Il Parco del Cavallo 

 

Gli storici sono soliti datare la fondazione della città di Sibari quando in Grecia si svolgeva la XV olimpiade, precisamente nell’anno 720 a.C.Il popolo che fondò la città era quello di Acheo, proveniente dall’Acaia, una regione della costa nord del Peloponneso, che si estendeva fra il promontorio d’Oraxos e il territorio di Sicione. La maggior parte della popolazione proveniva dalle città più importanti, Bura ed Agirai situate sulla costa, essendo l’entroterra molto montuoso e quindi poco abitabile. Storicamente le vicende dell’Acaia nell’età classica ed ellenistica si legarono con quelle della lega Achea. Dopo la distruzione di Corinto nel 146 a.c. la regione fu annessa alla provincia macedone. Prima dello stanziamento sulla costa Enotria dei coloni di origine Achea, essa era occupata dalle popolazioni dei Pelasgi e degli Entri. I loro regni si estendevano dall’allora istmo di Squillace fino alla Lucania. La presenza di questi popoli molto pacifici e d’affinità ellenica rese la conquista achea relativamente agevole. Gli storici sono concordi nel riconoscere che il contingente umano più numeroso che fondò la città di Sibari fu acheo, ma contemporaneamente affermano che grande aiuto fu fornito agli Achei dai Rodi, dai Locresi e dai Dori. A testimonianza di questo vi è che gli Achei fecero propri i culti di Apollo Halios, al quale Filottete edificò un tempio e vi depose le armi di Eracle e il culto di Poseidon, proprio dei Dori. La città di Sibari fu edificata tra i fiumi Sibari e Crati, i nomi dei quali affondono la loro origine nel mito. Il primo prende il nome dal mostro Sibari, che si gettò da una rupe dopo essere stato sconfitto da Euribato;  il secondo prende il nome da un pastore, innamoratosi di una capra e ferito mortalmente da un caprone accecato dalla gelosia. Ben presto Sibari divenne una comunità multietnica, caratteristica dovuta alla facilità con qui gli Achei concedevano la cittadinanza ai tanti coloni provenienti dalla madrepatria. La continua affluenza di gente costrinse i Sibariti a dover ricercare nuovi luoghi dove fondare altre città, tra le quali si possono annoverare Lao e Scindro (Sapri) sul Tirreno e Metaponto sullo Ionio. Questa politica d’accoglienza e d’espansione diede i suoi frutti. In un secolo Sibari poté contare su un impero continentale vastissimo, al quale neanche Atene arrivò nel periodo del suo massimo splendore. Impressionanti per l’epoca sono anche le cifre tramandateci dagli storici, dai quali apprendiamo che la cinta muraria della città si estendeva per nove chilometri di lunghezza, mentre la popolazione della sola Sibari, esclusi gli schiavi, raggiungeva le trecentomila unità. Morfologicamente il suolo dove sorgeva la città era fertilissimo, si produceva olio e vino in abbondanza, la zona circostante forniva cuoio, lana, legname; il sottosuolo, invece, ricco di argento, spiega la ingente monetarizzazione sia di Sibari che di Crotone. Grandi lavori di bonifica avevano risanato il territorio e una serie di canali navigabili permetteva il facile trasporto dei suddetti prodotti fino al porto. In ogni modo, il segreto della fulminea espansione di Sibari va ricercata nella grande intelligenza ed abilità dei suoi abitanti. Non essendo i Sibariti grandi marinai o eccelsi artigiani, si distinsero nella politica estera stringendo alleanze importanti, tra cui quella con Mileto, alla quale aggiunsero ben presto quella con gli Etruschi. Sul finire del primo secolo di vita, Sibari possedeva territori che si affacciavano su entrambi le coste, condizionando direttamente o indirettamente la politica e l’economia di città importanti come Maratheia, Poseidonia e Cosentia. La felice posizione strategica le consentiva di svolgere un ruolo di intermediazione negli scambi di merci orientali, che arrivavano sulle coste ioniche, e quelli occidentali sulle coste tirreniche. Una città con queste caratteristiche poteva sembrare immortale, ma se per un secolo Sibari fu esempio di ricchezza, opulenza, benessere, nel suo restante secolo di vita tutto degenerò nel lusso più sfrenato, nella mollezza e nella corruzione, fino a giungere all’empietà. Poste tra storia e legenda sono le narrazioni, tramandate da storici come Erodoto, indicative di una degenerazione irreversibile ed inarrestabile. Una delle vicende più conosciute è quella riguardante Smirnide, invitato con i giovani valorosi della Grecia per contendersi la mano della figlia del tiranno Sicione, e scartato prontamente per l’effeminatezza dei suoi costumi. Per descrivere poi il lusso di cui si circondavano, molti riportano la descrizione del peplo che il sibarita Alcistine indossava alla processione di Hera Lacinia e di come molto tempo dopo fosse stato venduto ad un prezzo esorbitante. In ogni modo, aldilà dei racconti sui personaggi, era il modo stesso di condurre la vita che già descriveva la mollezza del cittadino sibarita. I bambini vestivano esclusivamente di porpora e oro, le case dovevano possedere statue di malta. Si era consentita addirittura la partecipazione delle donne ai banchetti, contravvenendo sfrontatamente ad una consuetudine ellenica particolarmente sentita. La fama che si lasciarono dietro pesava come un macigno, i sibariti erano diventati blasfemi e violatori delle leggi sacre. Non a caso essi stessi attribuirono l’annientamento della loro città ad un castigo divino. Dopo la conquista di Siri non obbedirono all’oracolo d’Apollo che consigliava loro e ai loro alleati Crotoniati di espiare la colpa della distruzione della città, così da placare l’ira degli dei. Altre offese i Sibariti rivolsero al dio Zeus Olimpo, disertando le olimpiadi e creando loro stessi giochi olimpici. La corruzione dei costumi, che aveva caratterizzato il secondo e ultimo secolo di vita di Sibari, sembrò finire con l’arrivo nella città ionica di Pitagora, che però decise ben presto di andarsene, costatata l’immodificabilità delle ormai radicate usanze sibarite. Nulla sarebbe accaduto se Pitagora non avesse scelto come nuova residenza Crotone. I Crotoniati, forti della preferenza del filosofo, cominciarono ad ostentare velleità egemoniche che nessuno mai aveva osato togliere a Sibari, stringendo alleanze con gli appartenenti alla confederazione attraverso il carisma di Pitagora. L’uomo che accese la miccia del conflitto fu il tiranno sibarita Telys, violento e sanguinario personaggio che salì alla ribalta ponendosi a capo della rivolta ultra democratica. Costui, impadronitosi del potere, scaccia da Sibari 500 dissidenti politici, pretendendone poi la consegna dalla città di Crotone, che nel frattempo li aveva ospitati; i crotoniati, su consiglio di Pitagora, mandarono i loro   ambasciatori a Sibari per discutere un accordo con il tiranno. Telys di tutta risposta li fece trucidare e gettò i loro corpi fuori delle mura. L’assassinio, che suscitò l’ira e lo sdegno non solo dei Crotoniati ma di tutte le popolazioni greche, costò molto caro ai Sibariti. Difatti Non trovarono alleati e, cosa più grave, anche gli oracoli si rifiutarono di assecondare le loro richieste.  La battaglia decisiva avvenne al confine dei rispettivi territori, nei pressi del fiume Traente, con uno schieramento di 300.000 uomini per i Sibariti e 100.000 per i Crotoniati, supportati dagli Spartani di Dorieo. Una simile disparità di forze può fare pensare ad un conflitto di facile conclusione per i Sibariti, ma questi, come ormai abituati nella vita, anche nella lotta eccelsero per la loro mollezza. Gli storici narrano, infatti, che Milone, condottiero dell’esercito crotoniate, considerava la cavalleria sibarita abituata più a danzare che a combattere. Così, quando si aprirono le ostilità, questi fece avanzare i musici che, suonando, gettarono nello scompiglio la cavalleria avversaria disunendo l’esercito. I pochi alleati di Sibari, riluttanti e maldisposti, approfittarono della confusione per scappare, mentre i Sibariti furono costretti a ritirarsi nella città presa d’assedio dai Crotonati. I quali, dopo 70 giorni vinsero la resistenza degli assediati, ed entrando nella polis sibarita la devastarono, deviando persino il corso del fiume Crati al fine di allagarla. Era il 510 a.C. lo stesso anno in cui i Tarquini furono scacciati da Roma e i Pisistratidi da Atene, coincidenza davvero singolare. La guerra che distrusse Sibari, pur se mossa da giusta causa, ebbe conseguenze funeste per tutta la civiltà ellenica della penisola calabra. La caduta della più grande città greca minò gravemente l’economia delle altre colonie; anche l’aspetto militare subì il contraccolpo, venendo a mancare quella dogana creata dal regno sibarita tra i popoli a nord della Lucania e le altre colonie, garantendone la sicurezza. I sibariti superstiti tentarono nel 452 a.c. di rifondare la loro città con l’aiuto di Ierone di Siracusa, ma furono scacciati nuovamente dai Crotoniati. Nel successivo tentativo, gli esuli sibariti si fecero aiutare da Atene, interessata ad estendere la sua egemonia nel resto dell’Italia. Atene inviò coloni ed il famoso architetto Ippodamo di Mileto che, insieme ai superstiti della prima Sibari fondarono una nuova città dal nome Thuri. Ben presto però, la convivenza divenne difficile tra popolazioni così differenti, e i Sibariti, perdendo l’egemonia della città, dovettero lasciarla irrimediabilmente. Dopo l’ennesimo tentativo, I Sibariti riuscirono a fondare sul fiume Traente una terza Sibari, che fu distrutta dopo un secolo dai Bruzi. Dell’aspetto archeologico della prima e della seconda Sibari non abbiamo ricche testimonianze, avendo comportato le continue guerre la distruzione totale delle città edificate. Dell’agglomerato più antico rimane soltanto una parte del quartiere di Stombi e i livelli profondi dell’area di scavi nota come Parco del Cavallo. La maggior parte dei reperti rinvenuti appartiene, infatti, alle successive città edificate dai Greci (Thuri) e dai Romani (Copiae). La città era strutturata su due strade principali, orientate verso i quattro punti cardinali, una delle quali (est-ovest) giungeva all’entroterra fino alla rete di canali navigabili che arrivavano al porto. Nel 444 a.c. con la ricostruzione di Ippodamo, la pianta fu ampliata fino a sette vie principali, che formavano tra loro angoli retti. I lavori architettonici e la decorazione degli edifici raggiunsero livelli quantitativi e qualitativi molto elevati, permettendo l’apertura di officine e scuole. In queste, particolarmente fiorente fu l’arte sacra e la produzione di stateri raffiguranti immagini taurine, delle quali purtroppo rimane solo qualche frammento. In generale l’arte sibarita subì l’influenza ionica, anche a causa del suo stretto legame con Mileto. Esempio di questo sono la scultura, l’arte vasara, di cui Sibari fu centro della produzione di “doinoi”, vasi raffiguranti cavalli contrapposti ai lati ed elementi ionici al centro. L’oreficeria visse periodi di splendore, che portò alla produzione di numerose lamine decorate a sbalzo. Nella ceramica, fu l’influenza dell’area salentina, con l’importazione di tecniche proprie del luogo.