La sfida degli anni '90: lasciare le città alla ricerca della nuova ruralità. " .... il destino dell'agricoltore sembra individuabile in una riconversione professionale da produzioni di massa a produzioni di qualità, da una strategia volta ad ottenere di più ad una che si preoccupa di ottenere con meno. Si tratti di un imprenditore a mezzo tempo o di un imprenditore che, per esserlo a pieno, sì darà a trasformare in proprio l'olio, il vino o la frutta, il latte o la carne, la sua evoluzione è paragonabile a quella di un artista che abbandona la scultura per dedicarsi all'oreficeria. Anche se si sente addosso la potenza di Michelangelo può dirottare il proprio genio verso la raffinatezza di un Cellini''. Sono le conclusioni che Corrado Barberis, presidente dell'Istituto nazionale di Sociologia Rurale e il più illustre dei sociologi rurali italiani ha posto alla fine de "La società italiana" e che rilanciano una scommessa - fino a qualche anno fa impensabile - a favore della campagna, e di quella meridionale in particolare L'idea è quella di produrre di meno, per produrre meglio, guadagnare di più, in reddito contadino e in salute dei consumatori. Un' idea nata dalla rivelazione delle ultime tendenze socio-economiche dalle quali si può ipotizzare - con un alto grado di attendibilità - che in alcuni paesi, Italia compresa, di antica industrializzazione e di meccanizzazione agricola è in atto una controtendenza all'urbanizzazione. Dalla città si scappa per andare a vivere e a lavorare in centri rurali. I tassi demografici innalzano la componente rurale della popolazione italiana; gli incrementi naturali, in percentuale, sono tutti localizzati in campagna. E' nata una nuova ruralità: la campagna, i piccoli centri rurali, tendono a ripopolarsi e, nel contempo, si ripropongono come luoghi di consumatori pentiti di avere, per lungo tempo, mangiato fast food e cibi preconfezionati, di massa. 1 piccoli centri, invasi d'oblio urbano tutto l'anno, venivano visitati da turbe di cittadini, in autosfollamento provvisorio, per la sola domenica o il solo sabato pomeriggio. Questi strani visitatori cercavano i vecchi ricordi, le fantasie giovanili e anche, perchè no?, le cibarie fatte dalla nonna e prodotte dal nonno, odorose di genuinità e fragranti di antico. Quei piccoli borghi rurali da qualche decennio si sono animati per la presenza più stabile di chi ha deciso di rieleggervi il proprio domicilio e per l'aria salubre, il decongestionamento dei traffico e il disinquinamento acustico e olfattivo. Presenza stabile e richiesta quotidiana della genuinità dei prodotti della terra si coniugano per ridisegnare il nuovo fenomeno della "ri-ruralizzazione" della convivenza civile. La caratteristica del paesaggio agrario italiano, e siciliano in particolare, che inconfondibilmente si presentava, agli occhi di tutti, come aggregato di unità aziendali disperse e dispersive di efficienza, iperbolico ai fini di una razionale produttività, dall'inizio degli anni '80 tende a trasformare la sua tradizionale debolezza in elemento di forza: la grandemente pulviscolare piccola proprietà, irrazionale secondo la logica dei grandi numeri e della produzione standardizzata di massa, è in grado di produrre, in virtù della sua piccolezza, del suo essere a misura d'uomo, per un mercato di qualità a quantità ridotte. Non grandi investimenti in concimi chimici, ad esempio, o in lavoro salariato, ma cure costanti per una conduzione in proprio di piccoli appezzamenti con in mente non tanto (o non solo) il lontano supermercato cittadino ma la buona tavola dei consumatori dei dintorni. A ciò si può aggiungere la vocazione turistica di cui la Sicilia, e per il suo paesaggio che poco ha conosciuto lo scempio della contaminazione dei rifiuti industriali, dell'occupazione territoriale degli impianti industriali, dei "mal di vivere" industriale, in una parola del suo "sottosviluppo", e per il patrimonio storico e paesaggistico delle sue contrade che potrebbe essere l'irresistibile specchio fatato, atto ad attrarre turisti da rifocillare con prodotti con locali di qualità e da istruire. Dice ancora Barberis: " ... dobbiamo porci il problema dell'agricoltura che non è un problema semplice, ma che proprio da un abbinamento con il turismo può trovare una soluzione molto intelligente, perchè evidentemente prendiamo atto che l'Italia non è un paese da produzione di massa. Ecco, in qualche zona, nella valle padana, noi possiamo anche illuderci di giocare al Mississipi. Ma al di fuori di queste aree, che sono limitatissime, possiamo prendere atto che la nostra è un'agricoltura basata sulle piccole produzioni perchè non riesce a reggere un'economia basata su grandi imprese in quanto ci sono dei condizionamenti fisici che impediscono la meccanizzazione su vasta scala, che obbligano a ricorrere a produzioni che sono, per la loro stessa natura tecnologica, delle produzioni di qualità: la vite, l'olio, i piccoli allevamenti, gli allevamenti bradi e, aggiungeremo noi, l'agrume, la frutta (dalle pesche che importiamo, ma che produciamo buonissime, alle pere dei frutteti in espansione nel circondario di Catania, nel brontese e altrove). Il prodotto agrumicolo, per esempio, dell'arca irrigua catanese ha un grande destino solo che voglia svincolarsi dall'ottica della grande quantità per votarsi alla standardizzazione e a una strategia di marketing che, una volta per tutte, vinca quella autentica palla al piede che è stata la attiva commercializzazione. E per battere anche la filosofia produttiva dell'AIMA, della distruzione dei raccolto volta a tenere alto il prezzo di mercato. Impellente necessità quella di girare pagina dal libro della politica del prezzo assistito e della distruzione dei prodotti, perchè sempre meno la Comunità Europea si atterrà, come si sta vedendo, a politiche di sostegno dei prezzi agricoli attraverso la distruzione delle quantità che tenderebbero a ribassare il prezzo del prodotto. In una ritrovata strategia alimentare della qualità dei prodotti dei campi significativo potrà essere infine l'investimento in settori agricoli a coltivazione biologica. In tal caso si renderà necessario un sostegno ai prezzi di vendita del prodotto nella considerazione che, mediamente, la produttività "biologica" subisce un decremento del 50% rispetto a quella "drogata" degli agenti chimici. E' naturale, quindi, ipotizzare come strategico, l'apporto istituzionale degli Enti Locali attraverso una politica di promozione della produzione tipica, di incentivazione dei settori suscettibili di nuovo sviluppo, di intermediazione a fini cooperativistici tra produttori finalizzata al buon esito delle campagne di marketing e di commercializzazione. Produzione di qualità, ricorso alla tecnologia biologica, incremento dell'occupazione rurale e giovanile (perchè il nuovo ha sempre bisogno di nuove generazioni per guadagnarsi il diritto di cittadinanza nella prassi degli uomini), turismo, nuova immigrazione nei piccoli centri ospitanti i prodotti tipici locali, riclassificazione dei parametri di visibilità con l'emergere di preferenze d'insediamento rurale: tutto questo è nuova ruralità, tutto questo compendierà quel motto secondo cui qualche tempo fa dai rivoluzionari cinesi la campagna fu destinata alla conquista della città. Paradosso a parte, la campagna sarà la città, senza i costi spersonalizzanti, frustranti, massificanti e cementizi della città. Il problema della tipicità. L'ipotesi della dinamica del paesaggio agrario nazionale, e non solo, delle "due agricolture" e contemporaneamente della scissione del settore primario in due branche distinte è ormai consolidata, presso studiosi ed operatori agricoli, sin dagli inizi degli anni '70. Da un lato infatti constatiamo la presenza di un'agricoltura rivolta al l'alimentazione di massa, dall'altro è realtà diffusa quella di un'attività agricola che volge il suo crescente interesse al "piacere della tavola". Lo stesso Ministero del l'Agricoltura ha recepito, in pratica, questa tendenza nel tracciare il Piano Agricolo Nazionale. E' dal 1984 che il Ministero individua una bipolarizzazione dei consumo "attorno a due aspetti: cibo-nutrizione e cibo-soddisfazione, con richiesta per la prima esigenza di prodotti di qualità standardizzata e di prezzo contenuto e, per la seconda, di prodotti di alta qualità a prezzi ovviamente più alti." (MAF: Per un nuovo piano agricolo nazionale, Roma, Novembre, 1984, p. 11). Rompendo l'unicità del mercato e creando tanti segmenti separati, questi tipo di bipolarizzazione crea infatti le premesse della costituzione di "nicchie" relativamente riparate da un'accesa concorrenza ma che garantiscono la sopravvivenza e lo sviluppo di settori artigianali legati alla produzione agricola. Le condizioni perchè questa sia una strategia vincente sono che il prodotto sia di alta qualificazione, che venga conosciuto attraverso un'adeguata campagna permanente di commercializzazione, e, soprattutto, che abbia caratteri di "tipicità" e genuinità tali da poter essere "riconosciuti" e cercati dal consumatore, anch'esso di qualità. Un dato infatti sembra incontrovertibile: il consumatore postindustriale sempre più vede nell'azienda agricola, a carattere familiare ed artigianale, una dispensatrice di prodotti genuini e nell'agricoltore il garante della qualità del cibo. Gli esempi, soprattutto nel settore vinicolo, caseario, oleico e degli insaccati sono sotto gli occhi di tutti. Ma il consumatore post-industriale ha certamente coscienza della propria incompetenza, da anni alimentata dall'industria di massa. Incompetenza che può esporlo a raggiri e frodi. Ed è per evitare il ruolo di vittima da raggirare che pretende il bollino di garanzia, il DOC, il "tipico" con certificato. Ma la stessa nozione di "tipicità" è anch'essa ambigua, come giustamente fa ancora rilevare Barberis. "Ad alcune orecchie la tipicità suonerà come sinonimo di individualità e unicità mentre ad altre suonerà come anticipo di ciò che può essere ridotto ad una tipologia e cioè ad un prototipo. Assimilerà la tipicità alla unicità che darà per scontata una certa mutevolezza di sapori, naturalmente all'interno di un ragionevole campo di variazione pur di ottenere in ogni caso un prodotto eccellente. Assimilerà invece la tipicità alla uniformità chi, disperando dell'acume critico dell'acquirente, vorrà sostituirsi ad esso, promettendogli una versione invariata di ciò che una olta gli piacque. ( ... ) Se si aggiunge che nessuno mai e poi mai potrà realisticamente garantire la "storicità" di un profumo, di un aroma, di un sapore, fusione perfetta di tempi, alimentazione, stagionatura, materia prima ecc ecco che al prudente consumatore in cerca di certificati si aprono non pochi problemi". Tipico sarà allora da noi inteso solo il prodotto uscito dalle cure artigianali (esse sole in grado di permettere attenzioni particolari e personali). Tipicità quindi come unicità. E perché il prodotto gastronomico l'artigianale" possa trovare confortante riconoscimento nel "mercato della qualità" occorre anche definire delle ferree regole in grado di tutelare e non disorientare il consumatore. L'artigianale in gastronomia e nei prodotti agricoli in generale sconta, infatti, spesso l'inconsistenza dei caratteri merceologici (i formaggi siciliani, tanto per fare un esempio, differiscono spesso nella qualità, nel gusto e nella forma tanto quanto sono le aziende che li producono). La strada da seguire è, pertanto, quella di circoscrivere rigidamente l'area produttiva, riducendo la variabilità delle caratteristiche organolettiche e creando nel contempo un'efficace rete di raccolta e distribuzione, attualmente affidata a grossisti ed intermediari. Ciò potrà essere creato magari con la costituzione di forme associate e consortili istituendo una rete di aziende-pilota in grado di disporre di assistenza e di attrezzature necessarie a produrre in base a standard comuni e con la possibilità di adottare un marchio unico. |