STORIA E DINTORNI
   Il Castello dei Nelson
    di Giovanni Carbone

Peccato che a quel tempo non esistessero fotografi in grado di immortalare il colpo d'occhio della distesa infinita di vele spiegate delle due flotte più potenti al mondo l'un contro l'altra armata. E tuttavia, di quel giorno a Trafalgar, sono piene le pagine dei libri di storia, a ricordare la battaglia navale più famosa di sempre ed il suo leggendario protagonista, l'ammiraglio Orazio Nelson, il cui genio militare consentì alla flotta inglese di decretare l'inizio della fine dei sogni napoleonici di dominio.

La perfida Albione ebbe il suo eroe, ma il destino, troppo spesso cinico e baro, volle che Nelson perisse, proprio il giorno in cui fu eternato vincitore, per il piombo degli sconfitti.

Comunque sia andata a finire a Trafalgar, non era certo quella la prima volta che l'ammiraglio aveva l’opportunità di mostrare al mondo le sue indiscutibili abilità militari.

Correva l'anno 1799, e gli echi della Rivoluzione Francese si diffondevano rapidamente per l’Europa sino a giungere a Napoli, dove la rabbia del popolo insorto cacciò via i Borbone e proclamò la Repubblica Partenopea. Preoccupati per quell'assordante rumore di spade, gli Inglesi corsero in aiuto dei sovrani deposti con il loro miglior purosangue da combattimento a cui ben poca cosa dovettero sembrare le arraffazzonate truppe repubblicane. Nelson liquidò, infatti, rapidamente la pratica suditaliana, impiccando all'albero maestro della sua ammiraglia il suo pari grado ed avversario Francesco Caracciolo, reo di avere sciaguratamente abbandonato il suo ruolo di fedele servitore dei Borbone e di essersi posto, un po' troppo entusiasticamente, al servizio degli ideali rivoluzionari e del popolo. Suggellata impietosamente la fine delle speranze di libertà dei Napoletani, a Ferdinando IV di Borbone non parve vero di potersi riprendere il suo trono e, da uomo generoso - con i potenti - qual'era, non si limitò ad un “grazie mille”, ma fece omaggio al futuro eroe di Trafalgar di un vasto territorio siciliano nominandolo duca di Bronte.

"Uno dei più grandi proprietari terrieri d'Inghilterra si vanta di avere possedimenti che un tempo appartenevano al feudo di Harold, l'ultimo re anglo-sassone. Cos'è questo in confronto al vanto di un duca di Bronte, che può affermare che Teocrito avrebbe passeggiato non lontano da lì, lungo il Simeto, che giù dalle colline lontane giungeva Demetra a cercare la sua figliola Persefone; che secondo una leggenda locale Persefone stessa sarebbe scomparsa nel poco profondo lago tra Maniace e Randazzo; e che Empedocle scalava questo stupendo fianco nord dell'Etna che domina sulla Sicilia interna con vasta e minacciosa supremazia?" (William Sharp, Through Nelson's Duchy, nel volume IV delle Opere).

Non è dato nulla a sapersi circa l'esistenza di un Walhalla in cui i combattenti più valorosi s’incontrano dopo la vita terrena per scambiarsi perle di saggezza bellica, sta di fatto che dimora sfarzesca del novello duca di Bronte divenne l’ex abbazia di Santa Maria di Maniace, in quel piccolo borgo contadino che deve il suo nome ad una altro grande condottiero, Giorgio Maniace, di professione generale bizantino. In questo caso correva l'anno 1040, allorché l'uomo di Bisanzio affrontò e sconfisse i Saraceni presso un villaggio noto come Ghîran àd Daquiq, a cui, cacciati i vecchi occupanti, mutò il nome in Maniace, concedendosi il piccolo vezzo di un gesto autocelebrativo:

A questo "villaggio in pianura ben popolato, ricco di mercanti, territorio fertile e abbondante di ogni cosa" (Michele Amari, Biblioteca Arabo-Sicula, Siracusa 1982), s’intese dare maggiore splendore con l'edificazione dell'Abbazia Benedettina di Santa Maria, ovviamente in ricordo del valorosissimo Maniace e per volontà di Guglielmo il Buono che esaudì il desiderio espresso in tal senso della regina madre Margherita di Navarra.

L'abbazia, dopo un periodo di grandi fortune, vide ridimensionarsi le proprie magnificenze dalle notti buie del giogo feudale, sopravvivendo comunque allo stesso paese della cui esistenza si persero le tracce per diversi secoli. Caparbiamente abbarbicato sul suo rilievo roccioso, a dominare il sottostante corso del fiume Saracena, l'edificio religioso cedette soltanto alla furia della natura che, con un terribile sisma, lo rase al suolo nel 1601. Venne si ricostruito, ma lì intorno un agglomerato urbano coerente stentava a formarsi giacché i contadini fuggivano quella zona pur fertile e ricca, insofferenti alle vessazioni dei signori del posto. Per loro la situazione non cambiò granché neanche quando l'anacronistico aborto di investitura feudale di Ferdinando IV consentì l'approdo in quelle lande ormai desolate ed incolte dei Duchi d'Oltremanica. Un evento frutto di un gesto di ulteriore arroganza e prevaricazione che sancì inequivocabilmente il contenuto illusorio di una prospettiva migliore per i siciliani in una terra preda di un governo non proprio illuminato, attento soprattutto a mostrare gli sfarzi ai limiti del buon gusto di una corte decadente. "Chi vuole farsi un'idea delle costumanze di quella corte legga nelle stampe del tempo la narrazione della festa fatta il 20 agosto 1799 in Palermo, per il ricevimento e la premiazione di Nelson, vincitore di Aboukir e domatore della rivoluzione partenopea. La riassumiamo come una curiosità.

In un tempio della gloria, eretto nella Villa Reale della Favorita, Ferdinando I in una quadriga e vestito di grave paludamento ricevette Nelson, mentre musici occulti eseguivano una cantata di Saverio Poli. Allorché il vincitore d'Aboukir si presentò alle soglie del tempio, attorniato dal suo stato maggiore, la regina Maria Carolina in abito da Giunone, e la degna sua amica Lady Hamilton (Emma Lyonne) in costume di Venere, tenendolo per mano, lo accompagnarono davanti al re, e nel tempo stesso un biondo fanciullo in abito da Cupido, calato dal soffitto, posava sulla testa dell'ammiraglio inglese una corona d'alloro, e gli porgeva una spada con l'elsa tempestata di diamanti, ed un diploma che lo creava duca di Bronte, coll'assegno di 6000 onze (75.000 lire). E nella stessa ricorrenza, per ordine della regina, il popolo di Palermo fu ammesso al massimo teatro a godere di una scena allegorica, dagli stessi reali rappresentata con suoni e danze, nella quale il re mostravasi sotto le sembianze di Saturno, la regina sotto quelle della purissima Vesta - cosa di cui tutti risero - e Nelson sotto quelle di Dio della Forza. Peccato che a compiere l'allegoria non si mostrassero Emma Lyonne, nel prediletto costume di Venere... Pandemia, e lord Hamilton, in quello che per l'età e la figura grottesca più di tutti gli calzava: di Vulcano. E, per completare lo spettacolo e deliziare maggiormente gli amati sudditi, il re Ferdinando, nell'intermezzo dell'azione, si presentò alla loggia reale mangiando - dice lo storico - 'con somma grazia alla foggia dei lazzaroni' (cioè con le dita) 'un grossissimo piatto di maccheroni... alla pomarola' (Appendice alla Storia del Regno delle Due Sicilie del Di Blasi, Sa, Gerolamo Di Marzo-Ferro). Così festeggiavansi le stragi del Ruffo-Scilla e la mancata fede di Nelson verso i Napoletani! Da tali sovrani s'immagini il governo ch'ebbero Palermo e la Sicilia in quel tempo" (Gustavo Chiesi, Sicilia illustrata, Milano 1892).

Ad ogni buon conto agli Inglesi occorre riconoscere un certo spirito d'impresa che consentì, se non un miglioramento della qualità della vita dei contadini, almeno un discreto aumento della produzione cerealicola. I riassetti fondiari successivi al 1812 e partoriti in favore delle classi meno abbienti ricominciarono a popolare Maniace, ma acuirono anche i dissapori tra i padroni di quelle terre ed i contadini, dissapori che sarebbero divenuti vere e proprie sommosse anche dopo l'"ufficiale" abrogazione dei privilegi feudali che non riuscì a strappare ai Duchi il possesso di quel vastissimo territorio. Tra una rivolta contadina, una campagna di occupazione delle terre, una riforma agraria, la condizione di questo pezzo di Sicilia finì inevitabilmente per adeguarsi ai tempi, cosicché la stessa dimora dei Nelson divenne proprietà del comune di Bronte e, in questa sua nuova veste di struttura di pubblica utilità, resa accessibile anche alle visite dei comuni mortali che sino ad allora non avevano goduto delle simpatie dei duchi inglesi. Tra coloro i quali invece risultarono essere ospiti graditi della famiglia ve ne fu uno che riuscì ad eternare la magica dimora con la sua penna ispirata, lasciando che le suggestioni e la fama della sua bellezza e delle terre d'intorno travalicassero i confini dell'Isola. Quel tale, che vi si trovò a soggiornare agli inizi del '900, era il poeta scozzese William Sharp, tanto rapito dal fascino di questi luoghi da sceglierli come propria dimora eterna, fermandosi a riposare in pace nel vicino cimitero inglese di pertinenza dei duchi. Se Sharp fu attratto dall'enorme suggestione mitologica e dalla ricchissima storia della terra di Sicilia - come abbiamo potuto apprezzare dal brano prima riportato -, al cospetto delle quali ben poca cosa gli apparve la sua stessa terra natale, non fu meno attratto dalle meraviglie paesaggistiche della Ducea dei Nelson, concreta materializzazione delle più ispirate narrazioni bucoliche. Certo, secondo l'elegia del poeta scozzese, dalle finestre del castello dei Nelson si scorgeva un vasto panorama in cui, più pericolosa di un drago, imperversava la malaria, ma di questa terribile piaga ci si può pure dimenticare ascoltando il melodico ronzio delle api che pascolano nella fertile valle irrorata dalle acque del mitico Simeto, fiume cantato da Teocrito, il suono del vento amplificato dalle foreste che circondano la verde vallata; e il canto dei vendemmiatori, le cui credenze popolari ripercorrono la storia millenaria di questi luoghi e la vicenda degli immensi tesori della regina Margherita.

"A tutt'oggi, il popolo della campagna intorno a Maniace crede che il tesoro dei gioielli della Regina Margherita giaccia seppellito ad un tiro di freccia dal Castello. La scorsa primavera, quando un'inondazione trascinò via parte dell'argine settentrionale del Simeto, vicino i vigneti, e rivelò una serie di antiche tombe si sperava che il tesoro potesse essere ritrovato. Ahimé! dopo giorni di esplorazione tutto quello che fu scoperto fu qualche teschio e qualche osso che non potevano dire di essere Normanni o Saraceni, o Greci o Siciliani, un certo numero di denti molto resistenti e un piccolo orecchino dorato" (William Sharp, op. cit.).

Tesori veri, non sepolti ma visibili, sono invece quelli offerti dal paesaggio di Maniace che incastona il Castello. Paesaggio che presenta tre motivi dominanti, la fertile valle del fiume Saracena, verde di pascoli e vigne, i fitti boschi dei Nebrodi, a nord, e l'imponente mole dell'Etna, spesso innevata, ad offrire protezione permanente a tutta l'area. Il Castello poi è pregevole opera architettonica, che si sviluppa intorno a due grandi cortili, uno dei quali era il vecchio chiostro dell'abbazia; sull'altro si affacciano gli edifici costruiti sulle rovine dell'antica chiesa medievale di Santa Maria. L'ingresso del castello introduce ad un elegante portico su cui si apre il bel portale della chiesa riedificata di Santa Maria, incorniciato da cinque sottili colonne per lato, ornate di ricchi capitelli con personaggi e simboli biblici. La chiesetta, a tre navate, ha un interno sobrio, illuminato da tre finestre poste nella navata centrale. Ad ovest dell'edificio c'è l'immancabile giardino inglese, a sud un bel parco cui si accede attraverso un viale alberato e, sul lato nord, imponenti mura di cinta, torrioni e feritoie affacciati sul fiume Saracena.

Ciò che colpisce del castello, rappresentando forse il suo aspetto più interessante, è questo strano connubio tra i motivi apparentemente contraddittori del paesaggio agricolo d'intorno, tipico della ruralità e della natura di Sicilia, la pace ed i silenzi che rievocano l'antico uso clausurale della struttura, e la cura tutta inglese del suo arredo floreale. Il risultato è la sorprendente constatazione che la storia chiaroscurale di Maniace e della sua abbazia non ha dominato il sito ma anzi l’ha arricchito e valorizzato, mostrandoci la sua natura evanescente e nel contempo concreta, come in un’ispirata rappresentazione pittorica della sua solare ed amena bellezza.

Non rimane che recarsi nella vicina Bronte o nella non lontana Randazzo, certo per goderne le bellezze architettoniche, ma anche per gustare ciò che questa terra da sola può offrire, la ricchezza di una meravigliosa tradizione gastronomica, frutto di una secolare costante contaminazione di culture e delle opportunità di un suolo fertilissimo. Non ci si può sottrarre dal lasciarsi inebriare del gusto unico del pistacchio, l’oro verde di questo versante dell’Etna, in forma di pesto per condirvi la pasta, o come materia prima per indimenticabili dolci e gelati. Il pistacchio vegeta a Bronte con una qualità che non si trova da nessun’altra parte, con arbusti che sembrano dita rivolte al cielo a ricercare i caldi raggi del sole. E se non bastasse tutto questo, funghi, ottimi vini rossi, le superbe fragoline di bosco di Maletto, carni ed insaccati, salsicce, formaggio pecorino e provole dei Nebrodi, non lasceranno che rimanga il benché minimo indugio nell’intraprendere un viaggio sulle tracce dei Nelson e nei dintorni della loro ducea.