AGRICOLTURA E PASTORIZIA
I “caci” del canonico Salamone  
 di Nicola Schillaci

 

Un contributo alle scienze agrarie, riferito agli allevamenti ed alle tecniche di caseificazione presenti nell’entroterra siciliano nella seconda metà dell’Ottocento, ci viene fornito da un manuale di agricoltura, a dire il vero poco citato nei lavori bibliografici, ma abbastanza ricco di notizie e particolari.
Nell’ambito di quel movimento isolano tendente al progresso culturale, iniziato già a partire dal Settecento e che portò a diverse pubblicazioni di carattere tecnico-scientifico oltre che letterario, si inserisce infatti la figura poco conosciuta del sacerdote mistrettese don Gaetano Salamone, vissuto nel XIX secolo ed autore di un interessante lavoro sull’agricoltura e la pastorizia.
Tale pubblicazione, tra gli studi relativi alle scienze agrarie in Sicilia, riveste una certa importanza poiché fornisce una serie di notizie descritte minuziosamente, legate all’agricoltura ed alla zootecnia della seconda metà dell’Ottocento, ed aventi come base territoriale il circondario nebroideo facente capo a Mistretta con gli aggregati paesi di Capizzi, Castelluccio (l’attuale Castel di Lucio), Reitano, Cesarò, San Teodoro, San Fratello, Santo Stefano di Camastra, Caronia, Motta d’Affermo, Pettineo e Tusa. Tutto ciò a testimonianza di un processo culturale che in Sicilia non si è mai identificato con i grossi centri urbani, ma si è sviluppato in molti paesini e cittadine di medie dimensioni attraverso un interesse nuovo, “scientifico” per l’agricoltura, espressione di quella scoperta dell’”utile”, in coincidenza con quanto avveniva nel resto dell’Europa.
I risultati della ricerca in questione vennero pubblicati dal Salamone in due volumi a distanza di pochi anni; in particolare, la prima parte del lavoro, composta da circa 180 pagine, venne data alle stampe nel 1870, presso la locale tipografia comunale, col titolo “Manuale teorico-pratico di agricoltura, adattato alla intelligenza delle persone idiote di Sicilia, ed in inspecialità a quelle del circondario di Mistretta”; la seconda parte, composta da circa 270 pagine, venne pubblicata nel 1872, presso la tipografia diretta da G. Mauro, dal titolo “Manuale teorico-pratico d’agricoltura e pastorizia adattato all’intelligenza popolare”. Ognuno dei due volumi si presenta suddiviso in dodici trattati composti a loro volta da parecchi paragrafi.
Lo scopo di pubblicare notizie di agricoltura e pastorizia da parte del sacerdote mistrettese aveva la finalità di abbassare il livello di ignoranza e di istruire gli agricoltori ed i pastori di quelle zone montuose e povere, attraverso un manuale che fosse comprensibile a tutti, sia per il circondario sia per l’intera Isola. In effetti, il Salamone, pur essendo un erudito, scrive e parla di agricoltura e di zootecnia con parole semplici, descrivendo tutto quello che vede ed osserva nelle campagne, anche se non riporta nel testo disegni ed illustrazioni.
Il secondo volume, in particolare, per gli studiosi di zootecnia e di industrie agrarie sulla caseificazione, risulta un’opera degna di essere ripubblicata ai giorni nostri. L’autore, partendo da notizie relative alla pastorizia ed agli allevamenti, spazia con trattati che vanno dall’apicoltura alla bachicoltura e dall’economia e contabilità ai pesi e misure del circondario. Ma il capitolo che riscuote maggiore interesse, per l’attendibilità delle notizie riportate, rimane il sedicesimo trattato dal titolo “Caseificio: cioè modo di fare il cacio”, importante supporto e guida per gli addetti ai lavori, nel quale sono descritte le varie fasi e tecniche di produzione dei formaggi tipici dell’areale dei Nebrodi.
In effetti, di manuali definiti teorico-pratici degni di menzione, con una composizione prettamente tecnica e non esclusivamente erudita, ed aventi per oggetto la pastorizia e le tecniche di produzione dei formaggi in Sicilia, se ne contano pochi. Pur tuttavia si può fare riferimento al lavoro del priore Gregorio Barnaba La Via, il quale nel 1851 pubblica negli “Annali di Agricoltura” l’articolo dal titolo “Dei latticinii, dei formaggi, loro manipolazione e conservazione”; un successivo lavoro, meritevole di essere attenzionato, è quello del dottor S. Toscano, pubblicato nel 1880 presso la stamperia Campailla di Modica, avente per titolo “Notizie sulla fabbricazione dei formaggi nel circondario di Modica. Su i miglioramenti dei prodotti di cascina, da servire per la compilazione di una monografia su vari metodi di caseificio delle regioni meridionali”; infine, un ulteriore lavoro riguarda gli studi del barone Nicolò Turrisi-Colonna, pubblicati a Palermo nel 1882 dal titolo “Industria pastorale nel territorio di Palermo”.
Bisogna giungere al secolo successivo per menzionare l’opera di Carmelo Campisi (1933) “Pecore e pecorino della Sicilia”, ed il lavoro del professor Alberto Romolotti (1936) “I formaggi Siciliani”. I nostri giorni permettono di leggere ulteriori ed interessanti notizie sulla caseificazione in Sicilia; si tratta di due ricerche pubblicate alcuni decenni or sono, riferibili più alla cultura materiale che a veri e propri trattati di industrie agrarie, i quali hanno fatto sì che gli aspetti tradizionali della pastorizia e della zootecnia non andassero perduti per sempre. E’ d’obbligo pertanto citare il lavoro di Antonino Uccello che ha per titolo “Bovari - Pecorai - Cùratuli. Cultura casearia in Sicilia”, edito nel 1980, e quello di Mario Giacomarra “I pastori delle Madonie. Ambiente, tecniche, società”, pubblicato qualche anno dopo, nel 1983. Infine, si fa menzione del recente volume pubblicato nel 2001 “I formaggi storici di nicchia della Sicilia”, in cui confluiscono conoscenze ed esperienze specifiche in questo settore da parte dell’Associazione Allevatori della Sicilia.
Il trattato del Salamone, pertanto, risulta importante poiché, se fino alla seconda metà del Novecento erano ancora presenti pastori, allevatori e casari che conoscevano l’arte di produrre i formaggi, al giorno d’oggi poche sono quelle figure che hanno ereditato il sapere e le conoscenze tramandate da padre in figlio; addirittura è del tutto scomparso quell’indotto legato all’attività zootecnica e casearia, quale per esempio la figura del cosiddetto “fasciddaru” (fabbricatore di fiscelle e fascere di giunco), o lo “stagnataru” o “quadararu” (artigiano che realizza le caldaie in rame, rivestite nel loro interno di stagno).
In Sicilia i formaggi sono stati, fin dai tempi più antichi, uno dei fondamenti dell’alimentazione umana poiché il latte, consumato fresco solo in minima parte, rendeva necessaria e quasi obbligatoria la sua trasformazione, l’importanza di quest’ultima si comprende meglio qualora si pensi al fatto che essa consentiva di conservare il latte nel tempo. Notizie riguardanti il formaggio si ritrovano già nella mitologia greca, secondo la quale l’arte di caseificare fu rivelata dal centauro Chirone al pastore Aristeo, figlio della ninfa Cirene e del dio Apollo. Un altro mito attribuisce l’origine del formaggio alla nutrice del dio Giove, Amaltea, dal cui seno sgorgò il latte che, rappresosi, diede origine al formaggio.
Più verosimilmente il formaggio nacque per caso, quando si constatò che lasciando il latte all’aria esso subiva una fermentazione e, quindi, una coagulazione, tecnica di produzione in seguito affinata ed evoluta che ha dato luogo ad una moltitudine di prodotti a partire dalla stessa materia prima.
Notizie storiche sulla presenza di formaggi in Sicilia, già con una differenziazione ben precisa, si hanno nel Medioevo, precisamente nei calmieri quattrocenteschi e nei registri di conventi e monasteri, essendo utilizzati anche come merce di scambio o nei contratti di affitto. Certo è che il più antico formaggio prodotto in Sicilia è con ogni probabilità il “Pecorino”; i caratteristici ma precari ambienti demandati alla caseificazione descritti dal Salamone, i cosiddetti “marcati”, disseminati ancora nelle campagne siciliane ed utilizzati fino a qualche decennio fa, come pure i pastori che vi lavoravano, rimandano ai versi del IX canto dell’Odissea, in cui il poeta Omero narra dell’incontro avvenuto tra Ulisse ed il ciclope Poliremo, quest’ultimo con le mansioni di pastore e casaro: <<Quando dunque arrivammo alla terra vicina, qui sull’estrema punta una grotta vedemmo, sul mare, eccelsa, ombreggiata da lauri; e qui molte greggi, pecore e capre, avevano stalla; intorno un recinto alto correva, fatto di blocchi di pietra […] nell’antro, osservammo ogni cosa; dal peso dei caci i graticci piegavano; steccato c’erano, per gli agnelli e i capretti, e separata ogni età vi stava chiusa, a parte i primi nati, a parte i secondi, a parte ancora i lattonzoli; tutti i boccali traboccavan di siero, e i secchi e i vasi nei quali mungeva. Lui [Polifemo] nell’ampia caverna spinse le pecore pingui, tutte quante ne aveva da mungere; ma i maschi li lasciò fuori, montoni, caproni, all’aperto nell’alto steccato. Seduto, quindi, mungeva le pecore e le capre belanti, ognuna per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo. E subito cagliò una metà del candido latte, e, rappreso, lo mise nei canestrelli intrecciati; metà nei boccali lo tenne, per averne da prendere e bere, che gli facesse da cena…>>.
Anche nel trattato di tecnologia casearia proposto da Columella, tra nozioni zootecniche e precetti pratici, viene identificata come elemento di maggiore rilievo, la descrizione sulla produzione del formaggio, la cui materia prima, il latte, <<...viene generalmente rappreso con caglio di agnello o di capretto, anche se è possibile farlo cagliare col fiore di cardo campestre o col fiore del cartamo, e anche col lattice del fico […] e appena il liquido si sarà rappreso dovrà essere trasferito in cestelli, panieri o forme. È infatti essenziale che il siero possa scolare immediatamente e essere separato dalla materia solida [...] poi, quando è tolto dalle forme o dai panieri dovrà essere collocato in un ambiente fresco e oscuro, perché non possa guastarsi, su tavole più pulite possibile, e cosparso di sale tritato...>>.
Oggi come ieri si è ben convinti che la cura del gregge e la qualità del latte che se ne ottiene, le tecniche di lavorazione del formaggio, assieme ai locali dove viene stagionato, sono tutti fattori che influenzano in modo determinante la qualità degli stessi formaggi. E si è ben più convinti che le tecniche empiriche dei piccoli trasformatori rivestono un valore ed un ruolo importante nel determinare la stessa qualità dei formaggi, anche se tra le varie osservazioni fatte dal canonico Salamone ve ne è una fondamentale: <<nella formazione dei caci concorrono la natura e l’arte>>.
Se il caseificio industriale risulta più utile per manipolare notevoli quantità di latte provenienti da allevamenti intensivi, piccole realtà, denominate a “capacità limitata”, potrebbero far risaltare la qualità del latte prodotto da razze rustiche; ed i pascoli montani con la loro flora eterogenea, ricca di essenze aromatiche, rappresentano un elemento di tipicità.
Tra i formaggi descritti dal Salamone si annovera, in primo luogo, il “Caciocavallo” o “Cascavaddu” prodotto dal solo latte di vacca o dal latte di capra mescolato a quello di vacca, anche se il migliore si ricava da quello ottenuto dal latte di vacca. Per questo tipo di formaggio vengono descritte accuratamente le varie fasi di produzione, comprese le attrezzature impiegate (“scisca”, “ruotula”, “quadara”, “tavolieri”, “tina”, “piddiaturi”, “manuvedda”, “busuniettu”, “fascedda”, ecc.). Con la pasta dello stesso caciocavallo, per fare divertire i bambini, si creavano figure a forma di daino, cervo, cavallo, bue, volatili ed altro, anche se alcuni pezzi simili a focacce, detti “ardicori”, da mangiare freschi, venivano realizzati dai pastori per essere regalati agli amici o al proprietario della masseria.
Altri formaggi, menzionati nel trattato del Salamone, le cui tecniche di lavorazione sono del tutto scomparse o poco conosciute dalle nuove generazioni di allevatori, sono il “Cannestrato o piacentino ordinario crudo, cotto a tutta scalda”, il quale si produceva da qualunque latte, sia di vacca, di pecora o di capra. Segue il “Cannestrato cotto a mezza scalda”, anch’esso detto “Piacentino”, ottenuto da una lavorazione simile al precedente, con la sola differenza che, una volta messo nelle fiscelle, queste venivano tenute immerse nel siero bollente fino al suo raffreddamento. Un quarto tipo di formaggio è il “Cannestrato o piacentino cotto a tutta scalda”, detto pure “Squadatu” o “Tumazzu cuottu”. Seguono altri formaggi, quali il “Maiorchino”, che si produceva nelle zone di Francavilla e nei dintorni di Taormina e Messina ed il cosiddetto “Bufalo”.
Il “Primo sale”, cacio usato prima dei quaranta giorni, si produceva in alte e strette fiscelle di giunco; esso veniva consumato in pezzi della grossezza di alcune dita detti “rasuna”, presente generalmente nella tavola dei proprietari, degli impiegati della stessa masseria o per “complimentare” visitatori e passanti.
Un cacio aromatizzato, denominato “Cacio ‘mmisturatu”, si presentava di colore giallo dorato per l’aggiunta dello zafferano; ordinariamente, nel pecorino vi si metteva il pepe nero o “spiezzi”, ma a volte anche la cannella o il garofano, pestati grossolanamente.
Tra i sottoprodotti della caseificazione, il Salamone ricorda la “Ricotta”, ottenuta dal siero o “lacciata” e distinta in “Ricotta di vacca” e “Ricotta di capra” fatte con il cosiddetto “agro”. La <<Ricotta di pecora>>, invece, pur essendo prodotta con le stesse modalità, differisce poiché al posto dell’”agro” vi si immergono dei rametti di fico o di gelso, dopo aver portato ad elevata temperatura lo stesso siero.
Per finire, un paragrafo che descrive la vita dei pastori in quell’epoca, interessante forse tanto quanto le inchieste agrarie che si svolsero in quei periodi, riguarda la “Descrizione dell’ordinaria abitazione dei pastori in Sicilia”, che vale la pena riportare così come pubblicato nel menzionato manuale: <<In punti soleggiati, per quanto si può riparati dai venti e dalle tempeste ed in terra silicea ed asciutta vicino a qualche rivolo d’acqua [...] ed in un punto per quanto si può centrale al feudo che serve di pascolo al bestiame, si stabilisce l’abitazione de’ pastori, ed il locale scelto si chiama “marcatu”. Ivi si forma un muretto, ordinariamente di forma circolare, di pietre a secco, senza calce, o cemento o al più rarissime volte cementato con argilla, del diametro di 4 o 5 metri, alto al massimo un metro e mezzo o due. Sopra a questo muro si pongono de’ travicelli di due decimetri circa di diametro alla base, alti circa 6 metri, detti “ciarivuna”, distanti mezzo metro circa alla base e riuniti in cima in forma conica, intessuti di verghe lunghe e pieghevoli detti “flacuna”, quali coverti d’alga di giunchi o da altre simili erbe paludose, o di ginestre o disa, secondo l’opportunità dei luoghi per riparo delle piogge, formano l’abitazione de’ pastori. Al didentro si formano intorno 2 ordini di letti, uno all’altezza di 2 palmi, un altro all’altezza di 6 circa, intessuti di legni per sostegno, detti “stacci” e coverti di giunchi o altre paglie e frasche, al quale letto [i pastori] danno il nome di “jazzu”. Alla fine vi formano un fosso attorniato di pietre nel centro del suolo per focolare e lo dicono “fucagnu”. In tale restrettissima abitazione si ricoverano 12, 16, 20, 24, 30, pastori. Ne ciò dovrà sembrarvi esagerato [...]. Quivi pure si conservano la tina del latte, la tina con l’agro, il “tavoliere”, quantità di fiscelle, le bardelle di 3, 4 o 6 vetture [muli] che servono per uso della mandra, e molti altri ordegni ancora di minor conto, ma assai numerosi. Le caldaie ove si fa la ricotta, sono sempre murati fuori, senza tettoia, all’aria aperta. Fuori pure all’aria aperta è costruito il forno, garentito da una piccola tettoia nel breve circuito della sua estensione, e la madia e tutti gli arnesi del pane si conservano pure nell’abitazione sopra descritta, detta “pagghiaru”. Ad un’altra capanna più piccola, formata allo stesso modo si dà il nome di “sammataria”. Ivi si salano e si conservano i caci e le ricotte, il pane e qualche altra cosa essenziale e se ne ottura ermeticamente la porta d’entrata con un fascio di legna per non entrarvi i cani [...]. Pochissime persone tengono un straccio per covertarsi la notte, detto “carpita”; gli altri tutti si cuovrono con quel cappotto che li garantisce il giorno dalle piogge. I giovani sventurati prendono un poco di sonno sulla nuda terra, spesso fangosa per la quantità d’acqua e di siero che perculano li dentro. E’ penosa ed in certo modo sublime la veduta di quell’abitazione, in cui soggiorna quel popolo di pastori [...]. Una tale abitazione io la credo molto simile alla capanna che raccoglieva nel suo seno i pastori d’Abramo…>>.