GASTRONOMIA E TRADIZIONI
 Un tuffo nel passato:
il ristorante "U Conzu"

 di Fabio Cardile



Costruzione dei "panari" in vimini
Nel viaggio attraverso la riscoperta dei profumi, colori, fantasia e combinazione di gusti della Cucina Siciliana non possiamo fare a meno di fermarci per una breve, ma intensa sosta a Viagrande.

In questo piccolo borgo alle pendici dell’Etna, troviamo il ristorante “U Conzu” un gioiello d’altri tempi incastonato in una cintura di nuove costruzioni. Il contrasto è netto, ma non c’è da stupirsi perché, come ben si sa, la Sicilia oltre ad essere terra di sole è anche terra di contrasti.

In questa meravigliosa isola dove il sole insaporisce ogni cosa, la cucina non è solo sopravvivenza, ma tutto l’opposto. L’esplosione di colori e di forme geometriche delle pietanze si amalgama perfettamente ai paesaggi naturali, ai mercati, ai famosissimi Carretti Siciliani ed insieme a questi è l’espressione del calore intrinseco del popolo siciliano.

Il nome “U Conzu” nasconde in sé qualcosa di affascinante, suscita i ricordi degli anziani e contemporaneamente la curiosità dei giovani. Nessun altro nome poteva essere così azzeccato per denominare questo locale.

Vasca per la "pistatina" dell'uva
Incontro il giovane proprietario, Carmelo Faro,  appena trentacinquenne, ma con una grande esperienza nel campo della ristorazione maturata nel vicino “Bar Urna” (famoso sin dal 1885). È lui, anche se non è lo chef, che mi fa da Cicerone  spiegandomi come in verità il suo non è un semplice ristorante rustico, ma un palmento rimesso a nuovo.

Viagrande è sempre stato un paesino a vocazione agricola soprattutto, tra ‘700 e ‘800, quando l’introduzione del torchio a vite facilitò il procedimento di pressatura dell’uva. Questo accelerò la graduale trasformazione dei terreni collinari etnei in stupendi vigneti. Ogni vigneto veniva dotato di costruzione rurale comprendente la casa del “massaru” ed un edificio per la trasformazione dell’uva, il palmento appunto. Pian piano il paesaggio agrario venne contraddistinto da centinaia di questi manufatti.

Carretto Siciliano
La costruzione del palmento etneo presenta delle singolarità, utilizza la pietra lavica e sfrutta la forza di gravità, nelle operazioni di vinificazione, senza utilizzare attrezzature per il sollevamento del liquido perché costruito su diversi livelli come è ancora possibile vedere nel ristorante “U Conzu”. La ristrutturazione da parte della famiglia Faro, infatti, non ha pregiudicato gli ambienti che sono rimasti identici al 1831 (anno dell’edificazione), ma si è limitata solo a rinfrescare le pareti interne con la calce bianca e la facciata esterna con il colore rosa tipico della zona. La restaurazione ha addirittura valorizzato i luoghi della lavorazione. Nulla è stato lasciato al caso. Varcare la soglia di questo luogo è come attraversare un porta del tempo ed essere catapultati nel passato. Pavimenti in cotto, archi di pietra lavica, ringhiere in ferro battuto, qua e là ceste che servivano per la raccolta dell’uva i cosiddetti “panari”, e ancora strani oggetti che addobbano le pareti e poi una “gigantesca vite” che dal soffitto si infilza in una base di pietra lavica.

Ristorante "U Conzu"
Il sig. Carmelo è entusiasta di spiegarmi come erano organizzate le fasi di vinificazione e da cosa deriva quel nome, tanto strano, che ha dato al suo locale.

Le “ciurme” cioè le squadre di operai, durante la vendemmia, raccoglievano l’uva nei “panari” e a spalla la trasportavano al palmento, dove attraverso una finestra la scaricavano in una vasca larga e bassa. Qui entravano in scena i “pistaturi”, altri operai che si occupavano di pestarla a piedi nudi o calzando degli scarponi pesanti. Attraverso stretti canali di pietra lavica il mosto prodotto defluiva in una vasca sottostante detta “tina”, qui avveniva la prima fermentazione a contatto con le bucce ed i raspi che durava 48 ore. Attraverso un ulteriore circuito di canali il mosto in fermentazione veniva convogliato in un’altra vasca sottostante detta “ricevitori” (nella bocca di cane collocata sopra questo tino è incisa la data 1831), mentre la rimanente vinaccia detta “aspa” veniva fatta confluire in un'altra vasca più piccola dove vi era il torchio detto “conzu”.  Il “conzu” è costituito da una trave in legno detta “lignu i conzu”, da un sistema di fissaggio centrale e posteriore della trave e da un contrappeso anteriore in pietra lavica detto “petra i conzu” su cui si trova innestata una lunga vite in legno. Questa ha due fori dove si inseriva un palo (oggi opportunamente smontato) che girando su di essa permetteva di sollevare la pietra che serviva per la pressatura della vinaccia.  

"Lignu i conzu"
Il palmento è di proprietà della famiglia Faro da circa quarant’anni, ma negli ultimi anni è stato utilizzato solo per produrre vino per uso familiare, poi all’improvviso il sig. Carmelo ha avuto l’idea di trasformarlo in un ristorante.

È passato un anno e mezzo dall’inaugurazione e ogni mese una ricetta, un antico sapore, una novità in più incrementa il menù. Solitamente vengono proposti dei menù stagionali, quello invernale (già da pochi giorni adottato) e quello estivo che si differenzia dal precedente soprattutto per l’abbondanza di pesce.

I piatti più richiesti in questa stagione sono:

-          “gli antipasti do conzu” che raggruppano: la caponata, la parmigiana, i crostini di funghi, le verdure grigliate, la grigliata di funghi porcini dell’Etna, gli “arancinetti” (anche al pistacchio), le verdure pastellate, le polpette di ricotta, le polpette di “cannatedda” (è un’erba spontanea che cresce sull’Etna), “u’ maccu frittu”, la “sarda a baccaficu” ecc. Gli antipasti, in realtà non fanno parte della tradizione, questi esposti non sono altro che il companatico o il secondo piatto - se non l'unico - della cucina povera;

Vite innestata nella "petra i conzu"
-          primi: la pasta “masculini e finocchiu rizzu”, i panzotti di pistacchio e noce, il risotto sottobosco (asparagi, funghi, pomodoro fresco ecc.),  i legumi, la pasta con i broccoli e la salsiccia;

-          secondi: coniglio in agrodolce, agnello, arista di maiale al pistacchio, polpette con foglie di limone;

-          frutta: quella tipica di stagione, da notare come anche qui c’è un recupero di antichi sapori vengono proposti infatti i “puma gelati cola” e i “puma diliziusi” (rispettivamente le piccole mele bianche dell’Etna e quelle rosse), le sorbe, i “pira spineddu” (sono delle piccole pere allungate confezionate non singolarmente, ma a “pennula” cioè a treccia legata con spago; sono servite bollite o al forno), il melograno, il fico d’india, gli agrumi ecc.

-          dolci: le “peparelle”, la “cassata”, la “cassatela”, i cannoli, i “mustazzoli”, le paste di mandorla e di pistacchio,  il semifreddo alle mandorle, i fichi secchi, la mostarda, la frutta martorana ecc.

Alcuni vini
In abbinamento a queste pietanze troviamo una grande varietà di vini, naturalmente D.O.C. siciliani: Tenerello Mascalese, Cerasuolo di Vittoria, Nero D’Avola, vini rossi, Corvo Glicine, Zibibbo, Malvasia, Passiti, Rasoli ecc.     

Le origini della cucina siciliana risalgono ai tempi delle colonie greche in Sicilia (IV secolo a. C.). In quell’epoca la cucina non era molto elaborata: la  base era  costituita da verdure crude o cotte, da pesci e carni varie (lepri, conigli, agnelli, capretti) cucinate alla brace e insaporite con aglio ed erbe aromatiche. Il vino prodotto dai vigneti siciliani e la pasticceria raffinata, a base di mandorle e miele, erano già allora celebri..

"Peparella" e "Mustazzola"
Questa base, ricca ma sobria, si caricherà nei secoli a venire di sapori nuovi arricchendosi con le colonizzazioni di popoli con le quali verrà in contatto. Gli apporti maggiori sono sicuramente quelli arabi (i dolci, l’agrodolce, lo zafferano e le altre spezie, l’uvetta, il cous cous), quelli francesi e quelli spagnoli.

Accanto alla tradizione colta bisogna ricordare quella popolare, non meno interessante dell’altra: vi si annoverano soprattutto sane e saporite minestre di verdure selvatiche che, insieme a poco formaggio di pecora, olive e cipolle, e al pane, costituivano fino alla metà di questo secolo la base dell’alimentazione del contadino e del pastore. Eredità della cucina popolare è “u’ maccu”, un passato di fave secche, condito in modo diverso a seconda delle zone dell'isola e usato a sua volta per condire ricche minestre di pasta.

Sorba

L'uso dell'olio d'oliva è generalizzato, preferito ad ogni altro grasso, mentre la sugna è destinata alla preparazione di speciali impasti per focacce o dolciumi. Si preferisce l'uso del sale marino al salgemma.

Senza pane in Sicilia non si va a tavola, sarebbe inconcepibile. Ogni paese, ogni città vanta decine di qualità di pane, diverse per l'impasto, la forma, il tempo di lievitazione o di cottura: ed infiniti sono i nomi che si danno ai pani per distinguerli gli uni dagli altri.

"Cannatedda"
La fortuna della cucina siciliana deve molto all'impiego degli aromi locali. I più diffusi sono il basilico e l'origano, seguiti da alloro, rosmarino, salvia, timo, zafferano e dell'immancabile prezzemolo, presente in tutti i piatti.


Il sig Carmelo in realtà ha fatto di più che aprire un ristorante, infatti, la cordialità con cui fornisce minuziose informazioni sul palmento e sulle tradizioni locali, le antiche ricette della cucina siciliana accuratamente ricercate e fedelmente riproposte, gli innumerevoli vini siciliani scrupolosamente selezionati, la conduzione familiare, la rivalutazione di antichi sapori che ormai si stanno perdendo fanno si che “U Conzu” sia un  “museo gastronomico e culturale della tradizione popolare”.