La storiografia dell'alimentazione ovvero scoprire cosa mangiamo per scoprire quel che siamo. Il racconto della storia dell'età moderna attraverso la cucina.

Der Mensch ist was er isst, (l'uomo è ciò che mangia) scriveva nel 1850    L. Feuerbach, recensendo la "Fisiologia dei gusto" di Anthelme de Brillat-Savarin (1755-1826), oggi il nome di una linea di formaggi francesi. L'uomo è ciò che mangia, e mangia ciò che è. Ci sono piatti, come il roast-beef inglese o l'hutsepot olandese su cui ha scritto magnificamente Simon Schama in "La cultura olandese dell'epoca d'oro", (Milano 1988), ci sono digiuni diurni e abbuffate notturne come nel Ramadan, ci sono pratiche culinarie, quella casher ad esempio, che condensano mille incroci, che raggrumano, fanno cagliare il siero della cultura, dell'economia, della religione abitate dagli uomini.

L'uomo ha preso in mano il suo destino: ha deciso di sapere cosa mangia per definire la sua identità. Basta controllare la qualità o l'origine dei pasti per sapere chi si è. Per governare i criteri formativi della propria identità si scenda dal lettino della psicanalisi... e ci si metta a tavola. Da Freud ad Artusi: l'umanità trova il suo ubi consistam, il suo fondamento non più nella testa o nel sesso, ma a mezza strada, tra l'ombelico e il sedere. Se vogliamo sapere chi siamo, da dove proveniamo e dove ci dirigiamo, se oltre a sapere ciò che montalianamente non siamo, se vogliamo definire un abbozzo di profilo individuale e vogliamo intravedere il destino di un popolo, non c'é altro da fare che mettere a dormire la storia del passato e la geografia dell'avvenire, per sfogliare... una foglia di lattuga.

Avvezzi a confidare nel disegno imperscrutabile di Dio e a fidarci dei professori di storia e degli ingegneri sociali, dei preti spretati e dei preti spretati, dei pontefici laici e dei pontefici religiosi, con raccapriccio si accetta che la storia di un popolo o di un uomo possa essere iscritta nei fondi di cucina o tra le foglie di una cosca... di carciofo. Una gran parabola, un fuoco di bengala i cui punti fissi sono ''Les Annales'', Levi Strauss, l'antropologia, l'etnologia e, per l'Italia, Cesare Lombroso e Luigi Messedaglia dei quali Massimo Montanari può essere reputato un continuatore assieme a Emilio Faccioli, a Folco Portinari, a Piero Camporesi e al suo maestro Fumagalli.

Gli scaffali delle librerie si svuotano delle indigeste filosofie della storia, dei trattati di economia e si affollano di consigli per il mangiar sano. Dalla dialettica alla dietetica, dall'uomo ad una dimensione all'onnivoro. "L'onnivoro" di Claude FischIer, recentemente tradotto e stampato da mondadori è un saggio di cui consiglio la lettura: è una storia dei l'alimentazione, contro i dietisti per la gastronomia come gastro-anomia. Un libro che si conclude con un chiaro invito: "Mettiamoci all'ascolto dei nostri sensi per riscoprire i nostri alimenti e il nostro corpo insieme. E' forse significativo il fatto che sapere, etimologicamente, deriva da sapore: se avere sapore vuol dire sapere, allora urge accrescere le nostre competenze in questo campo. Scopriremo così ciò che mangiamo e al tempo stesso quel che siamo". Ma torniamo ai libri di Montanari autore di "Nuovo Convivio, Storia e cultura dei piaceri della tavola nell'Età moderna", Laterza 1991.

Se c'è un'epigrafe che lapidariamente ed icasticamente può darci i I senso delle ricerche di Montanari, non si può trovare di meglio che quella apposta al l'inizio di un suo saggio pubblicato nel 1981 in "Archeologia Medievale" e ristampato in "Campagne medievali" (1984). La frase di taglio aforistico appartiene ad uno storiografo francese di fine secolo, Henri Boudreau: "Per la scienza esatta delle cose, il menu di un pasto è più istruttivo di una narrazione di fatti di guerra, un libro di cucina più di una raccolta di atti giudiziari, una statistica di alimenti più di una relazione di intrighi di corte" (1894). Montanari ama sottolineare l'apporto dei medico Luigi Messedagliaagli studi sul l'alimentazione italiana. E ci ricorda dello stesso una pubblicazione del 1927, anno dell'incipiente battaglia fascista dei grano, di un libro sul l'alimentazione del Nord Italia.

Del l'Italia della coltivazione e consumo di mais, di un prodotto messicano, conosciuto in Europa sin dalla conquista cinquecentesca dei Continente sud-americano, ma adottato dal la cucina contadina europea tra sei e settecento. Un'adozione che gli agronomi ponevano ad argine del flagello della fame. Scrive Montanari: "Non c'è testo che non ponga una stretta equivalenza fra fame, penuria, carestia da un lato, coltivazione dei mais, dall'altro. Figliuoli miei - scrive nel 1778 l'agronomo riminese Giovanni Battarra, facendo dialogare un contadino con i propri due figli - se vi foste incontrati nell'anno 1715, che dai vecchi è sempre chiamato l'anno della carestia, nel quale non v'era ancora l'uso di codesta biada, avrete vedute le povere creature morirsi di fame. Ora invece, finalmente è piaciuto a Dio d'introdur questa biada e qui generalmente per ogni parte, che in sostanza è buon e nutritivo".

Il mais e la storia dei l'alimentazione come storiografia dei piaceri della tavola e/o propriamente delle malattie contadine, della pellegra la cui area di privilegiamento ospitava i gozzuti, affetti da cretinesimo - donde polentoni, ad indicare teste piccole su corpi vasti, a sospettare grassa o alta stupidità, "agiato" cretinesimo. A metà secolo scorso quel sospetto divenne un'atroce realtà che spiegava la scarsa capacità militare dell'esercito sabaudo, dei fante nord italico, delle pietose magre figure rimediate dai sabaudi nelle guerre d'indipendenza.

Il Bulferetti che ha stilato - ora è tempo -una biografia di Cesare Lombroso scriveva: "I costumi, le capacità militari degli italiani nei circoli frequentati da Cesare Lombroso a Vienna dove sitrovava nel 1855 a completare gli studi erano sfavorevolmente commentati e derisione destava il cretinesimo diffuso nel lombardo-veneto, tanto che il Lombroso accennerà a quell' alienazione mentale come a quella che più richiamalo scherno dello straniero e si proporrà di studiarla a fondo per curarla". Tra il 1855 e il 1863 Lombroso conoscerà gli italiani e scoprirà che, a Sud come a Nord, l'Italia mangiava malissimo. Per colpa dei padroni.

Dalla Val d'Aosta alla Lomellina, in Valtellina, tra le Alpi e gli Appennini toscoemiliani dilagava la pellagra, la pellagra maniacale. Un'Unità di pazzi e di morti di fame e, per questo, conviviali. Convivere, essere conviviali è stata la loro utopia, che e il sol dell'avvenire di tutti i morti di fame. Del l'inseguimento della chimera di un buon pasto, dell'utopia quale civile convivenza di convivialità Montanari è lo storiografo. Dalla lotta di classe, alla lotta per il posto -di brancatiana memoria, alla lotta per i pasti. Mangiare come con-vivere. Vívere assieme (con poche persone è convivium, vivere con molte persone è convicium), il cibo -ci spiega Montanari -è metafora dell'esistenza. Mangiare da soli è penitenza, segno di ferinità.

E viene da pensare -più che a Colombano e ad Ivano dei passi citati da Montanari - ai single, ai separati, ai divorziati, ai dannati della solitudine dei tempi moderni. A quel loro parco mangiare che ricorda l'anoressia mistica di Santa Caterina da Siena, succhiatrice di pus da corpi malati. A quella loro bulimia che li rende flaccidi e grassi. A quegli eccessi io penso, che straripano dalla vita per correre alla morte, alla sicura sofferenza. Il cibo è un introibo ad ara sexus e chi mangia da solo ha problemi con l'altro sesso. Ben lo sapevano Cassiano e Girolamo che reclutavano santi illibati, denunciando la buona tavola come propedeutica ai riprovevoli assalti amorosi.

Dalla tavola al letto il passaggio è ovvio, specialmente se si abita in un monovano. Quindi non mangiare come undicesimo comandamento, o mangiare soli come dodicesimo comandamento, ché - sostiene Montanari in polemica, crediamo, con i Santi - prendere pasti in compagnia dell'altro sesso crea complicità, fa circolare il desiderio e la sensazione del piacere. Mangiare poco o essere perennemente affamati è da villano; fu colpa di Pulcinella, plebeo idealtipo italico. Al contrario avere appetiti robusti (non solo di cibo, ma di sesso perchè il piacere è come la nespola: una tira l'altra), l'appetito robusto è virtù regale come ebbe a verificare, a proprio danno, Guido, duca di Spoleto, che perdette, in quanto disappetente, la corona dei Franchi.

Il potere è appetito, come ben sappiamo noi, ben sanno gli amministratori della cosa pubblica. E si mangia quel che si è. Se uno è mediterraneo non può che non cibarsi secondo quella che sarà definita dieta mediterranea: olio e cereali, frutta e vino; se uno è albionico, barbaro - per intenderci - appartiene ai carnivori: porco e lardo, birra e burro. Prima della grande rivoluzione e dell'americanizzazione fastfoodistìca che completò la industrializzazione dell'attività di lavoro, la cucina aveva un suo zoccolo duro, il suo "fondo" per il quale il francese era rana, il tedesco crauto, l'italiano pizza o spaghetti e così via.

Dalla civiltà antica e medievale a quella moderna, preamericana, dal cibo-cosa al cibo-simbolo, dal guerriero con la spada in mano e un cosciotto di agnello nell'altra allo stratega da tavolino che mette tra sé e la vivanda la distanza delle posate, dell'incivilimento, della tecnologia cortese. Nonostante la fame dell'età moderna, delle carestie, della bassa produttività agricola, il cibo ora(nel secondo volume laterziano "Nuovo Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell'età moderna") si ostenta, si mostra come potere, come l'architettura berniniana che è un'angoscia dell'anima, ostentazione di arroganza istituzionale, potere papale prima ancora di essere un omaggio del credente a Dio.

E' la Controriforma, nasce la modernità: come "progressiva chiusura in se stessi dei ceti dominanti, distacco tra il capo e il suo popolo. Mostrare da "monstruo": il cibo come mostra, ostentazione, mostruosità che atterrisce, che affanna e non consola. Potlac ovvero pratica di annichilimento dell'altro attraverso lo spreco delle proprie risorse residuali. Il potere è qualità alimentare; chi non ha potere si cibi di rape cotte sotto la cenere a meno che voglia morire con "aspri duoli" come il Bertoldo di Giulio Cesare Croce. Il potere è recinzioni di incolti, privatizzazione di aree comunitarie per colture d'esportazione. La dieta contadina si impoverisce e si rifugia nel sogno, nel paese di Cuccagna dove si ostenta il risarcimento onírico del "cafone" affamato più della famigerata pecora dei l'utopia thomasmoriana.

Benedice questa lotta, fra segni ostentatori e sogni cuccagneschi, l'ostensorio del pensiero ecclesiastico che tartufescamente tollera lo spreco signorile e asperge sacralmente l'indigenza del desco povero come via salutista al paradiso. Eccovi il racconto della storia dell'età moderna attraverso la cucina. La storiografia come esercizio di stile. E parliamo dello "stile" di un autore che ha dissolto mille luoghi comuni della storiografia "forte", sensata e "scientifica". L'autore è Simon Schama, l'opera da cui traggo la citazione gastronomica è "La cultura olandese dell'epoca d'oro 1988, (Thc embarassment of riches 1987)": "Voedsel, la parola olandese per vettovaglie, ha la stessa radice, voeden (nutrire), della parola più corrente per educazione e formazione, opvoeding.

I nuovi figli d'Israele, quindi, come quelli antichi, erano ciò che mangiavano ... Il formaggio, ad esempio, (insieme con le aringhe), era il cibo del l'uguaglianza... "nazione di formaggiai"... Il famoso hutsepot acquisì verso la metà del, secolo lo status di piatto nazionale... Lo stufato di carne e verdura era considerato con molto rispetto come un vero vaderlandse voedesel, analogo al l'identificazione settecentesca del " ibero inglese" con il roast-beef. Più che un semplice commestibile, era un cibo che doveva allo stesso tempo riflettere le qualità di coloro che lo mangiavano e rinforzarle per il suo nutrimento. Come John Bull cresciuto aroast-beef era viri le, semplice e sanguigno quanto il suo cibo prediletto, così gli olandesi si consideravano la Repubblica del hutsepot: ricca, varia, armoniosamente assortita, sincera, sana, non pretenziosa e stabile. li roast-beef era il piatto eroico dell'uomo d'azione, che univa muscoli e sangue, energia e potere.

I grandi stufati degli olandesi si accordavano meglio all'umanesimo meditativo: scelti e raccolti con cura, eclettici nel contenuto, moderamente speziati, cotti a fuoco lento e mangiati e assaporati ancor più ponderatamente... Il vero hutsepot, come ribadivano i libri di cucina del diciassettesimo secolo, era una ricetta classica in cui le verdure potevano variare secondo la stagione e la carne secondo la disponibilità dei momento: Prendete del montone o del manzo, lavatelo bene e tagliatelo a pezzettini. Aggiungete verdure fresche o pastinache oppure prugne farcite ed il succo di limoni o aranci o cedri oppure una pinta di aceto forte e chiaro. Mescolate questi ingredienti, mettete la pentola a fuoco basso (per almeno tre ore e mezzo); aggiungete un pò di zenzero e del burro fuso; avrete preparato un ottimo hutsepot.

Nella ricetta sono presenti i vari tesori dell'economia olandese: dell'agricoltura, del commercio e dell'orti coltura. Latticini, carne e verdura fresca dell'Olanda, spezie delle Indíe, cedri del Levante e aceto di vino del Mediterraneo si ritrovano tutti nel la pentola ribollente di carne del hutsepot. Abbondante più che ghiotto, modesto più che povero, lo stufato nazionale era il modo perfetto di autorizzare l'abbondanza senza rischiare la punizione dell'ingordigia. Nel racconto dell'Olanda di Shama i riferimenti alla storia etico-politica sono di contorno, mentre la vivanda centrale è la polemica dura fino all'irriverenza contro una tesi di grande stupidità, quella dello spirito capitalistico del protestantesimo di Max Weber. E tutto questo per un piatto di carne e verdura.