CULTURA
Giuseppe Lanza
 di Silvestro Li Volsi

 


Il giornalista e scrittore catanese Giovanni Centorbi, in un suo libro di ricordi, scritto nell’88, dal titolo Batticuore a Catania (Giannotta editore), parlando delle sue numerose e affettuose amicizie giovanili, che nascevano spesso nel segno dell’interesse comune per l’arte e la letteratura, ricorda come nel capoluogo etneo si dessero convegno le menti migliori non solo della città ma anche dalle desertiche province vicine.
Cosicché nel 1915 a Catania si potevano incontrare dei giovani talenti come Salvatore Quasimodo, Vitaliano Brancati, Francesco De Felice, Giuseppe Patanè, Giuseppe Longo, Ercole Patti.
Tra loro, ricorda Centorbi, ‘Giuseppe Lanza, oggi noto fra i meglio provveduti critici e autori del teatro italiano di prosa, scendeva da Valguarnera col cugino Francesco Lanza (del quale fanno già storia letteraria i ‘Mimi siciliani’) e respirava, pellegrino liceale, il vento del mare Jonio’.
Ora, di Francesco Lanza se ne ricorda la meritoria opera e la sua fama è consolidata. Del cugino Giuseppe sì è persa memoria e traccia. Forse perché è andato presto via dalla Sicilia, inseguendo la sua passione per la scrittura e la letteratura.
Giuseppe Lanza, come scrive Centorbi, si interessa di teatro. Approdato a Roma, collabora con vari periodici dove pubblica recensioni e note su spettacoli, attori e registi della drammaturgia italiana degli anni cinquanta e sessanta. I migliori dei sui articoli uscirono, raccolti in volume, nel 1964 con il titolo Teatro dopo la guerra, per le Edizioni del Milione. A guidare la sua attività di critico vi era intanto l’idea del teatro come ‘fatto spirituale, punto focale della socialità’, luogo adeguato per una ‘festa dell’intelligenza, più che occasione di sfoggiare vesti e gioielli’. Le sue preferenza andavano al teatro contemporaneo, quindi a tutti gli autori che lo rappresentavano maggiormente e non solo italiani: anzi, una particolare attenzione la rivolgeva ai francesi, fra tutti a Sartre (del quale cura l’edizione italiana del dramma Le Mosche, pubblicata da Bompiani). Ma la sua passione per la scrittura non si ferma al giornalismo culturale e la sua vena creativa si concretizza nella stesura di numerose opere in prosa. Una raccolta di racconti, pubblicata da Cappelli nel 1965 dal titolo Rosso sul lago, vincerà per quell’anno il premio Bagutta. Il primo racconto del volume, Infanzia nella zolfara, è un lirico ritratto della sua terra e della sua infanzia, della sua abitazione, all’interno dell’ampia zona mineraria di Grottacalda, vicina a Valguarnera, tra Enna e Caltanissetta. Lanza ricorda la curiosità di visitare la zolfara, quell’antro sotterraneo e cavernoso nel quale vedeva ‘sparire’ il padre che, da tecnico, vi lavorava; quel mondo segreto che gli nascondeva chissà quali misteriose attività e che per lui era ad ingresso proibito. Sino a quando, cresciuto un po’ e in procinto di lasciare il suo paese per iniziare gli studi in città, il padre si convince a portarlo dentro, permettendogli di vedere come è fatta e chi vi si muove dentro: uomini nudi, sudati e affranti dalla fatica, impregnati di nero e di odori sulfurei. Il giovane Lanza vi scorge anche ‘una fila di ragazzi con le spalle piegate dal peso di tozzi corbelli colmi di pietrame gialliccio. Qualcuno portava la camicia, qualcosa che assomigliava alla camicia, ma la maggior parte era a torso nudo, con uno straccio a mo’ di cuscinetto sull’omero che reggeva il peso. Braccia, spalle, visi erano dello stesso colore del pietrame. Andavano in silenzio, ma s’udiva il loro respiro faticoso. Non so dire quello che provavo: un tremore profondo, un senso oscuro di terrore e di vergogna’. Visioni e immagini che lo cambiano, che svelano l’arcano e fantastico che aveva immaginato rendendogli crudamente la sostanza della realtà dell’ immane lavoro che dentro si svolgeva. Gli rimarrà dentro la miniera di Grottacalda (che è poi quella dove è stato di recente girato

Immagine tratta dal film Rosso Malpelo
il film di Scimeca, Rosso Malpelo), a Giuseppe Lanza, linea d’ombra della prima maturazione adolescenziale, viaggio verso un cuore di tenebra: ‘la fila dei carusi tornava per il nuovo carico. Udii una voce lievemente roca e inespressiva: ‘E’ il figlio di Don Giovanni’. Queste semplici parole, che di solito mi davano un senso vago d’orgoglio, mi fecero trasalire come per il bisogno di spiegare qualcosa di molto importante, ma non sapevo che cosa. Restai lì, fermo, in preda all’affanno, con gli occhi offuscati, sin che mio padre mi riprese la mano. Quando rientrammo alla gran luce meridiana il mondo per me era mutato’.
Ottenuto l’importante riconoscimento del Bagutta, lo scrittore ormai stabilitosi definitivamente al Nord, continuerà a produrre articoli e a pubblicare libri che suscitano reazioni e interessi critici positivi (tra l’altro verrà antologizzato, negli anni ’70, da Giovanni Titta Rosa nella sua Vita Letteraria del novecento). Ma la Sicilia, che aleggia in più parti delle sue variegate e numerose opere, non sembra avergli dedicato molta attenzione e sinora non ci si è preoccupati di saperne di più di questo scrittore isolano e delle sue cose. Oblio che permane, ingiustamente e dalla sua morte, avvenuta nel 1988. Sarebbe il caso che si rimediasse in qualche modo, soprattutto nella sua provincia, Enna, che ha tradizionalmente avuto stima dei suoi illustri letterati e artisti, Nino Savarese, Francesco Lanza, Elio Romano, per citarne i maggiori, anche se non li ha mai tanto celebrati.