L'era dei modelli culturali e sociali standardizzati è finita. La ricchezza risiede nella diversità che deve essere mantenuta o ritrovata. Ecco lo spazio che le culture locali e rurali devono riempire soprattutto all'interno della Comunità Europea. Cultura e sviluppo locale: la tematica in sé è banale. Si rivela tuttavia ricca e produttiva se la si esamina in tutte le sue sfaccettature. E soprattutto se si rifiuta di scindere, nella riflessione per l'azione, la cultura della popolazione di una collettività dalla cultura per la popolazione di una collettività, in particolare la popolazione rurale. La questione della cultura della popolazione, della cultura locale e più precisamente rurale, deve essere considerata in un contesto di mondializzazione: attualmente, a prescindere dalla sua originalità, una cultura è soggetta ai messaggi di un'informazione immediata e mediatizzata e si impregna di quella che viene definita cultura di massa. Ciò è perfettamente comprensibile se si tiene presente che la cultura non si limita alle arti e alle lettere, ma che è anche l'espressione di modi di vita, di valori In altre parole: della civilizzazione. La cultura per la popolazione si richiama ad altri concetti. Si tratta della cultura offerta come insieme di servizi messi a disposizione degli abitanti locali: cinema, musei, teatri, ecc. L'organizzazione di tali servizi, per lo più di competenza dei poteri pubblici, è il risultato di una politica culturale e, in quanto tale, dipende da principi che vengono costantemente rimessi in discussione. Bisogna avvicinare i servizi culturali quanto più possibile agli utenti, a costo di ridurne la qualità, oppure la soddisfazione in tale campo va ricercata favorendo la mobilità? Questa domanda è peraltro strettamente connessa con la questione dell'appropriazione dei prodotti culturali: senza l'iniziativa e la partecipazione degli operatori locali, il "lancio" di questi prodotti (spettacoli, mostre) rischia di non lasciare alcuna traccia. La riflessione sullo sviluppo locale non può in ogni caso scindere la cultura della popolazione dalla cultura per la popolazione. La dimensione culturale non può essere assente nei progetti di sviluppo altrimenti questi ultimi, carenti, verrebbero privati in parte della loro efficacia. Nell'esplorare tali possibilità si incontreranno successivamente la rivendicazione dell'identità, il fantasma della cultura contadina, l'aspirazione della popolazione rurale alla parità culturale e gli imperativi dell'azione culturale locale. Nonostante la globalizzazione mondiale della comunicazione e degli scambi, il ripiegarsi su culture specifiche è oggi sovente l'origine o il pretesto di separatismi e irredentismi e, di conseguenza, di conflitti territoriali. Di qui, l'importanza della cultura per i gruppi etnici o regionali. Ma la rivendicazione culturale assume livelli importanti anche sul piano locale. Può certamente portare a conflitti che paralizzano gli sforzi di sviluppo ma bisogna ammettere che, il più delle volte, li favorisce e li dinamizza. Probabilmente, le differenze culturali localizzate servono talvolta da pretesto a rivalità e antagonismi, giustificando così le fugaci dispute di campanile, di paese o rione: possono servire da sfogo per passioni individuali o collettive che non trovano altri canali di espressione. Ma, al contrario, la ricerca o la ricostruzione di identità territoriali scaturiscono da individui, gruppi, località e territori spinti dal desiderio di individuare punti di riferimento e di radicamento in una società alla deriva o percepita come tale. E' in questo modo, in particolare, che la connotazione culturale regionale viene riconosciuta da tutti, attraverso le specificità ereditate dal passato e tuttora presenti: l'accento, se non la lingua o il dialetto, i gusti, i comportamenti collettivi e individuali, ecc. L'era della standardizzazione imposta in nome dell'uguaglianza, che ha dato i suoi frutti, è oggi terminata. La ricchezza risiede nella diversità che deve essere mantenuta o ritrovata. Ed una tale diversità non è forse il principale vantaggio dell'offerta culturale locale? La campagna, in particolare, rappresenta una miniera di culture latenti o manifeste, ma in ogni caso originali. Le differenze tra regioni, località e paesi, tra generazioni o gruppi sociali sono differenze culturali. Invece di tentare di cancellarle, o di lasciare che queste scompaiano spontaneamente, non è forse opportuno tendere alla loro promozione, a permettere che si affermino o a coltivare tale differenza? La politica culturale volta a favorire lo sviluppo deve pertanto essere una politica appropriata, selettiva, decisa quanto più possibile con i diretti interessati "sul campo". Tenendo sempre presente che l'obiettivo delle ripercussioni economiche non deve offuscare la volontà di stimolare nelle collettività, tra la gente, in ogni singolo individuo, il desiderio di cultura. Esistono culture locali diverse, ma non esiste forse una cultura diversa più generale, quella contadina? Nei paesi dell'Europa occidentale tutti sono concordi nell'affermare che la cultura contadina, che si affermava cinquanta anni or sono come una realtà evidente, sebbene in declino, sopravvive oggi solo grazie a qualche retrogrado nostalgico dei folklore. Eppure, non è forse opportuno chiedersi se questa cultura così particolare, non potendosi affermare in quanto tale, non continui nondimeno ad impregnare la vita del mondo rurale? Una cosa è certa: il numero di agricoltori è sensibilmente diminuito nell'arco di pochi decenni e questa categoria è ormai minoritaria nelle società paesane. In Francia, ad esempio, la popolazione agricola si è ridotta di due terzi in 3 5 anni. Ciononostante, la popolazione complessiva delle campagne, dopo un declino di oltre un secolo, da alcuni anni da un segno di stabilizzazione e addirittura di leggero aumento. Altri gruppi sociali si sono in realtà sostituiti agli agricoltori. In numerosi paesi, più o meno prossimi alle città, la maggior parte della popolazione attiva lavora fuori dal luogo di residenza. Numerosi sono inoltre i paesi situati fuori dai circuiti urbanizzati e in zone svantaggiate che sembrano destinate a scomparire in breve tempo, come i pueblos abandonados dell'Aragona. Le statistiche indicano tuttavia che persino il "mondo rurale profondo" non presenta, globalmente, una situazione disperata. Il censimento effettuato nel Regno Unito nel 1991 ha rivelato che la popolazione delle regioni rurali isolate è aumentata di oltre il 10% in un decennio. Nel corso degli anni ottanta, nei comuni montani italiani la popolazione è salita del 3%, controbilanciando così le perdite del decennio precedente. Praticamente ovunque è in corso una rapida ricomposizione sociale dei paesi. Un evoluzione più caratteristica è quella che porta persone di ceto medio, ossia quadri e impiegati di concetto, ad assumere un ruolo sempre più importante all'interno dei paesi. Ciò influisce naturalmente sulla sfera culturale. Inoltre, i pensionati stanno diventando il gruppo sociale più numeroso e benestante.: alcuni di essi sono originari del paese, ma la maggior parte proviene dalla città. Anche tale fenomeno esercita un'influenza considerevole in termini di standardizzazione della cultura collettiva. Eppure, la cultura contadina non è totalmente scomparsa. Da un lato, gli agricoltori, sebbene in minoranza, continuano ad essere i gestori della maggior parte dello spazio e, in quanto tali, incidono sulle decisioni della comunità esercitando un impatto superiore a quanto lascerebbe supporre il loro numero. Dall'altro, il patrimonio architettonico, case e monumenti, ma anche piazze, strade, sentieri, e il patrimonio paesaggistico rimangono a lungo profondamente contadini. Nel suo libro dedicato ad un paese dell'East Anglia, Ronald Blythe scrive che " il cittadino invidia al contadino le sue certezze e, in Gran Bretagna, ha sempre considerato la vita urbana come una necessità temporanea. Prima o poi, troverà un villino nel verde e i veri valori Akenfield è il tipo di paese nel quale un Inglese si è sempre sentito in diritto e in dovere di abitare un giorno.... E la prima necessità del nuovo venuto in paese è quella di percepirne il ritmo e le sensazioni, di identificarlo per ciò che esso è realmente e di integrarsi completamente". Sebbene tale descrizione sia leggermente idealizzata ed esagerata, non è sorprendente che autori tedeschi facciano eco a questo autore inglese? Beate Bruggermann e Rainer Riehle nel descrivere Walddorf, un paesino della Foresta Nera, affermano infatti che " i modi di pensiero, di comportamento e di riferimento dei contadini si rispecchiano nella "contadinità" del paese, nonostante gli agricoltori rappresentino ormai un gruppo marginale..." e che " ciò rivela l'esistenza di una struttura di integrazione che, accogliendo il nuovo venuto, evita i conflitti". In modo più lirico e con una grande lucidità, lo scrittore spagnolo Avelino Hernandez ritiene che " quando il vento della storia è propizio, gli elementi vivi delle culture scomparse riacquistano il loro pieno vigore .... . La cultura rurale non né morta, ma è stata sconfitta. Per questo motivo, essa continuerà a vivere come la brace che cova sotto le ceneri del tempo che passa. E il suo persistere evocherà il ricordo di nomi, luoghi, riti, tradizioni, costumi, feste, radicati come licheni ai vecchi rami della cultura in vigore". La cultura o la "sottocultura" contadina (come la definiscono i letterati) presenta quindi elementi distintivi che l'hanno caratterizzata in passato e che continuano a caratterizzarla anche oggi: è questa cultura che conferisce un senso alla nozione di contadino. 1 suoi elementi distintivi sono legati alla sua duplice origine. Da un lato, un'origine endogena che, per i contadini, è rappresentata dal contatto costante con la natura, l'attività manuale, il carattere artigianale e pluridisciplinare della loro attività che implica nozioni di biologia, chimica, meccanica, economia, ecc. Dall'altro lato, un'origine esogena, che deriva, per i contadini, dal disprezzo che essi hanno dovuto subire nel corso dei secoli. Questa cultura presenta in modo estremamente marcato la specificità di un'identificazione locale e regionale. Sebbene tutte le sottoculture siano impregnate della storia e delle tradizioni dei territori sui quali si sviluppano, la cosiddetta cultura contadina ne ha sempre conservato l'impronta maggiore. E' tuttavia ovvio che una cultura contadina così caratterizzata non è né isolata né indipendente. Essa è invece profondamente pervasa della cultura dominante, che accetta in quanto tale, che ingloba o, più raramente, che interpreta per potersene appropriare. E' tuttavia noto che la scolarizzazione della popolazione rurale tende oggi ad uguagliare se non addirittura a superare il livello medio nazionale. Un numero sempre maggiore di rurali adulti dispone quindi dello stesso bagaglio scolastico degli altri gruppi sociali. Inoltre, l'intensificazione dei contatti interpersonali esterni al mondo rurale e l'accesso diretto all'informazione veicolata dei grandi mass media permettono al contadino di essere confrontato "come tutti" ai modelli proposti dalla cultura di massa. E anche se egli ha di questi modelli una percezione specifica, la sua cultura distintiva ne rimane comunque profondamente alterata. In queste condizioni, si accentua in tutti i sensi l'aspirazione alla parità, una sorta di componente costante della mentalità contadina. Si aspira alla parità del reddito ma anche alla parità della considerazione e della dignità. Soltanto dopo aver conquistato questa parità, il contadino potrebbe eventualmente desiderare un'identificazione, una specificità che appare allora come una sorta di complemento. Pertanto, il diritto fondamentale che deve essere riconosciuto in campo culturale non è forse il diritto al conformismo? Lo sviluppo locale, fatto ormai acquisito, è il frutto della sinergia tra forze e capacità locali e mezzi esogeni (investimenti privati o stanziamenti pubblici). Ciò è valido in tutti i settori e, ovviamente, anche in quello culturale: nella dinamica del sistema "Sviluppo", il settore culturale è strettamente correlato agli altri, all'iniziativa locale, al potenziale umano, alla politica, ecc. La cultura, in termini elementari, è, a questo livello, il patrimonio, la natura, la creazione. Il patrimonio è al tempo stesso materiale e immateriale. La nozione di patrimonio materiale rinvia immediatamente al patrimonio architettonico. Quella di patrimonio immateriale richiama alla mente le tradizioni orali, il sapere e il know-how, le lingue, i dialetti, i modi di dire locali. E tutti concordano sulla necessità di preservare il patrimonio, imperativo precipuo dell'azione culturale. La questione della valorizzazione commerciale del patrimonio e del suo rapporto con lo sviluppo economico suscita tuttavia considerazioni che si fondano su una certa soggettività. Bisogna "vendere" tutto, nel senso metaforico del termine? li restauro di una chiesina di campagna, di una fattoria e la ristrutturazione della piazza di un paese hanno senso soltanto se richiamano una maggiore affluenza turistica oppure possono essere realizzati per il puro piacere, per la cultura degli abitanti? Una delle componenti principali della cultura è infatti l'ambiente quotidiano, un ambiente che, attualmente, coincide quasi per tutti con l'ambiente architettonico. La qualità estetica di questo ambiente accresce il livello culturale dei residenti. La natura è, nello spazio rurale, un'altra componente, la più originale, dell'ambiente. In quanto tale, essa è parte integrante della cultura, espressa sotto forma di paesaggio. E' risaputo che questa natura, questi paesaggi sono .... colti(vati). Neppure le foreste sarebbero ciò che sono attualmente se non venissero curate. E il futuro dei paesaggi familiari è oggi legato alla sopravvivenza degli agricoltori che li hanno modellati nel corso dei secoli. Non è sufficiente affermare che, a livello locale, non ci si occupa abbastanza di questa cultura offerta dalla natura. L'educazione dei giovani dovrebbe trarvi nuova linfa: " si impara di più nei boschi che dai libri" diceva S. Bernardo molti secoli or sono. La creazione artistica in ambiente locale e più precisamente rurale pone infine una seria di domande delicate nelle sue relazioni con lo sviluppo. Delicate perchè si riferiscono al gusto e alla soggettività e non devono rimettere in discussione la gerarchia qualitativa. Tali domande potrebbero peraltro riassumersi in un semplice "Da chi? Per chi?". La letteratura "contadina", gli spettacoli, le arti plastiche sono talvolta opera di artisti locali, ma nella maggior parte dei casi sono prodotte da artisti venuti ad abitare nella zona temporaneamente o permanentemente. La difficoltà è sempre la stessa: far si che la popolazione locale si appropri dell'iniziativa culturale e che questa, anche se proviene dall'esterno, rafforzi l'identità e la coesione sociale. Sono troppi i festival e le mostre d'arte quasi esclusivamente riservati ad un pubblico cittadino per il quale il paesaggio rurale sembra limitarsi a fungere da cornice. Tra un'animazione concepita come semplice accompagnamento per villeggianti sfaccendati ed una dinamica di accoglienza più autentica, più generalizzata e più idonea a meglio preparare il terreno per poterlo sviluppare in seguito, la scelta dovrebbe essere ovvia. La politica culturale dei poteri pubblici, espressa sia a livello di Stato che di collettività locali, si giustifica di norma in termini di contributo allo sviluppo. Questo sfocia in una reale ambiguità: non si mira tanto ad aumentare il livello culturale bensì a stimolare l'attività economica. Così, ad esempio, nelle motivazioni di un protocollo di accordo, i ministeri francesi della Cultura e dell'Agricoltura hanno dichiarato che " lo sviluppo culturale non deve più essere considerato come un lusso superfluo bensì come un motore dello sviluppo economico e sociale". Eppure, la responsabilità nell'istituire i programmi porta, o dovrebbe portare, i decisori ad una riflessione fondamentale sull'equilibrio da rispettare tra soddisfazione dei bisogni culturali e soddisfazione dei bisogni economici. E' vero che nelle campagne la simbiosi tra cultura ed economia passa spesso per il turismo, ma nulla impedisce ai promotori di azioni culturali di conciliare la necessità di attirare un pubblico esterno e la volontà di andare incontro alle aspettative, raramente espresse, dei pubblico locale. Pertanto, la moltiplicazione delle azioni, caratteristica della nostra epoca, pone il problema tutt'altro che semplice, di una corretta valutazione dei risultati della loro doppia impostazione. Le sovvenzioni indispensabili e consuete impediscono spesso di quantificare i vantaggi reali e, ancor più sovente, di misurare i deficit finanziari di tali azioni. D'altro canto, la conseguenze di un'animazione temporanea, se non passeggera, sul potenziamento dei legami sociali e dello spirito collettivo d'impresa possono essere osservate solo a medio o lungo termine. E' quindi necessario essere pragmatici, sinceri nell'autocritica ed esigenti nella valutazione. Una volta calato il sipario e finito lo spettacolo si riordina tutto e si attende la stagione successiva? No! Resta da stilare il bilancio quantitativo e qualitativo dell'attività. Gli attori se ne sono andati alla chetichella Ma il bilancio spetta ora ad un'altra categoria di attori. Sono gli attori della politica culturale, un insieme di persone, istituzioni, regolamenti ed iniziative. Anche se si scava in profondità in questo sistema, non si deve tuttavia dimenticare il contesto generale: i tempi attuali impongono che l'accesso dei cittadini alla cultura dipenda essenzialmente, e soprattutto, dall'istruzione scolastica e famigliare e dalla produzione audiovisiva; entrambe totalizzanti e standardizzanti. In questo contesto particolarmente denso di significati, il ruolo degli attori è tutt'altro che trascurabile e la loro opera si svolge in spazi di autonomia che sarebbe errato sottovalutare. Primo fra gli attori, il Comune. E' il Comune che, nel secolo scorso, ha inventato la politica culturale. In passato, numerose autorità comunali hanno dotato le loro città, sia grandi che piccole, di musei, teatri, biblioteche, ecc. Hanno marcato il loro passaggio al l'attività commerciale con realizzazioni prestigiose, spingendosi talvolta sin nei borghi rurali. Ancor oggi, gli enti locali sono attivi in campo culturale: in Francia, negli ultimi vent'anni, gli investimenti nel settore sono triplicati. E' essenziale citare, tra gli attori di rilievo, le associazioni le cui azioni sostengono, incrociano ed amplificano quelle dei poteri pubblici: associazioni che mobilitano e, così facendo, contribuiscono allo sviluppo. E' forse superfluo, infine, ricordare il ruolo primordiale svolto dallo Stato e dalla Commissione europea in tutte le fasi di questo processo. Ma c'è dell'altro. La spiegazione tecnica, complessa ed impersonale, rischia di aver occultato l'elemento essenziale, un elemento che può essere riassunto,in una frase che servirà anche da conclusione. A prescindere dalla forma che assume, la cultura, contribuendo alla valorizzazione dei potenziali collettivi ed individuali e favorendo la piena realizzazione della personalità, è il migliore e più efficace vettore dello sviluppo. Bernard Kayser (Professore presso l'Università di Toulouse-Le Mirail, Presidente del "Groupe de Prospective des Espaces ruraux " e dell'Università rurale ed europea. Autore di numerose opere sullo sviluppo rurale. L'articolo è tratto da "Leader Magazine ", rivista del programma Leader della Comunità Europea, n. 8) |