Non aveva toccato ancora terra, l'aereo che trasportava Vincenzo Di Giorgio da Roma a Palermo, che dai suoi occhi incominciarono a sgorgare un mare di lacrime; man mano che scorrevano, andavano a riempire le piccole rughe, che come tanti rivoli consentivano, alle stesse, di scivolare sul suo golf lana. Dalla tasca tirò fuori frettolosamente un vivacissimo fazzoletto pieno di disegni e colori, e, cercando di nascondere l'imbarazzo, si asciugò il viso; tolse la cintura di sicurezza e velocemente, inforcando un paio di occhiali neri, per nascondere gli occhi oramai arrossati, si avviò verso l'uscita dei velivolo. 'Vincenzo ritornava speranzoso di trovare la tomba di suo padre, ricerca che aveva esperito l'anno precedente nel piccolo cimitero di Chiusa sclafani anche se, senza alcun esito. Il tempo di riordinare i ricordi, che già si trovava ad attraversare il bosco di Ficuzza, lasciandosi alle spalle Il lago dello Scanzano. Il paesaggio si presentava meraviglioso; il grano, oramai prossimo alla maturazione, ma ancora abbastanza verde si piegava al leggero alito di vento, quasi in tono reverenziale verso l'inusuale turista. Si alzava e sì piegava come un'onda di mare, perdendosi all'orizzonte per poi ripetere il rituale al successivo soffio di vento. Poi, la famosa Corleone e successivamente la Valle del Triona, tutti paesaggi variegatì e movimentati che allietano la vista ed il cuore. Vincenzo osservava dal finestrino senza battere ciglio l'immenso scenario, mentre, i suoi pensieri, erano volti esclusivamente alla speranza di ritrovare la sepoltura di suo padre Franck. Ad attendere Vincenzo a Chiusa Sclafani, c'erano il funzionario dei comune Vincenzo Giammalva, responsabile dell'anagrafe, ed il custode dei cimitero Peppino Pollichino; quest'ultimo, riconosciutolo gli rivolse il fatidico saluto in un maccheronico americano, `Alò'. Vincenzo, preso alla sprovvista dell'ìniziativa dell'impiegato, sia per gentilezza ed anche per rompere il silenzio e dare un tono confidenziale all'incontro, risponde con un suono rassomigliante alla parola dei l'intraprendente custode, seguito da un conviviale sorriso. Il funzionario, in un incerto accento che sapeva dì americano, seguito da diversi segni con le mani, fece capire a Vincenzo che aveva trovato in paese la persona in grado di poter indicare la sepoltura dei proprio padre Francesco Di Giorgio. Una ricerca affannosa, più volte sollecitata dall'americano con numerose lettere, che avevano trovato in Leonardo Gendusa, ritenuto mente storica dei Comune, la persona in grado dì ricostruire la parentela con gli antenati di Vincenzo Di Giorgio. Leonardo, interpellato, con tono sicuro, indica nel calzolaio Giuseppe Gendusa, la persona capace di ricostruire l'intera storia. L'americano intuendo il discorso, è preso dall'euforia; si agita, sorride, poi torna serioso, e nonostante non conosce la lingua italiana, cerca di farsi capire mediante gesti e con un siciliano antico e stentato. Giuseppe Gendusa a quell'ora è a casa per consumare il solito pranzo; questi, al suono dei campanello si precipita alla porta; il funzionario, constatando lo smarrimento dei padrone di casa cerca di chiarire subito l'insolita visita. Vincenzo guarda la bocca dei due compaesani alla ricerca di capire cosa si stessero dicendo. Alla fine del dialogo, Giuseppe Gendusa dice che è a conoscenza di tutto, ma che è difficile poterlo spiegare, in quanto non conosceva l'inglese. Di corsa si cerca la professoressa Giuseppina Pinzarrone, insegnante di inglese, la quale, era a conoscenza dei fatti perché più volte aveva tradotto le lettere dell'americano. Seduti attorno ad un tavolo, oramai pieno di dolcini e qualche bicchiere di buon vino, Giuseppe incomincia a narrare i fatti, mentre, la Pinzarrone traduce per Vincenzo, al quale, si vanno rìempiendo gli occhi di lacrime man mano che la storia prosegue. Il padre Vincenzo era calzolaio, così come il figlio Gìuseppe; il loro laboratorio era posto in un crocevia che collega il quartiere di s. Michele con la restante parte dei paese. Don Vincenzo era una persona dotata di grande saggezza; corporatura longilinea, altezza superiore alla media, una flemma garbata, in grado di trovare una buona parola per ogni circostanza. A don Vincenzo ci si rivolgeva per qualsiasi necessità per far pace tra marito e moglie, nuora e suocera, tra genitorì e figli dopo la classica "fuitina", vendere o acquistare terreni, combinare matrimoni, etc. Chi passava da Via Mario era obbligato a fermarsi nella sua bottega per discutere del più e dei meno. Vincenzo Gendusa era filosofo, psicologo, avvocato e confessore, a lui confidavano tutto, sicuri che dalla sua bocca non sarebbe uscita mai una parola di quelle confessate; il calzolaio, aveva il dono di sapere ascoltare e alla fine usare quella ,parola" capace di appianare le relative controversie o di dare le flemmatiche soluzioni. Da dietro i suoi occhiali poggiati all'estremità dei suo naso, ascoltava silenzioso, mentre, provvedeva a riparare le scarpe fermandosi nel momenti cruciali dei racconto, per poi ríprendere il lavoro. A don Vincenzo era succeduto nell'attività il figlio Giuseppe, il quale a giudizio di molti aveva ereditato l'arte e l'affabilità dei padre e nonostante il mutare dei tempi il laboratorio di Via Mirio continua ad essere, almeno per gli anzianí, tappa obbligata e luogo di conversazione. Giuseppe Gendusa incomincia a raccontare Il calvario di Francesco Di Giorgio, conosciuto da tutti i compaesani come mister Franck, l'americano. Don Vincenzo e mister Franck, racconta Giuseppe, erano legati da un'affettuosa e sincera amicizia, tanto che alla morte dell'amíco americano, suo padre gli cedette la sepoltura di famiglia. Il gesto è stato di grande generosità in quanto la tomba, nei nostri paesi, costituisce un patrimonio esclusivo della famiglia che nessuno estraneo deve profanare. L'over ceduto la tomba all'amico Franck era la dimostrazione dell'elevato grado di amicizia esistente tra i due. Giuseppe, asciugandosi una lacrima, proseguendo il racconto, riferisce che suo padre alla morte volle essere seppellito accanto all'amico Franck. Tutto ciò, era avvenuto in silenzio senza che nessuno sapesse niente ad eccezione del Figlio Giuseppe. Vincenzo alla fine dei racconto, incomincia a piangere disperatamente; abbraccia Giuseppe ripetendo singhiozzando thank you, thank you. Giuseppe anche lui commosso e, nei contempo compiaciuto dei riconoscimento che dopo tanti anni stava ricevendo suo padre, rivolgendosi a Vincenzo ripeteva che non era il caso di ringraziare lui, ma caso mai, suo padre. i due cominciano a chiamarsi cugini, Giuseppe preso d'entusiasmo invita Vincenzo a soggiornare a casa sua. I due figli in memoria e nell'amicizia dei loro genitori si ritrovano, come in una scena di un film con un uguale copione ed attori diversi. Il giorno successivo si ritrovano tutti al Municipio, si controllano le date di morte e le generalità dei genitore, ed in questa occasione il sindaco Salvatore Pollichino, fa dono all'americano di una targa ricordo ed alcuni libri sulla storia di Chiusa Sclafani, un riconoscimento ad uno dei tanti chiusesi dispersi per il mondo. Francesco Di Giorgio era un uomo, che aveva visto nel sogno americano la possibilità di fare il salto di qualità che gli avrebbe consentito di trovare la tranquillità economica e sociale. Ma il modo scelto, era tutto sbagliato. Infatti, si era messo a contrabbandare alcol, cosa che a quei tempi negli Stani Uniti era proibita. Oramai scoperto e con la polizia alle calcagno dovette fuggire. il "sogno americano" per i nostri corregionali d'inizio dei secolo è stato indescrivibile. Si pubblicizzava che in Ameríca gloria, ricchezza e successo erano facili da raggiungere. loschi individui facevano intravedere, ai nostri umili e poveri siciliani, irraggiungibili sogni che erano a portata di mano e che potevano avverarsi dopo avere attraversato l'oceano. Francesco, qualche decennio prima, aveva creduto a questo miraggio ed aveva corso disperatamente tra le braccia di questa "sorella americana" non trovando, però, quella disponibilità che gli avevano fatto intravedere. Francesco Di Giorgio era una persona molto amata in paese. Andava in giro, almeno per i primi tempi, con scarpe bianche e blu, vestito gessato e la solita paglietta da personaggio teatrale, il classico tipo americano, abbigliamento che portò per gran parte della sua esistenza. Era una maniera goliardica d' apparire; conosceva poco di inglese, a parte alcune parole di facile apprendimento: thank you, good bye, i Iove you, etc., che utilizzava in qualsiasi discorso e per tutte le cìrcostanze. Dì tanto in tanto, dall'America arrivavano dollari e qualche pacco di vestiti, che la moglie puntualmente gli inviava, ciò consentiva al povero uomo, rivendendo la merce, di vivere economicamente con una certa tranquillità. Ciò nonostante, il suo più grande desiderio era quello di tornare a riabbracciare la moglie ed i suoi due figli, desiderio, definítivamente stroncato dall'inizio della seconda guerra mondiale. Per colmare questo suo grande desiderio, forse convinto di non poterlo più realizzare, incominciò a bere. Non rinunciava mai ad un bicchiere di vino o all'accattivante antico rosolio, unica medicina in grado di risollevargli l'umore e colmare il suo dolore. Sofferenza che aumentò quando la moglie non fece più pervenire nessuna lettera. Francesco Di Giorgio, chissà quante volte avrà confessato le sue amarezze all'amico Vincenzo. Alcuni anziani ricordano che lo si vedeva spesso, passando davanti la bottega dei calzolaio, con la testa tra le mani, i gomiti posati sulle cosce a gambe aperte, piangere e disperarsi perché non poteva rivedere i suoi figli e sua moglie, o chissà, cotto di gelosia per la paura che la propria compagna, forse, anzi di sicuro, aveva trovato un altro uomo. Dopo la guerra si procurò dei vestiario da vendere rifornendosi al mercato di Palermo; i proventi servivano per comprarsi da bere, vino che non guarì mai la sua tristezza e che trovava ampie pause nella bottega dell'amico Vincenzo. li suo dolore lo celava con il suo esibizionismo, a volte anche sproporzionato; gli piacevano le donne, con le quali si intratteneva a parlare, scambiando qual parola dolce in americano, mostrando il suo talento da gentiluomo, acquisito negli Stati Uniti. Usavo frasi in inglese quando non sapeva che cosa dire, cercando in qualche modo, di mostrare un certo personaggio che di certo, non era lui. La sua vita era spassionata, goliardica, tutta protratta a dimenticare il suo dolore che portava dentro. Ad una certa età decise di trovarsi una compagna: Rosa; pare, che la donna fosse d'origine palermitana. Semplice ed umile, aveva soltanto la missione di riempire d'affetto e ci' amore, il cuore dei povero Franck. la donna, nonostante la sua umiltà e semplicità non era tenuta in grande considerazione dai compaesani per il fatto che vìveva con un uomo senza essere sposata. la loro prima abitazione era ubicata in Piazza Castello, la casetta a sinistra accanto l'ingresso dei baglio del maniero. Tre stanzette sovrapposte, che divideva con la dolce Rosa, la quale, più che parlare ascoltava, più per riconoscenza, che per amore. Successivamente si trasferirono nei cortile Natale. Frequentava i fondaci alla ricerca di trovare la sua serenità e la felicità perduto. la sua morte fu causata dal suo eterno amico consolatore: l'alcol. Il Dott. Giuseppe Di Giorgio, che lo ebbe come paziente, raccontava che la causa della sua morte era stata la cirrosi epatica. A seppellire la salma di Franck, provvide l'amico Vincenzo, che come confessore dei suo dolore l'aveva ascoltato e consolato per anni ed ora gli dava anche il riposo eterno. Mons, Palmeri, Arciprete dei paese, aveva rifiutato di dargli l'estrema unzione, in quanto essendo concubino, non poteva ricevere il sacramento. Franck in quella occasione decise di accogliere l'invito dei sacerdote accordando le nozze alla sua Rosa e così prepararsi santamente all'incontro con Dio. Il figlio Vincenzo racconta che successivamente alla morte dei padre, donna Rosa fece pervenire alla loro casa in America un piccolo pacco con alcuni oggetti che suo padre custodiva gelosamente: una collana d'oro, un portamonete, la foto della moglie ed i figli. Sua mamma quando vide V involucro capì che il marito era morto e per alcuni giorni, Vincenzo ricorda, piansero tutti amaramente. Questo padre e marito che Il aveva amati, certo a modo suo, forse non più tornato dopo la guerra, per non tradire l'affetto di donna Rosa, ma anche per non turbare la vita della sua prima moglie. Chissà ? Dubbi che resteranno depositati nel nulla e che i due si sono portati nella tomba. Vincenzo racconta che la mamma decise di rimandare tutto a donna Rosa, in quanto voleva ricordare il marito da vivo e non da morto, e poi anche perché era giusto che donna Rosa, che aveva assistito il povero Franck nei momenti più brutti della sua vita avesse qualcosa per poterlo ricordare. Donna Rosa Fu molto grata dei pochi oggetti che la moglie di Franck le aveva restituito, d'altronde, erano le uniche cose per continuare a far vivere nel suo cuore l'amato Franck. Un uomo a cui la sorte aveva dato due donne, la possibilità di amarle entrambe, senza che da tra di loro si fosse creato astio o cattiveria. Un crudele destino quello di Vincenzo che aveva alimentato l'incolmabile desiderio di ritrovare il suo vero padre che non aveva mai conosciuto, quel padre tanto amato, ma sempre cercato tra i suoi infantili ricordi. Vincenzo oramai grato per il gesto inusuale, certo non molto comune In terra americana, ringrazíava tutti gli amici, ma anche tutta la popolazione di Chiusa Sclafani per l'affetto e la simpatia che avevano dato a suo padre; l'indomani tornando al cimitero fece sistemare un portafotografie d'argento, con la fotografia dei padre, accanto a quella dell'amico Vincenzo. Chi si trova a passare da quelle parti, dopo circa cinquanta metri dall'ingresso dei cimitero, sul lato destro, lungo il viale principale, può trovare nella tomba della famiglia Gendusa queste due foto una accanto all'altra. Vincenzo e Francesco, amici per sempre, non hanno vinto niente, non hanno ricevuto nessun compenso, non hanno contribuito a fare chissà quale storia o a completare un progetto, hanno vissuto in viva fratellanza, in questa e di sicuro nell'altra vita. Così come nella vita, nella morte si sono ritrovati insieme uno accanto all'altro, così come aveva previsto Don Vincenzo. Due grandi amici su cui la storia non ha scritto e non scriverà niente, a me tocca solo ricordare i valori dell'amicizia, della fratellanza umana che spesso noi tutti camuffiamo con Interessi meschini, ma che costituiscono agli occhi di Dio l'ineguagliabile misura umana.