di sviluppo.

Ci riferiamo alle zone forestali del Mimiani, dei Gabbara e del Mustigarufi, che potrebbero diventare riserva protetta e delle quali ci occupiamo più diffusamente in questa pagina. L'economia locale poggia essenzialmente sulle attività terziarie cui si aggiunge un piccolo nucleo di attività industriali ed artigianali soprattutto nel campo della produzione di manufatti per l'edilizia, dei manufatti plastici, delle attrezzature e forniture per l'agricoltura. Gli enti locali e pubblici, come nella quasi totalità della realtà centro-siciliane costituiscono l'azienda che assorbe la maggior parte della forza lavoroattraverso un assistenzialismo di tamponamento che esercitato su basi clientelari ha costituito la base di potere di una vecchia classe dirigente.

Storia della città , dagli arabi alla rivolta contro i Borboni .

La terra di San Cataldo era anticamente chiamata "Casale Caliruni "(termine greco che significa "Scorro bellamente'' per la presenza del vicino fiume Salito che l'attraversava). Fin da tempo antichissimo questo territorio rientrava nella comarca di Calascibetta, successivamente aggregato alla provincia e alla diocesi di Girgenti, Dopo che i normanni cacciarono gli arabi il feudo divenne proprietà dei Barresi.

Nell'anno 1300, in seguito alla ribellione di Giovanni Barresi, il Casale fu devoluto alla corte e concesso a Bernardo de Siniscalco. In seguito, il casale assunse la denominazione di "Baronia di Fiume Salato" dal fiume omonimo, baronia che venne suddivisa in nove feudi (Pirato, Barboraso, Marcato Vallone, Mustigarufi, Palo, Ciuccafa, Caliruni oggi Quartaruni, Dragaito, Mandra di Mezzo) e nove terre comuni (Liquatri, Beata, Achille Caruso, Morillo, Sirocco, Vassallaggi, Santuzza, Mariggi, Antonino Pignato).

Essa subì diversi passaggi e, alla fine, ne fu investito, il 5 luglio 1496, Antonio Salomone il quale la donò alla figlia Violanta de Jaen e Salomone che la portò in dote al marito Nicolò Lancellotto Galletti con atto del 24 aprile 1549. Sulle rovine dell'antico Casale di Caliruni sorse all'inizio del sec. XVII il comune di San Cataldo. Il 18 luglio 1607 Nicolò Galletti chiese a Filippo II, re di Sicilia, il "Jus populandi et aedificandi dictam Baroniam olim nominatam Casale Caliruni, in quo sunt et apparent fabricata e multe. domus et in eis habitationem habere ......".

Il permesso fu accordato, "sub conditione", dal vicerè generale Marquez, il quale si impegnava a fare ottenere, entro due anni, ai Galletti, il consenso del Re che, però, non giunse entro il termine fissato, arrivando, dopo un'ulteriore richiesta del figlio di Nicolò, Vincenzo, nel 162. Nella ''licentia aedificandi Baroniam fluminis Salsi in personam Nicolai Galletti" viene tra l'altro espressamente dichiarato: "quarn volumus appellare Santo Cataldo". Il sovrano nel disporre l'assegnazione del nome San Cataldo al nascente comune, dovette tener presente il suggerimento del vescovo di Agrigento.

Occorre tener presente ancora due dati: a) dalla fondazione del Comune sino al 1817 San Cataldo fece parte della provincia di Girgenti; b) dalla fondazione Comune sino al 1844/45 la locale comunità ecclesiastica dipendeva dalla diocesi di Girgenti e ciò in seguito alla istituzione avvenuta nel 1093 di detta diocesi per diploma del Gran Conte Ruggero il quale nominò vescovo San Gerlando e la dotò delle decime di un vasto territorio che si estendeva sino al fiume Salso e della proprietà di un terreno citato nel predetto diploma coi nome di "Cathal" che sorgeva in località "citra Salsum"; da ciò nasce l'ipotesi tutt'altro che infondata che il nome di San Cataldo si riferisca alla proprietà della diocesi pervenuta attraverso vari passaggi agli stessi Barresi. Ottenuta la conferma di popolare baronia (1621), Vincenzo Galletti, con l'atto del 28 giugno 1621, confermato in data 6 settembre dello stesso anno, comperava da "potere della Regia Corte", per seicento onze, il "mero e misto impero" nella baronia di Fiume salato e sulla terra di San Cataldoe, inseguito, per concessi one del 6 ottobre 1627, otteneva il titolo di Marchese di San Cataldo.

Più tardi, nel 1672, il nipote, anche lui di nome Vincenzo, veniva insignito del titolo di "Principe di Fiume salato". Nel 1818, per legge dell'anno precedente, il Comune di San Cataldo prese a far parte della Provincia e Distretto di Caltanissetta. Successivamente venne assegnato alla Diocesi qui eretta (1844/45).112 luglio 1820 i Carbonari napoletani insorsero costringendo il Re a ripristinare la Costituzione. La rivoluzione di Napoli incitò alla rivolta il popolo di Palermo al quale si unì quello di San Cataldo stanco di sopportare i sorprusi e le angherie da parte delle autorità borboniche. Gli abitanti di Caltanissetta invece, per dimostrazione di fedeltà ai Borboni e per non perdere i privilegi ottenuti, non aderirono ai moti popolari.

La Giunta rivoluzionaria di Palermo istituì sette guerriglie dirette ai capoluoghi delle provincie per ottenere la loro adesione ai moti popolari. A capo della guerriglia composta da ottocento uomini di estrazione sociale eterogenea, reclutati a Bagheria, Villalba e pochi a San Cataldo e destinata a Caltanissetta, fu nominato il principe Salvatore Galletti, il quale pose il suo quartiere generale presso il convento dei Cappuccini di San Cataldo. Il Galletti, con lettera dei 2 agosto 1820, invitò il Gallego, intendente di Caltanissetta, ad aderire alla rivoluzione e a declinare ogni impresa contraria al governo provvisorio della libertà nazionale, impegnandosi a mantenere integro il capoluogo di provincia.

Ma ogni sforzo risultò vano, il Galletti fu considerato come nemico e, invece di venire atrattative con lui, gli dichiararono guerra. Il principe, cosi, intimò la resa formale alla città alla quale i nisseni risposero con le armi, occupando monte Babaurra e tentando di uccidere il principe per portarne in trionfo la testa. Non riuscendo nel loro intento, uccisero il gonfaloniere dei principe e incendiarono il palazzo Galletti. L'indomani, 11 agosto, i cittadini di San Cataldo e la guerriglia attaccarono monte Babaurra e riuscirono, dopo una lotta accanita e disperata, a riconquistare la posizione costringendo i nisseni alla fuga.

I nisseni, dal canto loro, abbandonati dal Gallego che era fuggito con i soldati napoletani del presidio, prevedendo le conseguenze di una grave sconfitta, mandarono a San Cataldo, la mattina del 13 agosto, il frate domenicano Anzalone quale ambasciatore e portatore di pace. Mentre le trattative erano in corso, un gruppo di quattrocento nisseni assalì l'avanguardia del monte Babaurra. Il Galletti inviò le sue truppe, le quali, dopo aver riconquistato le posizioni perdute, marciarono su Caltanissetta occupando le alture del monte San Giuliano, della collina S. Flavia e del monte Tre Croci. La stessa sera iniziò il bombardamento della città.

Non trovando alcuna resistenza, le guerriglie, inferocite per il tradimento, si abbandonarono ad azioni violente. Le rappresaglie nissene però, non tardarono: percinque sabati consecutivi (rimasti nel ricordo dei sancataldesi come i "sabati del l'irruenza"), protette dalla compiacente inazione dell'intendente borbonico rensediatosi nel capoluogo, orde facinorose occuparono la città e si abbandonarono ad ogni eccesso di violenza e di atrocità.

Dopo queste cinque incursioni, le autorità civili di Caltanissetta e di San Cataldo posero fine alle ostilità, ripristinando i rapporti tradizionali fra le due comunità. Il 29 gennaio 1848 il Comitato di liberazione di San Cataldo inviò al Comitato di Palermo l'adesione alla rivoluzione scoppiata il 12 gennaio 1848. Verso la metà dei 1860 tredici sancataldesi guidati dal capitano Francesco Lunetta andarono ad ingrossare le file dei garibaldini che aveveno già risposto all'appello dell'eroe. L'8 agosto 1862 Garibaldi insieme a Fra Pantaleo ed Alessandro Dumas (padre) furono ospitati dal barone Alù nel suo palazzo oggi proprietà della Compagnia di S. Angela Merici. Con il regio decreto del 18 settembre 1865 il comune di San Cataldo venne elevato al rango di città in riconoscimento della sua partecipazione al processo di unificazione nazionale.

Chiesa Madre. La sua costruzione si deve a don Vincenzo Galletti, barone di Fiumesalato e prímo marchese di San Cataldo, che ottenuto dal vescovo di Agrigento il Regio Placet con bolla del 18 aprile 1633, il Galletti iniziò la costruzione della chiesa nei
pressi del suo castello e precisamente sul punto più alto del colle che stava di fronte al quartiere più popolato dei paese e prospiciente alla via San N'colò, oggi piazza Madrice.

Sempre il marchese Galletti fondò l'Arcipretura, come risulta dall'atto dell'agosto 1633. In origine la chiesa, come risulta dalla bolla di fondazione, fu dedicata alla Natività di Maria Santissima. Verso la fine del secolo cominciò a dar segni di lesione per il movimento franoso del terreno sul quale sorgeva. Diventata insufficiente ai bisogni dell'accresciuta popolazione nel 1727 il marchese Giuseppe Galletti ne dispose l'allargamento.

Il progetto pare che si possa attribuire all'architetto Giovanni Battista Vaccarini.il quale, mentre era Arcivescovo di Catania monsignor Pietro Galletti (1730-57), venne da questi incaricato di progettare e dirigere i lavori di ricostruzione del Duomo di Catania, parzialmente crollato in seguito al terremoto del 1693. E' naturale supporre che il principe di San Cataldo Giuseppe Galletti, dovendo "elargare e costruire la Madrice Chiesa" (G. Amico-Medico) si sia rivolto al fratello arcivescovo per avere suggerimenti, consigli e assistenza. Ed è facile immaginare che l'arcivescovo si sia rivolto al Vaccarini o alla sua bottega.

Questa ipotesi è suffragata da alcuni riscontri obiettivi. Le linee architettoniche esterne dei Duomo di Catania e della Madrice di San Cataldo presentano evidenti analogie e affinità stilistiche: entrambi, infatti, hanno una facciata di tipo borrominiano a due ordini di colonne, coi prospetto a lesene accoppiate; all'interno, la trabeazione, l'ordine dei capitelli e le scanalature delle lesene sporgenti dagli archi che dividono le due navate, sono uguali in entrambe le costruzioni.

Un altro elemento che rivela la comune ispirazione anche nell'impiego degli spazi parietali delle navate laterali, è dimostrato dalla dedica delle cappelle al culto degli stessi santi: S. Gregorio Magno, San Francesco Saverio, S. Gaetano, e altri. Tutti elementi che non possono far pensare ad una semplice coincidenza. Due ordini di colonne dividono il tempio in tre navate, a forma di croce, con una bella cupola nel centro.

Il suolo dei Cappellone si eleva sopra scalini con balaustra marmorea, mentre su altri s'innalzai I Sommo Altare. Lateralmente al Cappellone sorgono due cappelle chiuse con balaustre marmoree e portine di bronzo a bassorilievo; quella a sinistra per il Divinissimo e quella a destra per il patrono San Cataldo.

L'organo della Chiesa Madre del 1747 è opera di Michele Andronico artista palermitano. La facciata in pietra da taglio viene decorata da un maestoso campanile con sei campane di bronzo. La chiesa fu riconsacrata con grande solennità il 9 maggio 1739 da monsignor Pietro Galletti, arcivescovo di Catania e dedicato all'Immacolata Concezione.

Tra le opere di rilievo custodite sono da ricordare: il Crocifisso in avorio al centro di una custodia di scultura romana; il simulacro della Vergine Immacolata, di scultura romana, e la corona gemmata, dono della principessa Perna Gravina, moglie del principe Giuseppe Galletti; il corpo di San Clemente; la statua di San Cataldo; il quadro del SS. Cuore di Gesù e quello della Natività di Nostra Signora sull'altare Maggiore, entrambi del pittore sancataldese Carmelo Riggi; i quadri di San Gregorio Magno e del pentimento di San Pietro; la grande sfera d'argento gemmata con altri preziosi arredi; la portantina dorata con quattro finissime pitture laterali; la statua di Maria SS. Annunziata, opera del Cardella di Agrigento.

Chiesa di San Nicolò. La chiesa venne edificata su volere dei barone Nicolò Galletti. Secondo la tradizione fu la prima del paese e venne edificata nel punto in cui si trovava il maggior agglomerato di abitazioni, dove tutt'ora esiste una strada che mantiene la denominazione di via San Nicolò. Chiesa del Purgatorio. Con l'aumentare del numero degli abitanti, nel paese si avvertì la necessità di costruire una chiesa più grande in grado di poter funzionare, con l'annessa canonica, come prima chiesa curata, col rispettivo cappellano.

Fu costruita nei pressi della chiesa di San Nicolò e fu dedicata al SS. Crocifisso per la presenza dell'omonima confraternita. Per una ventina d'anni, fino alla costruzione della chiesa madre, svolse le funzioni di parrocchia. Nel 1840 fu ricostruita per interessamento dei fratelli sacerdoti Francesco e Salvatore Cammarata (detti "Cardalani") e riconsacrata coi titolo di Anime Sante del Purgatorio. La chiesa è ad una sola navata. Presenta stucchi di buona fattura, restaurati e migliorati nel 1895 da don Rosario Mammano.

Durante i restauri dei 1977, rimuovendo il pavimento del 1840, emerse una cripta, precedentemente interrata. Oltre l'ossario venne ritrovata una serie di venti stalli in gesso sui quali venivano collocate le salme dei monaci che morivano nel convento, rimosse dopo che perdevano la loro consistenza corporea. Chiesa dei Padri Mercedari.

Sorse nel 1607 sulle rovine del vecchio oratorio della congregazione di Sant'Adriano su iniziativa di Nicolò Galletti, barone di Fiume salato. Fu affidato per un biennio ai padri Agostiniani scalzi e poi, dal 1676, ai Padri Mercedari scalzi che si dedicavano all'educazione dei fanciulli e all'assistenza della comunità ecclesiale.

Chiesa del Patriarca S. Giuseppe. Sorse sulle rovine dell'Oratorio di San Francesco ad opera dell'arciprete Baldassare Amico nel 1708 e fu ricostruita nel XIX secolo. Accanto alla chiesa sorge l'oratorio ove si riunivano gli iscritti alla confraternita. Adesso nei locali dell'antico oratorio ha sede la casa del Clero. Chiesa del Rosario. Fondata nel 1702 dal signor Angelo Amico, fu consacrata nel 1767. L'anno seguente fu istituita la confraternita del Salterio del SS.

Rosario per godere delle indulgenze concesse dal Papa. Venne ricostruita verso la metà del XIX secolo. E' costituita da un'unica navata e per la sua posizione, al centro dell'abitato, è una delle più importanti del paese. Le opere di rilievo custodite in essa sono: la statua di S. Francesco di Paola, opera del Bagnasco e quella di Maria SS. del Rosario, opera dei Cardella di Agrigento; il quadro di S. Maria Maddalena penitente, opera di Carmelo Riggi; un ostensorio in argento dorato; un calice d'argento lavorato a cesello.

Convento dei Cappuccini. Fu fondato nel 1724 per opera del principe Giuseppe Galletti e De Gregorio e dalla moglie principessa Perna Gravina. Fu consacrato il 7 luglio 1738 da monsignor Pietro Galletti, in occasione del l'inaugurazione della nuova chiesa Madre e della chiesa di San Giuseppe. Il convento dei Cappuccini di San Cataldo si distingueva dagli altri esistenti in Sicilia, oltre che per le opere d'arte che corredavano la cappella, per la ricchissima biblioteca completa di opere teologiche, filosofiche, storiche e scientifiche, fra le quali molti manoscritti e incunaboli.

Nel 1866, in seguito alla soppressione degli ordini religiosi, la biblioteca divenne di proprietà del Comune il quale, su richiesta dei canonici Cataldo Pagano e Gaetano Naro, l'affidò alla chiesa Madre di San Cataldo (1898) della quale era arciprete Arcangelo Salomone. Purtroppo della biblioteca rimane oggi poco o nulla, andata in gran parte in rovina preda dei topi e dell'umídità. Le preziose miniature del '600 che formavano i frontespizi di alcuni libri sono scomparse; le pagine manoscritte sono state rese illeggibili dall'umidità. Palazzo Castello Galletti. Sul primo castello dei baroni Galletti non si hanno molte notizie certe.

Agli inizi del secolo diciottesimo il principe Giuseppe Galletti e De Gregorio iniziava nel Piano del Palazzo (oggi Piazza Crispi) la costruzione di un secondo palazzo-castello, con una piazza ottagonale. Purtroppo la costruzione restò nella fase iniziale per la morte dei principe avvenuta il nel novembre 1751. I lavori non furono continuati dagli eredi.

Un'officina di S. Cataldo è l'atelier dello scultore Dino La Marca.

Quando il tempo non era misura di valore rispetto all'opera d'arte e il grande artigianato era al servizio dei grandi architetti e dei grandi costruttori di cattedrali, si riciclavano spesso materiali più antichi per costruire il nuovo. Pensiamo agli anonimi artigiani, scultori e decoratori che hanno reso mirabili gli stili dal romanico al gotico, dal rinascimentale al barocco fino al liberty.

Il moderno ha eliminato questa storica simbiosi tra grande arte e artigianato, riducendo quest'ultimo ad una condizione marginale determinata dalle variabili immediate della domanda del mercato. Tra le cose che più ci hanno colpito a S. Cataldo sono le opere dello scultore/meccanico Dino La Marca. Riciclando i materiali più tipici della nostra civiltà (lamiere, pastiglie, dischi dei freni e in genere tutte le parti metalliche delle automobili), attraverso una maestria manuale da artigianato d'altri tempi, egli riesce a trasformarli in dinamiche e possenti sculture metalliche.

Anche se La Marca è un autodidatta e non ha avuto nessuna formazione accademica, certamente non è un naif. L'armonia delle proporzioni, la dinamica delle forme la ricerca e la cura dei dettaglio, lo collocano sicuramente al l'interno di un discorso artistico che confina appunto con il grande artigianato, dov'è la qualità dell'opera e non il tempo necessario per la sua realizzazione a determinarne il valore. Con i suoi martelli, bulini e ceselli, La Marca impiega mesi ed anni per cesellare una singola opera.

Dino La Marca vive e lavora a S. Cataldo; la sua officina meccanica è anche il suo "atelier" dove sono "nascoste", coperte da vecchi drappi o addirittura da carta di giornale, parecchie delle sue sculture. L'autore li descrive con un certo distacco, attento più a sottolineare la provenienza dei materiali ("Per questa opera sono state utilizzate due vecchie 500"..) e le sue pazienti capacità manuali; è orgoglioso del suo essere autodidatta e non si cimenta in dissertazioni teoriche.

L'opera parla da se. La Marca ha esposto in diversi centri come Caltanissetta, Roma, Temi, Perugia e Spoleto, dove nell'ambito delle attività del "Festival dei due mondi" è stata allestita una sua personale. Ha in progetto, (organizzata dal l'Associ azione culturale "Sicília Nostra" di S. Cataldo) una grande mostra in America, a Rochester presso la sede della numerosa comunità degli emigrati Sancataldesi, dove saranno esposte circa settanta opere tra le più significative della sua produzione. Un'occasione importante per far conoscere questo singolare artista.

 

Una lunga tradizione di vivacità economica e sociale, quella di S. Cataldo inperneata sull'agricoltura, sulla zootecnia, sull'artigianato, sul commercio, sul terziario, supportata dalla locale Cassa Rurale G. Toniolo,  nata nel 1895 cogliendo le spinte della "Rerum Novarum "del 1891 di Leone XIII.

Insieme alla Cassa Rurale Don Bosco finanziò, dopo il secondo dopoguerra, l'acquisto dei terreni da parte dei contadini e e venne incontro a diversi operatori per la realizzazione di attività produttive. I risultati ci sono stati e si vedono tuttora: due mangimifici (uno è tra i più grandi del Meridione), una zootecnia vivace con numerosi allevamenti bovini e di pollame, stabilimenti per la macellazione e la commercializzazione delle carni, un artigianato brillante nel campo del ferro battuto, del legno, dei tessuti, delle tubazioni in vetroresina.

Poi l'agricoltura per lo più basata sulle colture estensive dell'olivo, delle mandorle, dei seminativi ha cominciato ad espellere forza lavoro spedendola verso la Germania, la Svizzera, il nord Italia, forza lavoro che ora sta ritornando e cerca di inserirsi nei meandri di un terziario senza clienti. E così l'operosità, la vivacità sociale dei sancataldesi, sovrastata da una crisi più ampia lascia spazio a un terreno fertile per facili lucri e per fasulli miraggi, nella quale i giovani di fatto non hanno riferimentì.

Riferimenti che non hanno trovato nelle precedenti ammìnistrazioni comunali, che non trovano nell'attuale amministrazione capeggiata dal sindaco Enza Vullo, che lotta quotidianamente con i numeri in consiglio comunale e con le difficoltà croniche degli enti locali siciliani.

Non è difficile individuare i rimedi per rilanciare la  realtà socio-economica: sostegno per l'agricoltura, strutture per la commercializzazione dei prodotti agricoli, irrigazione, elettrificazione rurale, sicurezza per gli operatori, e, sopratutto, cultura allo sviluppo rivolta ai giovani. 

Tra le scommesse di San Cataldo nei prossimi anni c'è sicuramente l'istituzione della riserva naturale del Mimiani. Una sfida che non è solo naturalistica, ma, anche e soprattutto, culturale e occupazionale. La proposta di creare una riserva naturale in quella ampìa zona che accompagna il corso del fiume Salito è stata ufficialmente avanzata un paio d'anni fa alla Regione siciliana da diverse associazioni ambientaliste (Wwf Sicilia Nostra, Italia Nostra).

La zona interessata, di notevole valore ambientale, si estende per circa 3.500 ettari, coinvolgendo i comuni di San Cataldo, Caltanissetta e Marianopoli. L'importanza dei luoghi è data non solo dalla presenza dei boschi (ultimi lembi dello storico bosco di Mimiani, ricordato in scritti del sedìcesimo secolo per l'abbondanza di selvaggina), ma, soprattutto, per l'ecosistema sviluppatosi lungo íl fiume Salito (così chiamato per l'alto contenuto di sale disciolto nelle sue acque), corso d'acqua che rientra nel bacino idrografico del fiume Platani.

Nell'area è presente la tipica vegetazione della macchia mediterranea: il píno d'Aleppo, l'olivo, il carrubbo o il mandorlo. Per quanto riguarda la fauna è possibile trovare l'istrice, la volpe e la donnola. Diverse le varietà di uccelli, sia di bosco, che di fiume, che rapaci (oltre la poiana e il gheppio sorvola queste zone anche la rara aquila del Bonelli).

L'istituzione della riserva permetterebbe tra l'altro di creare una vasta zona con una forte propensione allo sviluppo turistico. Poco distante da qui c'è infatti la riserva naturale del Lago sfondato; e tante sono le miniere, per lo più abbandonate e poca valorizzate, di sali potassici come quella di Bosco e di Palo, o le piccole soffiare come la Stincone. In più può aggiungersi un affascinante percorso archeologico.

Nel comprensorio ricadono, infatti, diversi ìnsediamenti, in genere poco conosciuti: come la necropoli di contrada Balate Vallescura, il fortilizio arcaico di Monte Mimiani, gli scavi di Vassallaggì, la necropoli bizantina di Bosco Saline, l'area di Monte Castellazzo. Dunque, un'area dalle grandissime potenzialità, dalla quale potrebbe partire il rilancio dell'intero territorio.

Proprio per questo, nella proposta di istituzione della riserva avanzata dalle associazioni ambientaliste, è indicata tutta una serie di soluzioni che potrebbero permettere, nel rispetto dell'ambiente naturale, una facile fruizione e un diretto contatto con la natura. Come la creazione di aree attrezzate e di sentieri naturalistici, o la costruzione di un museo-laboratorio e di un centro visita. Oppure come la previs ione di un centro agrituristico da realizzare all'interno di una delle tante e belle masserie esistenti.

A circa quattro chilometri a nord di San Cataldo, in contrada Vassallaggí, si trovano i resti di un'antica città. Posta sulla grande via che univa Agrigento ad Enna, il primo nucleo sorse in età protostorica quale centro indigeno. I primi abitanti di Vassallaggi devono considerarsi "sicani " della prima età del bronzo caratterizzata dalla ceramica rossa a motivi geometrici e dalle tombe "a forno " Con l'arrivo dei Siculi, popolo di origine indoeuropea, le colline di Vassallaggi furono abbandonate.

Sono state trovate tracce che risalgono all'età del ferro; sono stati rinvenuti, infatti, strati con ceramica dipinta "a flabellí " e un modellino dì capanna in terracotta. Nei secoli VI e V a.C avvenne l'ellenizzazione di gran parte della Sicilia, compreso il territorio di Vassallaggi. Un notevole sviluppo edilizio si ebbe nella seconda metà del sec. V quando si provvide a rinnovòare la cerchia muraria e trasformare radicalmente l'assetto urbanistico con vie ortogonali e con abitazioni dì tipo greco comprese tra "insule ".

A questo periodo risale la ricca necropoli con tombe a fosse di tipo greco corredate da crateri a figure rosse, strigili di bronzo, coltelli chirurgici, lance di ferro e boccettine di profumo (un esemplare anche di pasta vitrea ) ora custodite nei musei di Agrigento e di Gela. Ancora di questo periodo è un bel sarcofago in ceramica bianca con pareti sottili, sagomature al labbro e al piede, delle dimensioni di metri 2,02 di lunghezza, 0, 68 di larghezza e 0, 63 di altezza. Il coperchio a pioventi è munito agli angoli e ai vertici di acroteri.

Le sagome molto sobrie erano ravvivate da decorazioni a tempera. Sulla cornice del timpano si vedono palmette rosse con gambi azzurri. Si tratta di un monumento nuovo, non per la forma ma per le decorazioni. Questo bel sarcofago è stato rinvenuto dai fratelli Salomone e acquistato dal Museo di Siracusa. Intorno al 320 a. C le colline di Vassallaggi furono nuovamente abbandonate per essere ripopolate soltanto nel V sec. d.C. da una comunità cristiana A questa ultimo periodo appartengono le tombe ricavate nelle grotte preistoriche.

Le feste popolari sono state, specie in passato, numerose e ricorrenti in paese. Particolare solennità ebbe la festa di ''lu Bamminu di lu Ratò " durante il Capodanno. I festeggiamenti si iniziavano al mattino, cioè all'elevazione della prima messa, la "musica" suonava dinanzi la porta della chiesa e poi "si nni calava ". Si concludeva nel pomeriggio con la processione del Bambino Gesù e la "maschiata ".

Durante la processíone, insieme alla banda musicale, si distingueva il suono delle cornamuse e dei tamburelli. Le manifestazioni più caratteristiche e più folkloristiche sono ancora adesso quelle della Settimana Santa. Hanno inizio la notte del giovedì santo con la processione de "la Matri Addulurata e di San Giuannuzzu ". La processione ha termine quando Maria e Giovanni, dopo aver cercato invano, giungono finalmente dove il Cristo è tenuto prigioniero.

Ma all'arrivo dell'Addolorata la porta viene chiusa per impedire alla madre di vedere il Figlio coronato di spine e coperto di piaghe; a questo punto i "Iamintatura " (laudatori) intonano antiche cantilene sacre, alcune delle quali, anche se storpiate, si attribuivano a Jacopone da Todi. All'alba del venerdì santo nella piazza San Giuseppe avviene il primo incontro tra Gesù coronato di spine e con il corpo piagato e la sua divina Madre con San Giovanni, quindi la processione si avvia al Calvario.

Contemporaneamente il corpo di Gesù viene esposto nella cappella del Calvario sino alle tredici, ora in cui viene sospeso sul legno della croce in attesa della recita della "Scinnenza ". A mezzogiorno si svolge il "Processo a Gesù" e quindi il secondo incontro, che avviene in piazza tra gli stessi personaggi del mattino; la processione ha termine al Calvario dove il Cristo viene messo in croce. Il Crocifisso rimarrà inchiodato fino all'imbrunire, quindi ha luogo la "scinnenza".

Gli attori con abiti ebraici, recitano enfaticamente la via Crucis. Avvenuta la deposizione, con la fine della recita, si inizia la processione dell'urna dorala, finché alla Madrice avviene "l'amara spartenza " della Madre e del Figlio. Le feste pasquali sì concludono con l'incontro, la domenica di Pasqua, della Madonna con Gesù risorto, accompagnati dalla Maddalena e i "Sampauluna ".

I Sampaoloni traggono origine dai "Giganti processiamoli " costruiti in cartapesta con asticelle di legno e fili di ferro in modo da essere azìonati e portati da un uomo per le vie della città. Rappresentano personaggi storici che nella struttura gigantesca identificano il valore morale e l'eroismo battagliero di santi o di eroi leggendari. I giganti processionali sono diffusi in molle regionì d'Italia e all'estero. Quelli della Sicilia mostrano evidenti somiglianze con quelli del Belgio, e questo particolare lascia pensare alla comune sovranità esercitata dalla Spagna sull'una e sull'altra regione. La loro istituzione risale ai sec. XVI e XVII.

E' da ricordare la festa dei Cavallucci di San Francesco in onore di "San Franciscu niuru " (San Francesco di Paola) per la caratteristica "cursa di li cavadduzzi " costruiti in legno e rivestiti di carta. Questa festa affondava le sue radici nella leggenda secondo la quale San Francesco, ispirato dal Signore, intraprese un viaggio per venire in Sicilia ad evangelizzare i terrazzani che popolavano i feudi del tardo medioevo. Partito da Paola e giunto a Villa San Giovanni chiese ad un marinaio se lo traghettasse sulla sponda siciliana. Al netto rifiuto oppostogli dal marinaio, si inginocchiò ed invocò l'aiuto del Signore.