Il grido del caldarrostaio all’angolo della strada, in questa limpida sera di novembre, mi riporta indietro nel tempo, ad altre sere di novembre quando, bambina, sedevo sul “pedi da’ conca” a sgranocchiare castagne appena abbrustolite o a mangiare le olive nere infornate mentre ascoltavo le favole meravigliose che mia zia, maestra sapeva raccontare. “Mamma, cosa è la conca?”, mi chiedono i miei figli, espertissimi in personal computer e videogiochi, ma che non sanno niente del vivere semplice di alcuni decenni fa. Rispondo che la conca era il braciere di rame che d’autunno in primavera veniva acceso in casa ogni pomeriggio, ma subito mi rendo conto che le mie parole non riescono a spiegare cosa fosse effettivamente la “conca”. Essa era il focolare, il centro della casa, il polo verso cui tutta la vita della famiglia convergeva: era calore ed amicizia. Già accenderla era quasi un rito sacro, si sceglieva la carbonella, “u’ginisi” ben asciutta di modo che potesse subito prendere fuoco e ad essa si aggiungeva la carbonella fatta di “n’uzzoli” di olive o di “scorci” di mandorle. Il tutto andava fatto rigorosamente fuori per evitare i cattivi odori, e il fumo. La conca si poteva portare in casa dopo qualche ora. Si poneva allora dentro un gran cerchio di legno “u’pedi”, che appunto serviva da poggia piedi e si copriva con delle assi di legno ricurve a forma di semisfera, “u’circu”, che aveva lo scopo di evitare che i bambini si bruciassero e su cui si poteva porre ad asciugare la biancheria ancora umida. Al caldo della conca la nonna lavorava a maglia, la mamma rammendava, le zie ricamavano e gli amici in visita trascorrevano piacevolmente il tempo. Al suo debole calore i grandi chiacchieravano, spettegolavano o recitavano interminabili rosari e noi, bambini, ascoltavamo le favole mentre cocevamo dei “cadozzi”di salsiccia avvolti in carta oleata, o mettevamo una patata o le castagne o un uovo a cuocere sotto la cenere. L’uovo era pronto da mangiare quando “surava”. Per profumare l’ambiente si usava gettare nella conca bucce di arance o di mandarini e ricordo ancora quando vi gettai la pastiglia di clorato di potassio che mi avevano dato per il mal di gola e che trasformò tutto in un vulcano attivo ricoprendoci di cenere. Quella sera non sentii il bisogno della “conca”. Mi scaldai correndo. E la sera, infine, quando era l’ora di andare a dormire, prima di essere posta di nuovo fuori l’uscio fino al giorno dopo, la conca e il suo “circu” venivano posti sotto le coperte per riscaldare il letto. A questo punto mi accorgo di parlare di preistoria. Ora a troneggiare nelle nostre case è la televisione e le stufe e i termosifoni sono molto più funzionali della conca. Ma , forse, abbiamo perduto il calore che emanava.