Dove va la ficodindicoltura sanconese? Domanda difficile e nello stesso tempo improponibile, viste le condizioni in cui attualmente si opera e considerato che la validità commerciale del frutto non è riuscita ancora a scalfire del tutto l'immagine sentimentale del cladodio, assimilato solo ai colori e al folklore della Sicilia. Eppure, sulla base dei trascorsi storici della nostra incerta e più antica agrumicoltura, dopo un ventennio di risultati per lo più positivi, si sarebbe già dovuto intervenire nel settore con una politica adeguata e con finanziamenti proporzionali alle attese, prima che anche questo sogno, la coltura del ficodindia, si trasformi in incubo. L'osservazione non è peregrina, né scaturisce da spiriti allarmistici; è più razionalmente dettata dalle esperienze negative conseguite nella coltivazione agrumicola dove, come appare dagli studi del prof. Salvatore Lupo, il monopolio "tecnologico è detenuto dai californiani, nonostante le prime arance sbucciate a Miami venissero dall' ottocento siciliano". Tesi brillante, alla quale si aggiunge un'altra riflessione dello studioso: "Lo sviluppo della nostra arboricoltura agrumicola si è basato sulla sedimentazione della abilità manuali dell' agricoltore". Se la possibilità, oggettivamente temuta, del "sorpasso" israeliano e spagnolo sui lembi spinosi del ficodindia non sembra armai lontana, sono state finora le abilità dei contadini sanconesi a permettere una razionale coltura di quella che è stata sempre ritenuta una pianta marginale e un addobbo folcloristico. Sennonché allo sforzo di riconversione e di ricerca di particolari tecniche di coltivazione attuate dall' acume antico dei produttori, non si è avuto finora riscontro da parte della intellighenzia politica ed economica al fine di trovare mezzi capaci di far decollare sapientemente, sia la coltura e sia la "cultura" del ficodindia. Ecco allora il rischio, che fra qualche tempo dovremmo riferirci alle esperienze tecnologiche straniere per tenere a un buon livello la produzione e per combattere la loro concorrenza che ancora è, fortunosamente, poco aggressiva. Ma, allo stato attuale, la preoccupazione maggiore è l' assottigliamento dei mercati e la non-conoscenza del frutto in molte zone del Nord e nel resto d'Europa. I mercati infatti per lo più sono quelli tradizionali della Sicilia, dove il frutto viene addirittura trasformato in mostarde, marmellate e perfino in gelato, ma dove, a causa dell' aumentata produzione, talvolta la richiesta ristagna. Da qui la necessità di far penetrare oltr'Alpe, con una promozione intelligente, la "cultura" del ficodindia, con le sue nobili proprietà organolettiche e le sue doti di sapidità, consistenza, colore, allargando così le aree di penetrazione e quindi dei mercati. Ma l'allarme, che qualche produttore di San Cono comincia a lanciare, riguarda inoltre la frenetica e spesso irrazionale riconversione agricola che molti contadini stanno attuando in aree non vocate, spinti dalla falsa convinzione del basso costo di impianto e di gestione del ficodindieto e il cui prodotto, posto che si formi, alla fine va a svilire, ingolfandolo e deprimendolo, un mercato ancora giovane e quindi troppo debole per capire pienamente la qualità del frutto. Ecco perché le esperienze del passato dovrebbero ammaestrare, evitando di ripetere errori grossolani, compresi, come fa riflettere il prof. Lupo, quelli legati alla fitta rete di mediatori, sensali, gabelloti ecc. che si frammettono, mancando le alternative, fra produttore e mercati, fra contadino e commerciante, condizionando i prezzi, mortificando anni di lavoro, polverizzando gli investimenti. Ne d' altra parte il contadino ha altri punti di riferimento che non siano quelli ereditati dal già citato ottocento siciliano che, fra le altre cose, "svelò la incontrollabilità dei mercati" e la loro lontananza, insieme alla latitanza colpevole di chi deve almeno, visto che non zappa, provvedere alla pianificazione commerciale, ricercando mercati, creando strutture e infrastrutture d'avanguardia, migliorando la qualità genetica, sconfiggendo i parassiti che, con l' aumentare degli impianti, si stanno diffondendo in modo preoccupante. Dovremo forse aspettare che, ancora una volta e dopo lo scacco matto della agrumicoltura californiana, siano le altre Nazioni a dirci cosa fare, togliendoci "primati" (si consideri pure la vite) che storicamente sono stati inizialmente sempre appannaggio della Sicilia, la quale però si trascina pure appresso, come un immondo fardello, quella atavica "questione meridionale" che nessuno è riuscito a risolvere.