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Attraversato dalla Strada Provinciale che da Agira conduce a Troina, l’abitato di Gagliano Castelferrato sorge in provincia di Enna, nella media valle del fiume Salso, un tempo parte meridionale del Val Demone. Il paese è adagiato ai piedi di una grande roccia, a quota 651 metri, mentre le creste della stessa sfiorano quasi gli 800 metri d’altezza. Lo sperone roccioso, circondato da colline, permetteva il controllo della vallata che degrada fino a 380 metri di quota, limite territoriale più basso che lambisce il fiume Salso. Il sito in questione presenta delle ottime caratteristiche ambientali e paesaggistiche, se rapportato agli scoscendimenti rocciosi di arenaria sovrastanti ed alle vallate di sabbia e argille sottostanti. Abitato fin dai tempi più remoti, come testimoniano le diverse necropoli scavate nella roccia ed i numerosi affioramenti di materiale ceramico, il territorio di Gagliano divenne sede di un insediamento stabile nell’area costituita dal grande massiccio roccioso, utilizzato successivamente come castello residenziale fortificato, sicuramente fin dal periodo bizantino, con finalità strategico-difensive. I Musulmani legarono il nome di tale sito a “ruqqah”, la “fortezza”, ed a “qal’at”, la “rocca”; successivamente, i Normanni ampliarono e potenziarono il fortilizio realizzando delle strutture murarie all’interno dell’imponente complesso. Il significato del nome “Gagliano” può essere ricondotto a “Galarìa”, dal greco “gála” = “latte” e “riòs” = “rivo” o “torrente”, pertanto fiume di latte o fiume bianco, poiché nelle vicinanze il fiume Salso si presenta ricco di sali potassici. Altra ipotesi farebbe derivare tale nome dal latino “Gallianum”, costituito da “Gallius”, nome personale latino, e dal suffisso prediale “-anu” che lascerebbe pensare ad uno dei tanti latifondi di proprietà di famiglie romane. Per ricordare l’imponente castello posto sulla rupe “di ferro”, al nome Gagliano fu aggiunto “Castelferrato”, ufficializzato in tempi recenti, precisamente nel 1862, anche perché l’abitato è stato da sempre in simbiosi alla sua rocca. Il territorio, pur sviluppandosi nell’attuale areale, da sempre ha avuto delle propaggini in seno a quello di Regalbuto; lo stesso ha offerto un habitat quanto mai peculiare ed idoneo alle forme dell’insediamento, rupestre e semi-rupestre, in un momento in cui le mutate condizioni nell’alto Medioevo determinarono nuovi assetti del paesaggio con il sorgere di agglomerati rurali sparsi nelle campagne che, in alcuni casi, si configurarono come casali rupestri. I nuclei rupestri più importanti presenti in questo territorio, oltre alla “Rocca”, sono rappresentati da almeno una trentina di località (tra le più importanti si annoverano “Fontanelle”, “Grotte Nere”, “Molera”, “Mongimino”, “Monte Guido”, “Pietralunga”, “Policara”, “Pulemi” e “Santa Margherita”, “Sant’Ippolito”), i quali raggiungono la zona montana fino a “Castelluccio”, “Monte Pellegrino” e “Ciappe della Gazzana”; in tutti questi siti è possibile scorgere una serie di grotte e grotticelle artificiali, spesso contigue, per buona parte risalenti ad antiche cripte o sepolcri, ricordati anche dal Fazello. In particolare, il toponimo “Gazzana” fornisce un appropriato significato sull’utilizzo di tali ambienti in età medievale, poiché esso deriverebbe dall’arabo “hazana” = “magazzino” o “luogo dove si conservano le derrate”. Documenti risalenti al 1154 testimoniano la presenza di grotte aventi ampie dimensioni ed abitate dall’uomo. Le prime attestazioni sul nome “Gagliano”, ad oggi conosciute, risalgono al 1081, quando territorio ed abitato sono compresi nella diocesi di Troina ed il toponimo è “Galianum”; più tardi, nel 1142, si riscontrano le forme “Gallianum”, Gallianon” e “Galianon”. Edrisi fa menzione di “gallîânah”, mentre nelle decime del 1308 è indicato “Gaglanum” (“castrum” e “terra”), anche se nel 1366 è attestato come “casale”. Nel 1408 è riscontrato con “Castrum Gagliani” e le menzioni di terra e castello rimangono le stesse fino al XVII secolo, periodo in cui la fortezza sarà definitivamente abbandonata. Accanto all’insediamento rupestre si conserva l’agglomerato rurale costituito da semplici abitazioni in muratura. Tale impianto sorge, infatti, nella parte sottostante il castello; esso è tipicamente medievale, caratterizzato per il sistema viario articolato, realizzato in funzione della giacitura orografica del sito. Risalirebbe ai secoli XI-XII l’edificazione della chiesa madre, dedicata al patrono S. Cataldo, rimaneggiata più volte, in particolare sul finire del XVI secolo, nella quale spiccano un pregevole campanile con cuspide maiolicata ed un elegante portale-prospetto datato 1589 con le insegne delle famiglie Galletti e Centelles. Dal punto di vista topografico, il sito è posto quasi centralmente al suo territorio ed è delimitato da alcuni corsi d’acqua: ad ovest il confine è rappresentato dalla confluenza dei fiumi Cerami e Salso, fiumare accomunate un tempo sotto il nome di “torrente Ciamasoro”, citato da Polibio, aventi una portata sufficiente per muovere diversi mulini; nei pressi di tale confluenza è da menzionare la cosiddetta “Pietra di Serlone” o “Rocca di Sarno”, la “hagar-Sârlû” di Edrisi, località dove Serlone, nipote del conte Ruggero, venne ucciso in un agguato teso dai Musulmani. A sud, invece, il confine è costituito da un secondo tratto del fiume Salso, denominato in arabo “wâdî al malîh” = “fiume salato”; ad est fungono da spartiacque il secondo tratto del torrente Gagliano, indicato pure col nome di “Fiumetto” o “Fiume Piccolo”, ed il vallone “Cubo”. Nella parte settentrionale, infine, i confini lambiscono i terreni pascolativi di Troina e Regalbuto. Gagliano confina anche con l’antico territorio di “Milgi”, casale concesso dal conte Ruggero alla chiesa di Messina nel 1086, anche se nel 1154 una località denominata “mildja abdallah” risulta già sotto la giurisdizione di Gilberto de Perollio, signore di Gagliano; la stessa, per assonanza del nome, potrebbe essere ricondotta all’attuale contrada chiamata “Mangialatte”, un’estesa porzione di terreno ubicata a sud-est del territorio, oggi in agro di Regalbuto. Non c’è dubbio che l’enorme complesso roccioso, costituito da tre rupi poste molto vicine tra esse, ha occupato una posizione strategica, tanto da svilupparsi attraverso una serie di ambienti ipogei, un vero e proprio habitat grottale, situato a quote differenti. Certamente, parte di tali ambienti erano destinati a magazzini e depositi di derrate alimentari, soprattutto cereali, mentre un razionale sistema di raccolta delle acque piovane, diffuso per tutta l’area del castello, riusciva ad alimentare parecchi pozzi e cisterne, al fine di permettere agli abitanti di resistere per lunghi periodi all’assedio di eventuali nemici. Dalla cosiddetta “Porta Falsa” (il cui secondo termine sarebbe da ricondurre a “fàusa” e da questo a “balza” = “rocca scoscesa”), si supera la prima cinta muraria, quella più esterna e, forse, la più recente, posta proprio ai piedi della rupe, per proseguire in salita lungo un ripido sentiero a gradini intagliati nella pietra, il quale permette di raggiungere un secondo ingresso che dà l’accesso al nucleo centrale del “kástron” bizantino o del “castrum” normanno, il “luogo forte”, il cuore del castello di Gagliano. Osservando i diversi ambienti ricavati nella roccia, si avverte la sensazione di essere davanti ad uno splendido esempio di come nel passato le emergenze naturali potessero essere modellate ed utilizzate dall’uomo per scopi abitativi e di difesa. Tra gli ambienti più importanti, raccordati tramite scale, passaggi e camminamenti naturali o ricavati nella roccia, si fa menzione di una caratteristica sala polilobata, un possibile luogo sacro di epoca precristiana, caratterizzato da una lunetta emisferica che sormonta l’ingresso; il vano è indicato tradizionalmente col nome di “stanza della spada”, poiché in una delle pareti è ancora visibile una incavatura dove il signore del luogo, si racconta, vi riponeva l’arma. Uno dei tanti ambienti doveva accogliere il cosiddetto “centìmulo”, macina girevole azionata manualmente o mossa dalla forza animale (es. da muli), impiegata nella molitura dei cereali. Si menziona pure una lunga sala rettangolare composta da diversi ingressi, dove verosimilmente avvenivano le adunanze della comunità locale. Qualche camera a cupola, costituita da un foro nella parte sommitale, mostra da dove usciva il fumo del focolare, mentre gli incavi nelle pareti, ad altezza costante, indicano che le stesse grotte potevano essere fornite di solai o soppalchi in legno. Infine, gli ultimi lavori di scavo, hanno riportato alla luce un ambiente chiesastico a pianta rettangolare. Questa tipologia di agglomerati è già attiva molto tempo prima della ristrutturazione territoriale dovuta ai Musulmani, i quali trovano nell’Isola un modo di abitare ormai consolidato, e non faticarono a farlo proprio poiché gli stessi provengono dalle zone interne algerine e tunisine dove il trogloditismo risulta generalizzato. Il paese è menzionato dal Fazello come un <<centro fortificato>> e Vito Amico riporta che la rocca possedeva <<cinque torri, dodici fosse e cisterne, diciassette spelonche e trenta aule>>, tutte incavate per massima parte nella roccia. Nello spazio tra due di queste rupi a strapiombo venne realizzato un edificio in muratura, a pianta rettangolare ed a diverse elevazioni, e dove ancora, nella parte basale si possono scorgere alcune incavature che servivano per collocare le giare dell’olio. Nei pressi del castello sorgeva pure un’antichissima chiesa rupestre dedicata a S. Pietro, la quale risulta testimonianza di una persistente devozione popolare, poiché il sito s’inserisce nel contesto di un’area precristiana e di una necropoli. L’ambiente è costituito da una sala rettangolare conclusa da un altarino, sormontato da una edicola a lunetta, quest’ultima rivolta secondo l’orientamento liturgico, mentre le pareti conservano ancora tracce di affreschi. Ecco che la grotta diviene luogo d’ascesi spirituale poiché spesso l’insediamento dell’abitato rupestre sorge in aree cimiteriali precedenti, sia protostoriche sia classiche, con l’utilizzo di tombe a camera dove sono presenti ambienti già strutturati da riutilizzare. Abbandonata durante la dominazione musulmana, la chiesa di S. Pietro sarà riscoperta con i Normanni, anche se questi ultimi interromperanno la tradizione rupestre diffusasi con i Bizantini. L’Amari, riferendo di una celebre battaglia avvenuta nell’858, subito dopo la resa di Castrogiovanni, accenna ad un castello, probabilmente quello di Gagliano, al quale il condottiero musulmano Al’Abbas aveva posto l’assedio per circa due mesi; le pareti rocciose verticali che circondavano l’acrocoro, impedirono ai Musulmani una facile conquista. La fortezza fu chiamata “el-kasr-gesis”, in arabo “castello nuovo”, perché assaltata e conquistata per la prima volta, con la variante “kasr-el-hesis”, vale a dire “castello di ferro”. Anni dopo, in un diploma del 1142, compare come signore di Gagliano certo Gilberto de Perollio, imparentato con la casa normanna. Questi usurpò ben presto alcuni terreni che erano stati donati dal conte Ruggero alla Chiesa di Troina; ma, uditi i testimoni dei paesi limitrofi e visionato il diploma di concessione, la lite si risolse in favore del vescovo Roberto II. Il castello per tutto il Medioevo passa da un feudatario all’altro: tra le personalità più in vista si ricordano Fulcone del Poggio, Pietro Procida, Montanerio Perio de Sosa, Ruggiero Teutonico. Dopo la guerra del vespro, vi fu un momento nella storia della Sicilia in cui si temette che la stessa sarebbe ricaduta sotto gli Angioini, se non fosse stato per la memorabile “battaglia di Gagliano”, avvenuta nel giorno di carnevale del febbraio 1300; in tale giornata, intorno alla rocca di Gagliano si tenne uno scontro tra i francesi della “Compagnia della morte”, comandata dal conte di Brienne, e l’esercito aragonese comandato da Blasco Alagona, il quale vittoriosamente riuscì a catturare gli avversari ed il loro comandante. Nel 1349 “terra” e “castrum” passano sotto il dominio di Bernardo Spadafora, figura non bene accetta dagli abitanti che, a seguito di una rivolta scoppiata nel castello, sarà catturato durante la fuga e scuoiato vivo lungo la strada per Nicosia, così come riferisce il Fazello. Pertanto, re Martino “il Vecchio” concede nel 1392 tali beni a Perio Sancio de Calatajuro, ma ben presto questi viene scacciato da Roberto Diana. Dai Capibrevi si evince che nel 1408 re Martino “il Giovane” vende “terra” e “castello” per 1000 onze, col titolo di visconte, a Sancio Ruyz de Lihori e suoi eredi. Sono di questo periodo le liti per la contesa del feudo denominato “Albano”, posto al confine con Troina; esso, pur essendo già posseduto dai de Lihori, passerà all’”universitas” di Troina che riuscirà ad ottenere l’annullamento dell’infeudazione, imperniando la resistenza sul tema degli usi civici e del libero accesso al pascolo degli armenti dei “borgesi” e riqualificando tale terra come demaniale o “comune”. L’area sulla quale insisteva il feudo “Albano” può essere individuata oltre il territorio dei “Comuni”, rimasta in agro di Troina, denominata nella cartografia “Pizzo Bianco”. Nel 1455 Gagliano viene concesso da re Alfonso a Ludovico de Pereglios. Sotto il dominio di questa famiglia il governo vicereale è costretto ancora una volta ad intervenire a causa di un abuso troppo evidente sfociato in violente ribellioni da parte della popolazione locale. Infatti, nel 1481, Raimondo de Pereglios pretendeva il possesso di un appezzamento di terreno che, invece, era legato agli usi civici, costringendo gli abitanti ad eseguire lavori gratuiti e punendo i riottosi con violenze atroci che spesso provocavano la morte dei malcapitati. Ma il vicerè Ximenes, dietro un dettagliato esposto dei gaglianesi, inviò un suo ispettore a rendere giustizia. All’inizio dell’età moderna, nel 1515, Almerico Centelles si investe della terra e castello ed un suo successore, nel 1561, riceve da Filippo II il titolo di conte. Seguono nel Seicento le famiglie dei Galletti e dei Castelli. Sul finire del Medioevo, Gagliano presenta un aumento della popolazione, che da 169 fuochi, nel 1464, passa a 192 fuochi nel 1478, per raggiungere i 240 nel 1497. Nel 1535, al tempo di Carlo V imperatore, l’abitato è formato da 726 case e 2.954 abitanti. Oggi il suo territorio, compreso in prevalenza tra i 400 e gli 800 metri di quota, non supera i 5.600 ettari di superficie, rimanendo confinato in zona collinare. Del passato è possibile immaginare un paesaggio agrario strutturato nelle cosiddette “culturae”, terre coltivate intensivamente, denominate “chiuse” se costituite in “difese”. La parte montana, invece, veniva lasciata solitamente incolta; erano queste le cosiddette “terre scapole”, adibite all’uso del pascolo, mentre le terre boschive, i “nemora”, venivano utilizzate per il legnatico. In età moderna lo stesso territorio si è caratterizzato per la presenza di colture soprattutto arboree, quali la vite, l’olivo, il mandorlo, il gelso (per l’allevamento del baco da seta) e, per ultimo, il ficodindia, pianta che ha conosciuto la sua espansione poiché favorita dalle caratteristiche climatiche e del terreno, tanto da divenire uno dei simboli dell’agricoltura di Gagliano. In tempi più recenti si giunge alla coltivazione del cotone, nelle zone più calde e pianeggianti, il cui ricordo è rimasto nel nome della località denominata “Cottonera”. L’area circostante l’abitato non presenta grosse estensioni omogenee, ma una serie di piccoli e piccolissimi spezzoni di terreno investiti un tempo a colture cerealicole ed arboree; da qui il riscontro del toponimo “Cammarella”, indicante appezzamenti di terreno non molto estesi e di forma rettangolare. Anche le cosiddette “Zotte” (es. “Calderone” e “Culedda”), dal latino medievale “sotum”, definiscono degli appezzamenti di terreno di limitata estensione, posti in luogo avvallato. La parte più produttiva del territorio è però localizzata lungo i fiumi Cerami e Salso, come dimostrato dai nomi delle località denominate “Campograsso”, cioè di terreno fertile, ed “Isola”; quest’ultimo avente significato di terreno alluvionale che si presta ad essere coltivato o, meglio, di una striscia di terreno di origine fluviale, coltivata ed adiacente alla fiumara. Località “Garbata”, invece, la cui voce prende origine dal latino medievale “warbus”, indicherebbe un campo non coltivato o incolto. La roccia arenaria, facilmente lavorabile, permise la realizzazione di un cospicuo numero di palmenti o pigiatoi, vasche impiegate nella pigiatura e nella lavorazione dell’uva sullo stesso luogo di coltivazione della vite. Nella parte periferica del territorio si riscontrano estensioni di terreno più ampie, indicate in toponomastica col nome di “Sarmàta”, e terreni adibiti agli usi civici, i cosiddetti “Comuni”, dove per tutto il Medioevo la popolazione locale aveva diritto a far pascolare il proprio bestiame (“ius pascendi”), ad ingrassare i maiali (“ius glandaticum”) ed a raccogliere legna per i bisogni domestici (“ius lignandi”). Il toponimo “Corvo”, legato ad una rocca, deriva dal francese “corvée”, col significato di prestazioni e servigi dovuti dai contadini al loro padrone. Ecco che i nomi di luogo presenti nel territorio esprimono con il loro significato il susseguirsi delle varie dominazioni, ma testimoniano anche gli aspetti religiosi, sociali, geografici ed agricoli ivi presenti. Una località posta all’estremità settentrionale del territorio, dalla quale prende il nome anche un antico mulino ad acqua, è denominata “Cafèrferi” che in greco significa “Ferfero il cattivo”, mentre “Nagarello” deriva dall’arabo “naggâr” che vuol dire falegname. Altra località, “Pulemi”, dal greco “polémios”, ha il significato di nemico, avversario. La presenza greco-bizantina è attestata anche con località “Tòdaro”, dal greco “Theódoros”, nome di persona. Non manca nell’agiotoponomastica la menzione di parecchi santi, quali “S. Giorgio”, caro ai Normanni perché simbolo della lotta contro i Musulmani; “S. Cataldo” e “S. Nicola”, altri due santi venerati dai Normanni. Ed ancora, “S. Pietro”, a cui è dedicata una chiesa rupestre ed un monte; Sant’Ippolito”, “Santa Margherita”, “Santa Caterina” e “S. Bartolomeo”; infine, “Sant’Antonio” e “S. Calogero”, simboli dell’eremitaggio nelle grotte. Una vallata, indicata con “Previte”, dal latino “praebyter” = “prete”, ricorda la presenza di possedimenti ecclesiali. “Policara”, oltre a ricordare una comune pianta erbacea, è da ricondurre all’etimo greco col significato di “insediamento”; come pure “Rabbiti”, contrada posta nelle vicinanze del paese, il cui nome prende origine dall’arabo “rabad” = “sobborgo” o “insediamento”. “Magari”, invece, deriverebbe dal greco “mákeron” = “mucchio di macerie”. L’attestazione di fontane è data dai nomi “Pozzillo”, “Tre Fontane”, “Fontanelle” e “Piano di Daina”; per quest’ultimo termine, come pure per “Rocca di Canne”, vi è l’evidente influsso arabo di “ayn” = “acqua”. Il vallone “Cubo”, dal siciliano “cubbu”, cioè cupo e tenebroso, presenta il significato di corso d’acqua con sponde profonde. Infine, le contrade “Crapuzzi” e “Craparia” indicano una diffusa presenza nel passato di allevamenti ovi-caprini. La pastorizia, infatti, rispetto all’agricoltura riusciva a sopportare meglio le conseguenze delle contrazioni demografiche, assicurando all’uomo una produzione costante in carne, latte e formaggi, assieme alle pelli. Tra le emergenze di antiche strutture disseminate nel territorio gaglianese, sono da annoverare, perché meritevoli di interesse, i ruderi di un fortilizio, il cosiddetto “Castidduzzu”, localizzato nell’omonima contrada, il quale permetteva di osservare la vallata del Salso lungo l’asse Agira-Regalbuto. Si ricorda pure il “ponti di lu flumichellu”, attestato già nel 1478 e denominato in periodi più recenti “Ponte del fiume Piccolo”, posto a pochi chilometri dall’abitato; un secondo ponte, realizzato sul fiume Salso, permetteva il passaggio della trazzera proveniente da S. Filippo d’Agira. Erano presenti, infine, alcuni mulini ad acqua ubicati sul torrente Ciamasoro, quali il “Mulino Cafèrferi”, il “Mulino Nuovo”, il “Mulino Nardo” ed il “Mulino Cazzetta”, oltre ad un “Mulinello” nella parte alta del torrente Gagliano. Foto di Pippo Baldi
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