DIARIO DI VIAGGIO
Vittorio Sereni
 di Silvestro Livolsi


Nell’estate del 1969, Vittorio Sereni ritorna in Sicilia, negli stessi luoghi dove, nel corso della seconda guerra mondiale, era stato inviato come ufficiale di fanteria dell’esercito italiano, e dove, assieme a tutto il suo reparto era stato catturato dagli americani e costretto ad una lunga prigionia (sin al ’45), in Algeria. Sulla sua esperienza militare nell’isola aveva già scritto, in un breve testo dal titolo Sicilia ‘43; il suo nuovo viaggio in Sicilia lo racconta in una magnifica prosa alla quale dà per titolo il numero degli anni che sono passati dal suo primo approdo nell’isola, Ventisei.
Accompagnato dalla moglie Luisa e dalla figlia Giovanna, Sereni si reca nei centri e nelle contrade del territorio di Trapani, dove si svolsero le vicende belliche a cui assistette e partecipò. La sua prima visita è, in una campagna lontana dalla città, a un edificio semidistrutto che fu la sede che ospitò la sua compagnia e qui è il primo riaffiorare di ricordi e di pensieri: ‘non ho occhi per questo niente scaturito dal niente, guardo attraverso il suo spettro diurno le pareti, il soffitto dove le crepe si sono allungate e moltiplicate (là sopra, da una terrazza in pericolo abbiamo visto una notte il mare incendiarsi a intervalli, intere zone svelarsi, infuocate), questa stanza il comando, quest’altro il mio ufficio dove anche dormivo, i pavimenti coperti di calcinacci, a mucchi, a frane, ma anche ciabatte spaiate, barattoli, materiali senza nome, non databili, non inventariabili e nemmeno sporcizia: rovine’. Usciti dal posto, il viaggio di Sereni prosegue, in macchina lungo una strada che è tutto un richiamo di immagini del passato: ad un tratto, lungo il bordo ‘un ragazzo sonnecchia, e ‘nordizza’ nei suoi sogni, disteso su un’aiuola che a quei tempi dava ancora i suoi frutti e di cui oggi sussiste tra erbe grame solo la forma’; lungo un dosso riaffiora la paura che gli causò il passaggio ‘di due caccia a volo radente che ci avevano mitragliato un certo pomeriggio’; andando più avanti nel percorso, già si cominciano ad intravedere le saline di Trapani, e la spiaggia di Torre Nubia al cui nome Sereni associa ‘l’irrevocabilità del treno in quel tratto terminale di tutte le strade ferrate d’Italia, la prossimità della marina, il limite basso di questa , quasi insanibile tra acqua e terra, segnato da certe erbe aride o piuttosto steli, salmastri’. A Torre Nubia era pure la residenza del comando italiano, a Villa Paradiso. All’interno, Sereni rivede un ambiente che lo aveva colpito particolarmente, quando v’era entrato per la prima volta: ‘in un fabbricato annesso alla villa vera e propria aveva sede un posto telefonico utilizzato per comunicazioni di raggio più ampio di quanto non consentissero i comuni telefoni da campo. Era tenuto da quattro soldati, là presenti prima dell’arrivo del battaglione, sui cui volti aleggiava un’inezia vecchia di mesi e mesi. Tutto era polveroso e torbido tra quelle mura e su una parete, ripetuta in altri locali della villa, campeggiava la scritta: Non pensare a licenze e congedi, ti faresti cattivo sangue. Ritagli erano appesi qua e là, di dive e ballerine più o meno famose’. Non lontano, tra la campagna e il mare, girovagando in macchina, Sereni perlustra i luoghi lungo i quali si dislocavano le linee di difesa dei militari italiani e che avrebbero dovuto utilmente fronteggiare l’avanzata anglo-americana. Il più importante era ‘il fronte a terra, cosiddetto, un quindici venti chilometri tra l’Erice e il mare, ed era fatto di postazioni riunite in capisaldi. Formavano un sistema difensivo in modo che ogni provenienza fosse controllata e una siepe di fuoco potesse svilupparsi senza soluzione di continuità sui 360 gradi, una specie di onniveggenza , puramente tattica però, affidata a una linea telefonica da campo (una conversazione tra l’uno e l’altro campo veniva interrotta di colpo e vano era mandare fuori una pattuglia sulle tracce di ignoti sabotatori; più tardi voci estranee, di spiccato accento isolano, s’inserivano ironiche, con falsa mitezza e suasività invitando alla resa)’. La complessa trama dei ricordi e delle riflessioni continua a snodarsi passando per le colline e le campagne di Timpone Mosca, del Torrazzo, di Torre Bianca e del Timpone Sole.
A Milo, dove della vecchia base aerea militare è rimasto solo qualche capannone, Sereni ricorda il risveglio mattutino dato dal rombo degli aerei (‘attaccava uno e dopo un po’era un coro’). Quindi, su insistenza della figlia si avvia per Erice (‘con crescente impazienza la Giovanna: E-ri-ce/ E-ri-ce, alla maniera della contestazione’), andandovi solo per gustarne le bellezze, non essendo stata la cittadina teatro di azioni belliche.
Poi a Trapani, e i ricordi si fanno più nitidi e dolorosi, la scrittura più complessa e lirica. Annota Sereni: ‘Il lungomare è denso di case e fabbricati, ma deserto di gente. Con finta sicumera chiedo dov’è il vecchio campo sportivo. Si leggono ancora le scritte: tribune, popolari, ingresso giocatori, ma sportelli e porte sono stati murati. Questo – dico alle mie donne- è stato il mio primo campo di prigionia provvisoria – ci siamo rimasti un quindici giorni prima di passare il mare (i giorni s’effondevano in un malumore tramato dal continuo passaggio di bombardieri diretti al nord; c’era il solito vuoto dei mesi precedenti la resa e il solito silenzio, non fosse stato quel malumore degli echi propagati dagli aerei, il boato che irrompeva dall’alto per poi risalire dilatandosi nel cielo)’. Trapani è anche la città dalla quale Sereni, prigioniero, verrà condotta nei campi di detenzione, a Casablanca, in preda ai pensieri che lo tormentano: sul non aver disertato come hanno fatto tanti suoi commilitoni; sull’impossibilità per lui, antifascista convinto, di dare una mano alla Resistenza e alla liberazione dell’Italia. Anche se, secondo Franco Fortini la più straordinaria interpretazione storica della Resistenza si trova proprio nelle poesie di Sereni, scritte ‘da un poeta che non ha partecipato alla Resistenza, che non ha potuto parteciparvi perché era prigioniero di guerra, che ha sempre sofferto di quella sua non partecipazione e che arriva a capirla, tornato, dopo la sconfitta del 18 aprile del 1948’.
Sereni prosegue il viaggio, stavolta a solo fine turistico per Palermo, passando per Selinunte (‘con la sua luce d’Africa’), per Marinella (‘acquartieramento diversivo per chi affronta la bellezza e s’impianta nei suoi paraggi’), infine per Marsala. Lasciata la Sicilia, lo scrittore di Luino, ritorna a Milano, alla sua proficua attività di narratore, poeta e direttore editoriale, e redige subito la ‘relazione del viaggio’, per dar conto di come ha cercato di porre fine, rivivendola, all’ansietà, insorta negli anni della guerra e per riconsiderare il suo atteggiamento, che durante l’esperienza militare fu di impotenza e di disperazione. Così, nella sua rivisitazione altamente poetica, ripensando alle ‘dolci sere di Sicilia’, quando ‘tutti erano zitti perché cattive erano le notizie e ognuno presagiva per sé una brutta fine, senz'altra alternativa che la morte o la cattura’, prevale la ripugnanza per l’orrore e il vuoto che semina e lascia ogni guerra; ma è presente anche un forte appello alla pietà, un deciso e battagliero ottimismo della volontà e una dichiarazione di impegno per costruire un futuro aperto alla speranza.
Gli appunti, i diari e gli scritti che contengono le memorie di Sereni in Sicilia (da Sicilia ’43 a Ventisei, a La Sconfitta) sono raccolti nel volume La tentazione della prosa, edito dieci anni fa, nel 1998, da Mondatori.