L'ulivo testimone secolare del nostro transumare generazionale.

L'ulivo segno di pace, di adattamento, di longevità, di antica saggezza. Chi non ha pensato all'antico mondo ellenico osservando i tronchi cavi, grigi e all'apparenza rinsecchiti, degli ulivi nella valle dei Templi! L'ulivo nei terreni argillosi o calcarei, in collina o in riva al mare, in montagna o ai laghi, rimane testimone secolare del nostro transumare generazionale, e ci racconta la storia degli avi, la storia della loro vita agreste e semplice. Ecco, io voglio raccontarvi l'olio, come me lo ricordo quando avevo il privilegio di far parte di quella storia prima di ubriacarmi di città. Dalle "drupe" dell'ulivo, cioé dalle olive, si fa l'olio, liquido eccellente che scende limpido e luminoso su pietanze e conserve, prezioso come l'oro. E sarà per questo che quando si rompe una bottiglia d'olio si grida alla sventura, è un capitale che va in rovina. Un capitale vero essendo il suo costo dovuto non solo al ciclo produttivo ma anche a tutte le spese implicate nel portare una pianta "attiva" da una "carica" (grossa produzione) all'altra, cioé due anni circa. L'ulivo richiede poche cure particolari ma costanti: due volte all'anno zappato, irrorato in primavera, appena spunta il frutto, potato alla bisogna, concimato una volta ogni due anni, al resto ci pensa lui in combutta con le stagioni. Dopo il sole estivo e le prime piogge settembrine, le olive più mature cominciano a cadere dai rami già carichi: è il segnale che la raccolta si farà e sarà abbondante. Le olive, come i semi del famoso Vangelo - cadono ovunque: tra gli sterpi, tra i massi, sulle stradelle del podere. Dove l'occhio arriva a vedere, la mano deve arrivare a raccoglierle... E qui subentra con prepotenza il ricordo della mia infanzia: i giorni più belli della raccolta per noi piccoli erano quelli umidi, con la pioggerellina che intercalava la fatica e lo sguazzare dei nostri piedi nel fango senza subire rimproveri; per i vecchi la raccolta era uno spezzaschiena, ginnastica per i giovani e gli adulti ma per i ragazzi era soprattutto gioco; essa durava da ottobre a novembre e quando era veramente ricca, sino a Natale. Alla raccolta venivano chiamati tutti i familiari e l'aspetto più bello dell'avvenimento era proprio quel pettegolare delle donne curve... parlavano e ridevano; il parlare confidenziale degli uomini sul lavoro, sulla caccia, sulla famiglia; gli indovinelli sciorinati dai ragazzi e inventati al momento, ogni tanto si levavano antichi canti di amore e solitudine cui tutti davano voce, ed espressione e tanta solennità. Figura élitaria di raccoglitori erano i "rimazzaturi" - loro stavano in piedi, eretti, su scale adatte e, muniti di canne con "crocco" terminale, scuotevano i rami più lontani, più alti per far cadere le olive che venivano raccolte tutte, "coccio" dopo "coccio". Era tutta una gara, adulti compresi, a chi aveva il paniere più colmo, a chi era più veloce a riempirlo, a chi arrivava prima dal nonno che, solitamente stava seduto davanti a ceste alte un metro circa, dove svuotavamo i panieri. Il nonno insieme alla nonna sceglieva le olive per la famiglia: quelle più sane e bianche per farle scacciate in salamoia, quelle più mature per passarle al forno e al sale. Le ripulivano insieme dalle "frasche", dai corpi estranei, il resto messo nei sacchi veniva portato al "trappeto" (frantoio). La quantità delle olive portate si misurava con l'esperienza, ma anche in "munnelli" (4 Kilogrammi circa) o in "tumini" (16 Kilogrammi circa). Il trappeto era (forse è ancora) uno stanzone con al centro il frantoio, formato da due piste concentriche e sovrapposte: una sotto che era il percorso dell'animale (solitamente un bue, talvolta un asino) costretto a girare in tondo ritmicamente per fare girare una ruota detta "màcina". La màcina girava sulla pista sovrastante ed aveva al centro un buco in cui passava una trave grossa su cui si innestava una più piccola che andava a poggiare direttamente sul collo della povera bestia, così forte, così paziente. Più in là c'era il tinozzo per la scolatura delle olive macinate che, messe in sporte di paglia venivano impilate sul torchio. In un angolo dello stanzone c'era un braciere di pietra, con la graticola annerita e consunta e su di essa pentolacci di acqua bollente in pianta stabile per poter essere versate sulle sporte di paglia. Gli uomini che lavoravano al frantoio erano esperti, robusti e ciarlieri, parlavano di donne, di cani, di olive, del tempo e di avventure. Erano divisi in "gerarchie": c'era il mastro di pala che regolava la velocità della màcina, c'erano gli uomini di "fatica" addetti al torchio, guidati da un capo "chianca" e c'era anche un bambino chiamato il "buarello", la cui attività principale era dare da mangiare al bue ma anche raccogliere i contenitori vuoti. Se la resa dell'olio era legata al peso delle olive, la resa degli uomini era legata alla quantità della colazione offerta dal padrone del trappeto. A Messina, per esempio, da cui provengo io coi miei ricordi, c'era abbondante, fumante e persino odoroso lo stocco, già di mattina brodoso o con patate, o "a ghiotta", pane vino a volontà per "carburare" meglio. La colazione degli uomini, il mantenimento delle strutture del trappeto erano le spese del trappetaro: l'uso del trappeto era la spesa del proprietario delle olive; detto prezzo variava da persona a persona (e le amicizie e le parentele contavano), di epoca in epoca, di màcina in màcina. A lavoro completato, tutti ricevevano soldi ed olio in proporzione. Alla fine si discuteva sulla qualità delle olive di quell'anno, sul loro grado di acidità, se le olive "buttavano l'olio a quarto", nel qual caso da ogni "tumino" se ne ricavavano 31 litri. Da qui nasce la considerazione sulla preziosità dell'olio. Che poi le diete, periodicamente, lo consiglino e lo sconsiglino per via del colesterolo, è in realtà un fatto di moda più che di medicina: un po' di filo d'oro sul cibo non può che far bene e, mentre scende misuratamente e fluido, il pensiero va alla giara messa nell'angolo della stanza più "segreta" della casa, con le imposte sempre socchiuse, dove la nonna custodiva l'olio che vendeva in proprio. Sulla giara un coperchio tondo e di legno e su una mensola accanto un grande mestolo e un imbuto. L'olio da mettere nelle bottiglie si faceva scolare nella giara stessa perché nessuna goccia andasse perduta. Quella non era certo epoca di sprechi.